III
La vita nelle campagne
Dall’epoca neolitica fino ai giorni nostri, Creta è sempre rimasta un’isola di contadini. Anche adesso, quando la gente della campagna affluisce verso le città, più di due terzi dei cretesi vivono ancora dello sfruttamento diretto della terra, come coltivatori o come allevatori. E, in moltissime borgate, gli abitanti conservano costumi rurali, coltivando qualche pezzetto di terra, tenendosi in casa una capra, un asino e del pollame, e andando, durante la stagione, a vendemmiare o a raccogliere le olive nei campi. I quartieri situati nella periferia delle città più grandi sono abitati unicamente da contadini. La vita rurale si ferma dove scompaiono gli alberi e il bestiame. In questo senso, la maggior parte delle città minoiche, con i loro grandi spazi coltivati, le loro stalle e le loro cantine, oggi ci sembrerebbero grandi villaggi.
La regola generale è sempre stata quella dell’habitat raggruppato. Poche, quasi nessuna, le fattorie isolate. È stato possibile calcolare che la popolazione media dei villaggi cretesi aveva oscillato tra i centocinquanta e i duecento abitanti del XVI secolo, data delle prime statistiche, fino al 1881, data dell’ultimo censimento turco.1 Ancora oggi, i villaggi superano molto raramente i cinquecento abitanti. Queste cifre ci forniscono un ordine di grandezza per gli agglomerati rurali dei più bei periodi dell’antichità. Quanto ai tipi di habitat, andavano dalle frazioncine situate accanto a piccole sorgenti, nelle regioni dal terreno impermeabile, ai villaggi, le cui case di forma cubica si stringevano e si ammassavano sui contrafforti delle montagne, e ai raggruppamenti di frazioni vicini alla nascita dei corsi d’acqua più grossi. Le grandi pianure rimanevano sgombre. Nelle vallate costiere delle due estremità dell’isola, Sitia e Selinon, gli agglomerati spesso minuscoli si perdevano, come oggi, tra le vigne e gli uliveti. Qualche volta, il villaggio stesso si raddoppiava: possedeva le sue capanne estive negli alpeggi o sugli altopiani dell’Omalos o del Khataro, e gli abitanti delle zone montagnose, inversamente, avevano sulla costa pascoli e ripari invernali per il loro bestiame, o luoghi di pesca per la bella stagione. Si pensa anche che certi villaggi dell’interno, come ai giorni nostri, possedessero sulla costa meridionale, piuttosto arida, dei ripari estivi per la raccolta delle carrube. Come regola generale, un tempo come oggi, il terriero restava vicino alla sua terra e la sorvegliava attentamente, tranne quando, costretto dalla necessità, doveva andare a far legna o a cacciare un po’ più lontano.
Nulla di più uniforme, in apparenza, di questa vita nei villaggi. Venticinque anni fa, si sentivano ancora i contadini cretesi sospirare: «La nostra esistenza è monotona. Non capita mai niente. E si ricomincia sempre tutto da capo». Soltanto i grandi avvenimenti della vita familiare, nascite, matrimoni e morti, le guerre e le catastrofi naturali creavano un po’ di animazione nelle comunità. E queste comunità, ritrovandosi, davano l’impressione di un mondo chiuso, di una storia orizzontale e senza profondità. I sociologi, basandosi sulla comparazione con le civiltà stagnanti e sulla continuità dei modelli dell’architettura e degli utensili cretesi nel corso dei secoli, parlano volentieri, riferendosi all’epoca minoica, di una società tribale.2 Con questo, non intendono alludere a raggruppamenti di persone che vivessero intorno a un capo, in condizioni primitive o barbare, ma a raggruppamenti di modeste dimensioni, con costumi sociali, politici, morali