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Faccio un sogno ricorrente. Ci sono io bambina e c’è mia madre. Lei sta cantando. Siamo in spiaggia, sedute su una vecchia coperta che conservo ancora nell’armadio. Sento il fragore delle onde mentre la voce della mamma cresce di intensità e poi si abbassa. Avverto il conforto del suo abbraccio e il calore del sole sulla pelle.
Vorrei che questo istante durasse per sempre.
Quando mi sveglio, il sogno mi manca. Mi manca il sole. Mi manca la mamma.
Vorrei con tutta me stessa che quella fosse la realtà, ma è impossibile, perché lei è morta quando avevo sei anni.
E poi io non posso stare al sole. Tipo… mai. Soffro di una rara malattia genetica, lo xeroderma pigmentoso, o XP: in parole povere, sono estremamente sensibile alla luce solare. Basta una minima esposizione e rischio il cancro alla pelle. Il mio corpo non riesce a riparare i danni causati dal sole e anche il cervello inizia a cedere: perdita dell’udito, delle facoltà intellettive e del linguaggio; difficoltà a camminare e a deglutire, crisi epilettiche. Ah, certo, e poi la morte.
Fico, no?
Così passo le mie giornate tappata in casa insieme a mio padre (il papà migliore del mondo) e a Morgan (l’amica migliore del mondo). Una volta con Morgan fingevamo che fossi rinchiusa nella torre buia (la mia stanza), come Rapunzel nell’Intreccio della torre. L’avremo visto centinaia di volte, quel cartone. A un certo punto, Rapunzel non ce la fa più, va fuori di testa e scappa con un tipo. Ora che sono cresciuta ti capisco perfettamente, sorella. E c’è un’altra cosa che abbiamo in comune noi due: come lei anche io devo resistere e lottare per ottenere il mio lieto fine. Magari non durerà a lungo, ma sarà comunque fantastico.
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Ecco, sto di nuovo divagando. È una brutta abitudine che a volte complica le cose. Adesso faccio un passo indietro e ricomincio da capo.
Ciao! Mi chiamo Katie Price. Magari vista da fuori – per esempio dalle finestre di casa mia, anche se è impossibile dato che ci sono speciali vetri oscuranti per bloccare qualunque spiraglio di raggi UV – potrei sembrarvi una patetica ragazzina malata che se ne sta affacciata a guardare la vita scorrerle davanti, ma in realtà non sono diversa dai miei coetanei, salvo per il “piccolo” particolare che non posso uscire di giorno.
Suono la chitarra, scrivo canzoni e poesie, e canto benissimo sotto la doccia. Ho una passione per l’astronomia e da grande vorrei fare l’astrofisica. Detesto i cavolini di Bruxelles, adoro la cucina cinese, penso che i carlini siano i più bei cani al mondo e ho il terrore dei ragni. Morgan, la mia migliore amica – diciamola tutta: la mia unica amica nella vita vera (detta così mette proprio tristezza, vero?) –, è una che spacca. E di certo vi spaccherà la faccia se non siete d’accordo.
Ah, giusto, poi ci sarebbe anche da dire che ho una cotta tremenda per Charlie Reed. È da quando mi hanno diagnosticato l’XP in prima elementare, e trascorro le mie giornate esiliata in casa, che lo osservo passare qui davanti mentre va a scuola. Aspettarlo alla finestra è ormai parte della mia routine, insieme alle frequenti visite dal dottore, al fatto di dormire di giorno e stare sveglia di notte (che a quanto pare è il sogno di tutti quelli della mia età) e suonare. In settimana, Charlie è l’ultima persona che vedo prima di andare a letto la mattina e la prima quando mi sveglio il pomeriggio. Mentre io dormo lui va a scuola e poi agli allenamenti di nuoto. Fa la sua perfetta vita assolutamente normale. L’ho letteralmente visto crescere e farsi sempre più carino sotto i miei occhi. Adesso frequenta l’ultimo anno delle superiori, è alto e magro, con bellissimi capelli lisci e uno sguardo che scioglierebbe un iceberg più in fretta del riscaldamento globale. L’unico ostacolo alla nostra meravigliosa storia d’amore è che… non sa nemmeno che esisto. La sera che ha rimesso a posto il nostro bidone della spazzatura spinto dal vento in mezzo alla strada – dopo che praticamente tutti l’avevano scansato – non sapeva che io lo stavo osservando. E neppure la volta che si è fermato ad aiutare la signora Graham, qui di fronte, a portare la spesa. Ho notato quanto è premuroso, anche se pensa che nessuno lo guardi.
