II
STORIE CLINICHE
| | Ascoltate i vostri pazienti; |
| | lasciate che siano loro a insegnare a voi. |
| | Per diventare saggi dovete rimanere studenti. |
| | Irvin D. Yalom1 |
1 I. D. YALOM, Momma and the Meaning of Life: Tales from Psychotherapy, HarperCollins, New York 1999 (trad. it. Il senso della vita, Neri Pozza, Vicenza 2016, p. 23).
Capitolo 1
Beatrice: la donna che aveva perso ogni speranza
Beatrice è nata nel 1972 in un continente diverso dal nostro. In quel continente la sua famiglia, proveniente da un piccolo paese dell’Italia meridionale, era andata in cerca di fortuna e, grazie a un duro lavoro, nel giro di qualche anno aveva raggiunto una buona posizione economica. Per quanto ci provasse, Carmela, mamma di Beatrice, non riusciva ad avere figli. Infine, dopo otto aborti spontanei e nove lunghi mesi di gravidanza passati interamente a letto nel riposo più assoluto, arrivò la sua prima bambina, Beatrice. L’anno successivo arrivò anche una sorellina.
Beatrice trascorse i primi anni di vita nel nuovo continente. La sua famiglia abitava in riva al mare, proprio di fronte alla spiaggia. La bambina crebbe libera, così come liberi sono sempre stati lasciati i numerosi cugini e la sorella. I ritmi di lavoro della famiglia non avrebbero certo permesso di controllare quei ragazzini che fortunatamente, dato il contesto in cui vivevano, non correvano particolari rischi. Fu così che Beatrice acquisì quel carattere indipendente che avrebbe connotato il resto della sua vita e che colpì Luigi la prima volta che la incontrò.
All’età di sette anni Beatrice fu costretta a rientrare in Italia. È stato un trauma dal quale non è mai riuscita a risollevarsi completamente. La libertà assoluta e una vita trascorsa in mezzo a una natura incontaminata non erano minimamente paragonabili agli spazi in cui si sentì reclusa al suo rientro. A quella perdita non si sarebbe mai rassegnata. Il suo bisogno di evasione sembrò trovare una risposta nei paradisi artificiali che varie sostanze, per un lungo periodo, furono in grado di darle.
A undici-dodici anni già beveva vino e birra tutti i giorni. A tredici questo sembrò non bastarle più: iniziò anche ad assumere superalcolici, non disdegnando nemmeno il fumo di tabacco e gli spinelli. Ben presto l’effetto che otteneva da queste assunzioni divenne a sua volta insufficiente e, ad appena quattordici anni, provò la cocaina. Si «innamorò» subito di quella sostanza e l’uso divenne ben presto quotidiano. Che la assumesse oppure no, la cocaina da allora è stata sempre presente in lei, anche solo sotto forma di pensiero o di desiderio, come ci ha confessato verso la fine del trattamento.
Anno dopo anno la dose giornaliera di cocaina, come da prassi, aumentò inesorabilmente, fino ad assestarsi per un certo periodo a non meno di 1-2 grammi al giorno, inalati; contemporaneamente era però aumentata anche l’assunzione delle altre sostanze, prima fra tutte l’alcol. Come ha raccontato durante il suo trattamento, all’età di ventitré anni Beatrice, oltre alla cocaina, beveva circa due-tre litri di vino al giorno e arrivava a fumare non meno di venti-venticinque spinelli.
L’arrivo presso l’ambulatorio di Padova
Quando Beatrice approdò per la prima volta all’ambulatorio di Luigi aveva trentotto anni. Riferì che non ne poteva più di farsi di cocaina e che era ben determinata a smettere. Per questo si era rivolta all’ambulatorio. Durante quel primo incontro apparve subito evidente la presenza di un grave problema con l’alcol, che la paziente aveva completamente ignorato. Cocaina e alcol hanno del resto quasi sempre «bisogno» l’una dell’altro: da un lato la cocaina è in grado di far cessare quasi d’incanto un’ubriacatura, che renderebbe difficile «godersi» la serata fino alla fine; dall’altro lato l’alcol potenzia l’effetto piacevole della cocaina riducendo lo stato di agitazione inevitabilmente associato all’assunzione di quella sostanza.
Quando un paziente si presenta per la prima volta nel suo ambulatorio, Luigi è solito richiedere la presenza di un referente affettivo: senza di essa non può avere inizio alcun trattamento. Beatrice propose il suo datore di lavoro, che si dichiarò disponibile. Era un amico di lunga data, suo e della sua famiglia. Da poco aveva trasferito l’azienda di proprietà in un importante capoluogo di provincia del Centro Italia, dove Beatrice aveva accettato di seguirlo come dipendente.