ed economici limitati al loro piccolo orizzonte, e con rapporti di comunicazione ristretti nel tempo e nello spazio, senza grandi differenziazioni né specializzazioni, senza scrittura, senza rivoluzione. Di un simile tipo di società, essi lodano la coesione del gruppo, la sua indipendenza, la sua capacità di bastare a se stesso, l’equilibrio e l’elasticità delle forze giuridiche che lo mantengono in vita, la notevole parsimonia dei progetti e dei disegni. E, se si considerano le leggi di Gortina,3 incise intorno al 430 a.C., in cui la tribù sostiene una parte così importante nella rivendicazione delle terre, o se si pensa alle tribù femminili Kamiris e Pharkaris di Praisos e di Ierapytna nell’epoca ellenistica, c’è poco da dubitare sul fatto che Creta, a dispetto di invasioni di ogni sorta, avesse conservato dall’epoca minoica una notevole quantità di usanze tribali. A Gortina, le donne erano annoverate tra i membri della tribù. Se toccava loro un’eredità come vedove, come nubili o come divorziate, potevano sposarsi liberamente soltanto se nessun membro della tribù voleva saperne di loro. Inoltre, i parenti più prossimi dovevano fare una dichiarazione e appelli d’offerta alla tribù per trenta giorni. Certamente in questo vi sono rimanenze di endogamia e di proprietà tribale. Inoltre, si possiede la prova che diverse forme di proprietà collettiva erano sopravvissute fino agli inizi dell’era cristiana. Certi villaggi, un tempo come oggi, per esempio Melidokhori (Monofastiou), conoscevano il regime del clan. La stretta solidarietà si basava su una parentela: tutti si credevano generati da un antenato comune, quale che fosse il modo di filiazione, patrilineare o matrilineare. Gli abitanti regolavano le loro controversie in famiglia. Si vendicavano collettivamente. La terra era di proprietà comune. Seguivano riti religiosi particolari. Se dobbiamo credere ai dipinti delle tombe egiziane del XV secolo a.C., si coprivano il volto di tatuaggi o di disegni speciali. Sotto il regime del clan, praticavano l’esogamia, vale a dire che, a differenza delle società tribali, si cercavano moglie altrove. Come dimostra la giustapposizione delle tombe collettive del Minoico antico e dell’inizio del Minoico medio, uno stesso villaggio poteva contare parecchi clan.4
Quest’evidente contrasto negli usi e nelle tradizioni dimostra come fosse sbagliato immaginare che la vita di campagna a Creta, in quell’epoca, fosse immobile. Le comunità conoscevano un equilibrio più dinamico che statico. Se i cambiamenti si limitavano a una scala modesta, tuttavia finivano per alterare a poco a poco l’ordine esistente. Tre fattori rimettevano in causa la tradizione, ridestando i villaggi dal loro torpore. I matrimoni, prima di tutto, che non possiamo immaginare senza doti né divorzi, senza rivendicazioni né diritti di successione. Se il figlio o la figlia, con il suo corredo, i suoi mobili, le sue provviste, lasciava la casa familiare o adottiva per andare a stabilirsi in un altro villaggio, l’uno e l’altra stabilivano nuovi rapporti di forza e di proprietà tra le comunità. Quando morivano, gli eredi ne rivendicavano i beni e i diritti, tanto più contestabili in quanto i defunti appartenevano a clan con usanze differenti, a tribù con lingue e culture differenti. Questa mescolanza delle popolazioni permette di comprendere in parte la formazione di unità più vaste di quelle imposte dalla semplice geografia, e spiega le liti più comuni e i giudizi degli anziani che, ancora oggi in certi villaggi, credono di conoscere il costume e la tradizione.