Non è che possa uscire una mattina e incrociarlo per caso, perché rischierei di friggere al sole e morire (tranquilli, non succede così in fretta, ma fidatevi: non sarebbe comunque un bello spettacolo). Mentirei però se dicessi che non mi capita mai di fantasticare di compiere un gesto eclatante, che ne so… battere i pugni sul vetro mentre passa, fargli cenno di entrare in casa (quando mio padre è distratto, magari), invitarlo di sopra (dove mio padre non ci seguirebbe… Oh! Lasciatemi sognare, dài!) e passare le dita tra i suoi bellissimi capelli, poi baciarlo…
Certo, come no. Non succederà mai.
Continuerò a spiarlo come al solito (senza essere per nulla inquietante!) – almeno finché l’albero piantato in quella posizione infelice non mi impedirà la visuale – e appena farà buio chiederò alle stelle di vegliare su di lui. Spero che oggi sia felice di diplomarsi, che lo aspetti una vita entusiasmante e piena di avventure e che tutti i suoi sogni si avverino. Se lo merita. Ce lo meritiamo tutti. Io non potrò mai realizzare il mio desiderio di avere una vita normale (qui cerco di evitare il tono amareggiato), ma mi auguro che Charlie ci riesca.
Accendo il computer per seguire la diretta streaming di quella che sarebbe dovuta essere la mia cerimonia di consegna del diploma. Intendo se non avessi studiato a casa dalla prima elementare. È un po’ sconfortante sapere di avere abbastanza crediti da poter già frequentare il secondo anno di college. Cosa ci posso fare? Mi piace imparare cose nuove, e poi ho a disposizione molto più tempo dei miei coetanei.
Comunque sia, è pur sempre il giorno del diploma. Una tappa fondamentale nella vita di tanti ragazzi. Nel mio caso, invece, non rappresenta proprio niente. Anziché partire per qualche favolosa università, in autunno sarò ancora qui alla mia scrivania, a seguire corsi online e a evitare il sole. Sigh. Eppure, provo lo stesso una vaga nostalgia.
Gli studenti vengono chiamati uno per uno, salgono in fila indiana sul palco per dare la mano al preside, poi scendono stringendo un bel diploma nuovo di zecca. Dopo aver ritirato il suo Morgan va verso la telecamera, si mette in posa e mima con la bocca: «Cazzo, sì!», ma viene subito richiamata all’ordine. Io scoppio a ridere fortissimo. Non sapevo se alla fine avrebbe accettato di farlo: ma quando mai è successo che Morgan si tirasse indietro di fronte a una delle mie sfide?
Aspetto con impazienza che arrivino alla R. Wow, c’è tanta gente con la P (meno una, ovviamente). Addirittura una Q? Incredibile! (Oh, poverina, mi sa che con un cognome come Quackenbush1 non ha avuto vita facile al liceo.)
Ed ecco il turno di Charlie. Sarà elegantissimo con la toga, e poi quei suoi occhi favolosi mi fanno sciogliere…
Nell’istante stesso in cui entra nell’inquadratura, mio padre irrompe nella stanza.
«Katie Price!» tuona.
Si ferma sulla soglia con uno stupido sorrisetto stampato in faccia e un foglio arrotolato in mano. A questo punto, qualunque ragazza probabilmente urlerebbe una roba del tipo: Esci subito di qui! Io invece chiudo il computer e mi metto a ridere, perché so che sta solo cercando di rendermi felice e non farmi sentire esclusa. Come sempre esagera, ma perché dovrei smontarlo? Non è colpa sua se sono qui in camera mia anziché sul palco con la classe.
Un momento, rettifico. In un certo senso è colpa sua. O meglio, al cinquanta per cento sua e al cinquanta di mia madre. Hanno contribuito entrambi a trasmettermi il gene recessivo mutato responsabile della mia malattia. Cambia poco. Non l’ha certo fatto apposta.
«Cos’hai addosso?» gli chiedo.
«Il corpo docente ha sempre tocco e toga. E anche gli studenti» risponde.
Mi porge il cappello, che indosso, poi mi tende la pergamena su cui c’è scritto che da oggi sono ufficialmente diplomata. Una piccola nota attesta che ho già accumulato ventiquattro crediti per il college. Sorrido a papà e gli stringo la mano. Sono contenta che mi conosca così bene, soprattutto in questi momenti. Sa quanto tenga ai risultati scolastici: lo studio è una delle poche cose nella mia vita che il sole non può rovinare, e preferisco distinguermi dagli altri per il mio cervello piuttosto che per una malattia ereditaria che colpisce una persona su un milione.