Vista la gravità della situazione clinica con la quale Beatrice si presentò a Luigi, venne deciso un immediato ricovero in casa di cura. Al termine del ricovero, durato cinque giorni, iniziarono le cure ambulatoriali. Alla dimissione la paziente, giorno dopo giorno, cominciò a sentirsi meglio. Manifestò quindi il desiderio di riprendere il suo lavoro e fu accontentata. Lo fece con un impegno tale da stupire se stessa per prima, ma anche i suoi colleghi, che serbavano il ricordo delle condizioni in cui l’avevano lasciata prima che partisse per Padova. Nel suo nuovo ruolo di paziente in trattamento, Beatrice non trascurò mai di assumere la terapia che le era stata prescritta. Mantenne, come da esplicita richiesta del team curante, regolari contatti telefonici con lo psicologo a cui era stata affidata e si sottopose con la frequenza richiesta ai monitoraggi tossicologici urinari, con risultati sempre negativi. Agli incontri medici, fissati presso l’ambulatorio padovano, si presentò regolarmente nelle date concordate, quasi irriconoscibile per come era migliorato il suo aspetto. Non mancò mai a un appuntamento, nonostante vivesse e lavorasse ad alcune centinaia di chilometri di distanza da Padova.
Le cose sembravano procedere per il meglio. La paziente, i colleghi e i familiari erano molto soddisfatti di come stavano andando le cose. Eppure, come avviene per la maggior parte dei pazienti trattati nell’ambulatorio, prima o poi la «luna di miele» sarebbe cessata anche per Beatrice.
Pur continuando a mantenere i contatti giornalieri con lo staff curante e ad assumere la terapia farmacologica, sempre in presenza del suo referente affettivo, cominciò dapprima ad abusare di quelle stesse benzodiazepine che le erano state prescritte; di lì a poco, pur continuando ad assumere tutti gli altri farmaci, si rifiutò con determinazione di proseguire con il disulfiram.2 Questo le permise, di lì a qualche giorno, di iniziare a bere qualche bicchiere di vino. Come era inevitabile, cominciò a perdere sempre più il controllo sulla quantità di alcol che si prefiggeva di assumere giornalmente. Nel giro di qualche settimana il desiderio di cocaina divenne così forte che iniziò a sniffarla di nuovo.
In breve tempo la situazione era tornata quasi come prima della cura. Quasi: con tutta evidenza, infatti, una parte di Beatrice sapeva di non essere più sola come prima, sapeva che il team dell’ambulatorio padovano per lei rappresentava una flebile, ma importante speranza. Era stata troppo bene durante quei tre mesi, si era sentita molto aiutata. Per la prima volta in vita sua aveva sperimentato sensazioni di quel tipo. Ma la voglia di alcol e di cocaina aveva finito per travolgere tutto. A nulla erano valsi i suoi tentativi di opporsi: troppo grande la sproporzione tra la sua voglia di assumere cocaina e la sua volontà di non farlo.
Luigi era ben consapevole che, dopo la ricaduta, l’unica strada da percorrere, prima di riformulare un nuovo progetto di trattamento, consisteva nel procedere a una nuova disintossicazione. A Beatrice fu chiesto di trattenersi a Padova per alcune settimane. Accettò grazie anche alla disponibilità del suo datore di lavoro.
È difficile rendere l’idea di quel che avvenne durante le settimane di permanenza di Beatrice a Padova dopo la ricaduta. La prima cosa che fece fu «mettersi» con un altro paziente in cura nell’ambulatorio. A seguito di questa decisione lasciò la pensione dove si era sistemata e andò a vivere con lui, stringendo un rapporto che divenne fortemente simbiotico. Non potevano vivere l’uno senza l’altra, nemmeno per un istante. In quanto simbiotica, inizialmente la relazione appagò entrambi al punto da sostituire la cocaina. Continuarono per qualche settimana a frequentare l’ambulatorio, anche se con l’atteggiamento di sfida di chi, avendo le urine pulite, sembrava rinfacciare: «Visto chi aveva ragione?».
Che l’innamoramento possa controllare la voglia di cocaina, sostituendosi a essa, per un periodo comunque limitato di tempo, è cosa nota anche ai neuroscienziati.3 L’antropologa Helen Fisher, nota per i suoi studi sulle emozioni nei mammiferi, uomo e donna compresi, afferma che il romantic love va considerato una vera e propria addiction: «Meravigliosa quando le cose vanno bene, orribile quando vanno male». A sostegno della sua ipotesi la studiosa porta alcune evidenze importanti. L’innamoramento romantico condivide con la dipendenza da cocaina almeno tre segni «clinici»: la tolleranza («ancora e sempre di più»), l’astinenza («la penosa disforia che assale la persona in mancanza dell’oggetto amato») e la ricaduta («fallimento dei buoni propositi di non cercare più l’oggetto amato»).