All’inizio del Minoico medio Creta attraversa una fase di espansione demografica ed economica. L’alto tasso di natalità fa cedere le frontiere troppo strette del clan e della famiglia. I villaggi devono abbandonare le tombe a volta, diventate troppo strette e troppo piene. Nuovi pionieri lasciano ogni comunità per andar a dissodare nuove terre lontane, prendere il mare, tentare l’avventura all’estero. Vanno a fondare altrove nuovi focolari, e a sostituire questa o quella forma di proprietà individuale alla forma di cultura collettiva nella quale sono nati. Se ritornano, portano con sé idee, esigenze e modi di vita nuovi. Perfino oggetti nuovi, fabbricati in Egitto, in Siria, in Asia Minore o nelle isole, e che gli archeologi identificano nelle tombe. Così ai giorni nostri il cretese «americano», dopo aver fatto fortuna, verso la sessantina ritorna nel villaggio e, parlando dei suoi ricordi o mostrando i tesori riportati dall’America, induce la gioventù a sognare viaggi o fortune. Ma la principale conseguenza di questo eccesso di fecondità è stata quella di moltiplicare la manodopera rurale e di intensificare lo sfruttamento dei terreni. All’inizio del II millennio è comparso un surplus alimentare considerevole, e si è presentata la necessità d’immagazzinarlo, suddividerlo e smaltirlo, perché non andasse perduto o fosse saccheggiato. Le giare, nei ripostigli della famiglia o della comunità, da piccole che erano sono diventate enormi. Ma né le olive né la frutta secca, né le granaglie né i liquidi si mantengono indefinitamente, e nemmeno l’uomo più potente o più attivo del villaggio è in grado di assicurarne la conservazione. I contadini cretesi hanno messo i prodotti della fattoria sotto protezione degli dèi della propria terra e del cielo. Nella stessa epoca in cui si costruiscono i primi «palazzi», si sviluppano tre tipi di santuari collettivi: sulle vette delle montagne, nelle profondità delle grotte e in aperta campagna. Anche i pretesi palazzi non sono altro che santuari, e assorbono la sovrabbondanza di manodopera umana e della produzione alimentare delle comunità, sempre più mescolate. Amministrano una decima sacra, un bene collettivo sacro, un personale sacro, esposti a cadere un giorno nelle mani di profani. In breve, ciò che scuote il villaggio dal suo torpore è la necessità di pagare l’esattore dell’Aldilà. Il quale, intorno al 1500 a.C., è diventato tanto più esigente, in quanto da qualche generazione si è trasformato in un’istituzione che sembra eterna.
Infine, un fatto umano stuzzica costantemente l’interesse dei nostri campagnuoli: l’arrivo al villaggio di persone che non sono né allevatori né coltivatori, ma artigiani specializzati, o mercanti, o guaritori, o indovini, tutti individui sempre in movimento, ma ricchi di novità e stimolatori di bisogni. Da quando il tornio rapido ha sostituito il tornio lento, la produzione dei vasi è diventata così enorme, che il vasaio di un villaggio, o la squadra di vasai a cui appartiene, deve girare di paese in paese per offrire la sua merce, da principio in cambio di cibo, e in seguito in cambio di manufatti. Questo presuppone che la comunità aperta alla quale si rivolge produca un surplus in grado di farla vivere. E presuppone soprattutto impieghi differenziati all’interno dei villaggi minoici più evoluti. Nell’osservare il carattere tradizionale della professione di vasaio,5 tutto il materiale e l’abilità appresa che esige, viene fatto di pensare che a Creta, già nell’epoca del bronzo, esistessero corporazioni di specialisti, e perfino villaggi specializzati nella fabbricazione dei grandi otri, simili a quelli che si trovano in ognuno dei quattro distretti attuali, Gra Lygia, Thrapsano, Margarites e Nokhia. Le squadre si mettono in viaggio durante la stagione asciutta, in cerca di terreni argillosi, di acqua e di legna, costruiscono forni in aperta campagna, fabbricano i loro recipienti, li caricano sul dorso di muli o di asini e vanno a offrirli di porta in porta, da un distretto all’altro. I compagni ritornano a casa in autunno e si dividono l’incasso, secondo le regole del loro contratto d’associazione. Ma quanta curiosità, quante speculazioni hanno suscitato durante il loro giro! E facile immaginarsi le folle accorrere alla notizia dell’arrivo di un taumaturgo o di un veggente, oppure, al contrario, gli individui che consultano di nascosto i ciarlatani e gli indovini, in un villaggio dove si teme il malocchio. Ma è ancora più facile immaginarsi i fabbri e i calderai ambulanti, i prospettori di miniere, gli ottonai, perché una tradizione letteraria e archeologica ininterrotta dall’età del bronzo fino ai giorni nostri ci permette di seguirli nelle loro migrazioni, in Asia minore, nelle Cicladi e a Creta.6 I compagni di Zeus, padre di Minosse, sono i Ciclopi, i Dattili, i Telchini, tutti operai specializzati e migranti, come Dedalo e i suoi compagni, come i gitani, loro lontani successori del Medioevo e dei tempi moderni. Anch’essi agiscono misteriosamente, si nascondono tra le gole delle montagne, alloggiano nelle caverne, passano per maghi e fattucchieri, conoscono l’avvenire, rubano il pollame dei villaggi, ma forniscono alla loro clientela gli attrezzi e gli utensili che le consentono di lavorare e di vivere meglio. Sono temuti, ma anche rispettati. Sono gli unici esseri liberi del mondo. Dato che conoscono i segreti dell’arte e dell’avvenire, talvolta i potenti affidano loro i propri figli, perché siano formati. Questi stranieri sono stati quasi sempre il fermento di civiltà più attivo del mondo mediterraneo, e delle società tribali in particolare.
Per riassumere, intorno alla metà del II millennio il villaggio cretese, o almeno quello delle grandi pianure e delle vallate costiere, è percorso da tali correnti interne ed esterne, che si può considerarlo come una piccola società abbastanza differenziata. Una società che dipende strettamente da un’autorità centrale, di carattere religioso. Per le sue produzioni e le sue costruzioni, ha bisogno di tecnici stranieri, e per esaurire i suoi surplus, di venditori ambulanti o mercanti stranieri. E, per complicare la situazione, parecchi abitanti dei villaggi costieri sono al tempo stesso coltivatori, negozianti e marinai.
Seguiremo più tardi questi vari specialisti, all’interno della comunità rurale. Per il momento, accontentiamoci di penetrare in qualcuna delle case rurali portate in luce dal piccone dell’archeologo. Sono facili da isolare, poiché la tendenza dei villaggi era generalmente centrifuga. Una delle abitazioni più antiche e più semplici appartiene a un habitat minoico sparso tra i due attuali villaggi di Kousè e di Siva, sul margine meridionale della piana della Mesara, a un’ora di cammino da Festo, verso sud.7 Sorge a 120 metri di altitudine circa, su uno dei primi pendii del massiccio degli Asterousia, nelle vicinanze di una sorgente perenne, detta «di Santa Marina». Le fondamenta sono fatte con pesanti blocchi calcarei di uno spessore di 80 centimetri, i cui vuoti sono riempiti di pietre più piccole. Su questa base quadrata con 11 metri di lato, ricoperta di argilla, si erge una fila di strutture lignee alte circa 3 metri, e rivestite di sassi e di terra argillosa, i cui pali e travicelli sorreggono un tetto a terrazza. Questo tetto è fatto di travi sommariamente squadrate e coperte di rami, di giunchi e di uno spesso strato di argilla bianca, destinata a impermeabilizzarlo.8 I tetti di questo tipo sono di una solidità a tutta prova. Vi si cammina sopra senza correr rischi, e durante la bella stagione vi si dorme anche, quando lo spazio non è adoperato per far seccare granaglie o frutta. Si entra nella sala principale, sull’angolo sudovest, da una porta di legno che si apre verso l’esterno e all’interno si chiude con una sbarra. Lo spazio è ampio: 6 x 6 metri. Niente lastricato, ma un pavimento di terra battuta. Nel centro della sala, una colonna di legno fa da supporto intermedio alle travi della struttura. L’illuminazione viene da una finestra bassa, a sinistra. Al posto dei vetri, pergamene trasparenti. Lungo le pareti laterali, in una muratura composta di sassi, paglia e argilla, sono allineati varie bacinelle di pietra, trogoli e mortai, piccoli frantoi per olive o grano, alcuni vasi di terracotta, giare, brocche e anfore, una marmitta o pentola per mille usi. Su scaffali e su una tavola rotonda a tre piedi sono posate coppe, bicchieri, boccali e pietre per affilare. Qua e là, qualche sgabello, perché si mangia seduti. Una banchina di legno, su cui sono ammassate coperte, serve da letto e, all’occasione, da sedile. In fondo alla sala si aprono due stanzette adibite a cantina. Sul lato destro di questa stessa sala, pochi gradini di legno portano a una stanza più alta, rettangolare, di 6 x 3 metri, illuminata da un’apertura a est. Qui soggiornano per quasi tutto il tempo le donne della casa che, su una lastricatura speciale, hanno il loro telaio, una o due casse, un vaso per l’olio. Un altro stanzino, completamente a nord, contiene un orcio e forse una branda montata su quattro piedi di legno.