Ma per quanto ci riguarda esistono naturalmente delle differenze tra le due condizioni, anche se non semplici da comprendere. Possiamo collocare una prima differenza nell’antinomia verità -falsità , o per meglio dire autenticità -inautenticità . Il romantic love è generato dalla presenza di un oggetto esterno reale: quindi potrebbe, terminata la fase dell’innamoramento, trasformarsi nel polo di una coppia vera. Nel caso del cocainomane, invece, la sensazione che egli prova, pur essendo indistinguibile da quella dell’innamorato, come sostiene Fisher,4 arriva dall’ambiente esterno non sotto forma di oggetto ma di sostanza chimica: nella totale assenza di un oggetto esterno reale, è però presente come sostituto d’oggetto in forma virtuale.
Una seconda differenza risiede nel fatto che il dipendente da cocaina può controllare l’oggetto, possederlo a proprio piacimento. Questa opportunità è ovviamente assente nel caso di una relazione interpersonale. In altre parole, l’altro può non dipendere da noi, mentre la cocaina no. Questo comporta l’assenza dell’angoscia di essere abbandonati dalla sostanza. Ed è forse anche per questo motivo che dopo il trattamento con rTMS, che provoca nel paziente una progressiva indifferenza verso la cocaina, si prova la sensazione di essere stati traditi, cioè abbandonati, come se l’oggetto d’amore non fosse più disponibile: infatti prima della rTMS era utilizzabile secondo i propri bisogni. Questa osservazione, come vedremo più avanti, avrà importanti ricadute sulla natura dell’aiuto psicologico da fornire al paziente in trattamento con stimolazione magnetica transcranica.
Quando in Beatrice e nel suo compagno cessò lo stato di romantic love, come era naturale avvenisse, i due, entrambi incapaci di affrontare la vita senza il supporto di quel tipo di emozione, cercarono di riprodurla ricorrendo nuovamente alla cocaina. Dopo la loro ennesima ricaduta l’ambulatorio di Luigi non fu più in grado di gestire entrambi i pazienti, dati i comportamenti da loro messi in atto. Fu deciso di trasferire Beatrice in un appartamento protetto, reso disponibile per lei da una comunità terapeutica con la quale il team padovano allora aveva una stretta collaborazione. Ma il comportamento di Beatrice divenne rapidamente incompatibile con la vita di comunità e la portò ben presto ad abbandonare la struttura, senza minimamente preoccuparsi di quale sarebbe stato il suo futuro.
Dopo che Beatrice ebbe abbandonato la comunità terapeutica in cui, non senza fatica, era stata inserita, l’ambulatorio padovano non disponeva più di alcuna risorsa per cercare di aiutarla. Pertanto, d’accordo con i suoi familiari, si decise il suo rientro a casa, nel suo paesino. Non si trattava, come sarebbe potuto apparire a un osservatore esterno, di un’espulsione dal trattamento. Al contrario, era un estremo tentativo di recupero: da parte dell’ambulatorio padovano era rimasta la totale disponibilità ad accogliere la paziente nel caso si fossero ricreate le condizioni utili a proseguire il lavoro terapeutico così bruscamente interrotto.
Privata della propria indipendenza da parte dei familiari, che non la perdevano mai di vista, la paziente si rassegnò a quella nuova vita. Ciò dimostrava ancora una volta il fatto che, se a un cervello dipendente si tolgono alcol e droga, il comportamento della persona può assumere una parvenza di assoluta normalità . Così era accaduto anche a Beatrice. Tuttavia non erano e non sarebbero cambiati il pensiero, il desiderio, la voglia del piacere della cocaina, sostenuti dal ricordo rimasto intatto nonostante il passare del tempo. Avrebbero potuto attendere anche anni per poi fare la loro ricomparsa.
In quel periodo, in Luigi e nel suo team era ancora radicata la speranza, rivelatasi del tutto infondata alla luce delle successive esperienze, che riuscendo a mantenere «pulito» per un lungo periodo il cervello di un dipendente da cocaina (nel caso di Beatrice fu tale per oltre due anni), e sfruttando questo periodo per fornire al paziente stesso un supporto psicoterapeutico in grado di dare una risposta efficace alle fragilità mentali del paziente, si sarebbero potute ricreare le condizioni per un suo ritorno a una vita normale, relegando la cocaina a un lontano ricordo.