In questo inventario, può stupire l’assenza di una cucina, di gabinetti e di una stalla. Ma i cretesi, anche moderni, non se ne meraviglierebbero. Ancora oggi, gli alimenti si cuociono molto spesso all’aperto, nella corte, lungo un muro di recinto che serve da focolare. L’ho visto fare centinaia di volte. La casa evita così la fuliggine e il fumo, e i rischi d’incendio. I bisogni naturali si soddisfano nei campi o, quando piove o nevica, nel pollaio o nella stalla, a fianco della casa. Il poco pollame e l’asino domestico, infatti, passano la notte e si riparano dal freddo in una capanna fatta di argilla, sassi e paglia e coperta con rami, addossata a uno dei lati della casa. E, la mattina presto, ne svegliano gli abitanti con i loro richiami. Al muro sono appesi alcuni strumenti: una scala a pioli di legno, un aratro, zappe, corde o bardature. Non c’è né una carriola né un carretto, né un paiolo di metallo. Per i contadini, il bronzo è ancora un materiale raro e prezioso. In tutta questa vecchia casa, i ricercatori hanno trovato soltanto una lama di coltello da cucina dalla punta arrotondata. Senza essere né povera né primitiva, è una delle abitazioni più comuni che esistano: a pianta quadrata, ha soltanto il pianterreno, suddiviso in due parti ben distinte; le sue piccole provviste di frutta secca, olive e grano sono riposte sul lato nord, il più fresco; la mobilia è semplice, di terracotta e di legno. Eppure era solida, poiché è durata almeno trecento anni, prima di crollare tra le fiamme, intorno al 1500 a.C. Infine, nessun oggetto religioso, tranne forse un frammento di stalagmite, vagamente simile a una gallina che cova: un feticcio?
Un esempio un po’ più complicato di casa rurale è offerto da una costruzione in pietra e in argilla mista a paglia e sassi, di dimensioni quasi uguali (10,40 x 11,70 metri), riportata in luce nel 1965 e situata 700 metri a nord est del «palazzo» di Malia.9 Appartiene a una piccola comunità insediata di fronte all’isolotto di Agia Varvara, con una vocazione marittima e agricola insieme. L’ingresso, in questo caso, si trova a nord, e ha una soglia di pietra non squadrata. Si entra in un cortiletto, con il suolo di terra battuta. Si scende uno scalino di legno. Attraverso una finestra bassa nell’angolo nordovest, si vede una colonna centrale di legno sul suo basamento di calcare azzurrognolo, l’anfora e i mobili disposti lungo le pareti e, vicino all’entrata, un grande ammasso di pietre, in cui vi sono due paioli con l’interno bruciato, come se avessero contenuto del carbone. A fianco, una scala con pochi gradini conduce all’appartamento delle donne, con il pavimento di legno, dove si distingue ancora l’incastro dei montanti di un telaio. Lì accanto, nella cantina si trovano più di venti vasi di diverse misure: dopo trentaquattro secoli, si vedono ancora vecce e un po’ di grano, in fondo a un grande orcio e a un’anfora dall’imboccatura ellittica. Sono stati raccolti, inoltre, contrappesi da tessitura, un certo numero di pietre grezze ma tutte forate, usate per zavorrare una rete da pesca, un sigillo e un piccolo lingotto di rame non lavorato. Nella parte occidentale della casa,...