A questo scopo, dopo una ricerca non facile, era stata individuata una psicoterapeuta competente e disponibile che risiedeva a circa cento chilometri dall’abitazione di Beatrice. Insieme iniziarono, con reciproca soddisfazione, un percorso psicoterapeutico che sembrò dare buoni frutti, anche sulla base delle informazioni che con regolarità la psicoterapeuta della paziente forniva allo studio padovano. Quando, dopo oltre due anni di stretta supervisione e di trattamento psicoterapico, Beatrice cominciò con insistenza a chiedere di rientrare nel suo ambiente di lavoro, confidando che grazie all’efficacia terapeutica della lunga astinenza e del lavoro psicologico si fossero realizzati gli effetti benefici auspicati, Luigi e il suo team, consapevoli che non si sarebbe potuto tenerla a vita in quella che lei aveva soprannominato la sua «gabbia d’oro», acconsentirono che fosse reintegrata nel suo posto di lavoro.
Furono sufficienti poche settimane di attività lavorativa a far sì che Beatrice, con assoluta determinazione, si rifiutasse di continuare a prendere il disulfiram. Non più protetta da quel farmaco, riprese a bere: a suo dire lo faceva per controllare il desiderio di cocaina che temeva che prima o poi si sarebbe ripresentato. Ma ottenne l’effetto opposto. Il desiderio della cocaina assunse in brevissimo tempo le sembianze di un craving sempre più intenso, ben presto incontrollabile con la sua volontà . Decise di sniffarne «qualche riga», convinta che, dati i due anni di totale astinenza appena trascorsi, sarebbe riuscita a farne un uso controllato. Ma nemmeno due mesi dopo aver ripreso il suo vecchio lavoro, e a oltre quattro anni dalla prima presa in carico da parte del team padovano, Beatrice sembrò essere tornata al punto di partenza.
Luigi e il suo team erano costernati, ma non stupiti. Quante volte, in passato, situazioni del tutto simili si erano verificate nell’ambulatorio? E quante volte lui e i suoi collaboratori avevano dovuto ricominciare da capo il lavoro, provati dalla fatica e dalla delusione, anche se mai rassegnati? Lo studio della letteratura scientifica sull’argomento, così come tutte le vie tentate in tanti anni di lavoro, non avevano mai permesso al team padovano di estinguere il desiderio della cocaina del tutto e in modo permanente, e quindi di scongiurare le ricadute. Il paziente rimaneva comunque sempre a rischio. La sua vita restava faticosa, anche nei casi in cui riusciva a mantenere l’astinenza. Giorno dopo giorno Luigi andava convincendosi che la vera e unica responsabile del quadro clinico che si osservava durante i periodi di astinenza dalla sostanza, per quanto lunghi fossero, dovesse essere una qualche alterazione cerebrale, tuttora sconosciuta.
In seguito a quell’ennesima ricaduta, la preoccupazione prioritaria di Luigi fu cercare di impedire in ogni modo che Beatrice perdesse il suo posto di lavoro, unico esile filo in grado di mantenere un contatto con la realtà al di fuori della famiglia di appartenenza. In via del tutto eccezionale, e «per l’ultima volta», il suo datore di lavoro le concesse di recarsi a Padova ogni settimana e di rimanerci ogni volta un paio di giorni, per sottoporsi alle cure necessarie. Il nuovo protocollo di trattamento prevedeva che Beatrice, rientrata al lavoro, avrebbe accettato di farsi somministrare farmaci e denaro da una collega e che, a differenza delle volte precedenti, si sarebbe recata tre volte la settimana da una psicoanalista che risiedeva vicino alla sua abitazione. Si sperava che, sottoponendo la paziente a un lavoro psicologico più profondo e ristrutturante, il pensiero e il ricordo del piacere della cocaina si sarebbero pian piano affievoliti.
Non fu facile trovare una figura professionale qualificata che si sentisse disponibile a farsi carico di un caso come quello di Beatrice, inaccettabile se si guarda ai tradizionali criteri psicoanalitici che vanno soddisfatti affinché si possa accogliere un paziente per quel tipo di trattamento.
Ma ancora una volta, come molte altre in futuro, l’incontro tra il caso e la necessità avrebbe fatto il miracolo. La collega, preoccupata e al tempo stesso affascinata dall’impresa, condivise con lo studio padovano la possibilità di lavorare insieme nel rispetto di tre regole, che vennero chiaramente esplicitate anche alla paziente prima di prenderla in trattamento. Le tre condizioni irrinunciabili poste insieme da Luigi e dalla psicoanalista consistevano ne...