«Ti sarai preparata un discorso…»
Sistemo il tocco e penso a cosa dire in questo giorno non poi tanto speciale. «Innanzitutto vorrei ringraziare moltissimo il mio preside» comincio.
«Ah, be’, prego» risponde papà con gli occhi che brillano.
«E il mio professore di spagnolo.»
«De nada» ribatte lui, toccandosi una tesa immaginaria.
«E anche l’insegnante di inglese…»
Papà accenna un inchino. «È stato un piacere!»
«E ribadire, per la cronaca, che il prof di ginnastica era un incompetente.»
Si porta una mano sul cuore ed esclama: «Questo è un colpo basso. Stavo per darti un biglietto, ma ora…». Me lo sventola davanti al naso e appena cerco di prenderlo lo allontana. Faccio spallucce e lui si arrende lasciandolo cadere sulle mie ginocchia.
Apro l’enorme busta: all’interno c’è un biglietto sdolcinato, con una mela sorridente che ha il tocco in testa. Sopra, in Comic Sans, a caratteri cubitali, c’è scritto: FINALMENTE MATURA!
«È il biglietto peggiore che abbia mai ricevuto.»
«Lo so» dice papà serissimo con un sospiro. «Ho girato tre negozi per trovarne uno abbastanza scemo. Bene! Pronta per il regalo?»
«Un regalo?» Non me l’aspettavo. «Che regalo?»
Papà scompare in corridoio e torna un secondo dopo con una custodia per chitarra tutta rovinata a cui ha attaccato un fiocco rosso. So già che dentro c’è lo strumento più bello che abbia mai visto: ha la cassa marrone sfumato e intarsi di madreperla sui tasti. Lo prendo con delicatezza e accarezzo il legno lucido finché non sento qualcosa in rilievo sotto le dita. Sono delle lettere: TJP. Le iniziali della mamma.
Prima che possa ringraziarlo, papà indica lo strumento appoggiato in un angolo che suono da quando sono piccola e dice: «Ormai sei troppo grande per quella chitarra da bimba. Questa è vecchia, lo so, quindi se ne preferisci una nuova…».
Lo interrompo scuotendo la testa senza dargli modo di finire quella frase assurda. Avere la chitarra della mamma è come poter stringere una minuscola parte di lei, e la ferita che la sua scomparsa ha lasciato nel mio cuore mi fa un po’ meno male, anche se probabilmente non si rimarginerà mai.
«Mi piace tantissimo.»
Corro ad abbracciarlo e lui mi stringe forte. Sento che stiamo per scoppiare a piangere tutti e due, allora mi stacco e provo a ricompormi. È sceso un silenzio carico di imbarazzo.
«Su, adesso prova a dormire un po’» dice lui, dandomi un bacio sulla testa. «Sono orgoglioso di te, Nocciolina.»
Non dovete dispiacervi per me perché dormo di giorno; anzi, forse è la cosa che mi rende più simile agli altri. So per certo che un sacco di gente – tra cui molti miei coetanei – sta su internet tutta la notte tutte le notti, e di sicuro non perché è costretta a vivere al contrario come me.
Ho trovato in rete un paio di community di persone con patologie rare, e anche se non le conoscerò mai nella vita reale, anche se abbiamo sintomi diversi e ci troviamo a differenti stadi delle nostre malattie, è bello sapere che esistono. Su internet si trovano un sacco di informazioni sull’XP. Per esempio, ho letto che in un piccolo villaggio del Brasile colpisce una persona su quaranta, una percentuale altissima se si considera che la media mondiale è di una su un milione. Tra i navajo, pensate, la percentuale è di una su trentamila. Incredibile, no?
E poi seguo vari gruppi attraverso i contatti social di Morgan; un po’ di gente la conoscevo anch’io, un tempo. È sorprendente la facilità con cui si perde un’ora a curiosare nella vita degli sconosciuti. Neanche fossi una stalker leggo i loro status di Facebook, i post su Snapchat e Instagram, i loro blog, e scopro con quanta disinvoltura si destreggiano nel mondo con la loro evidente dipendenza dai social network. Valuto se diventare amica di quelli con cui mi sembra di avere più cose in comune; elaboro risposte e commenti ai loro post, ma alla fine non pubblico mai nulla, né mando messaggi in privato per fare amicizia. Resterei davvero delusa – anzi, infastidita – se reagissero alla mia malattia come i miei compagni delle elementari.
La peggiore di tutti era Zoe Carmichael. Non eravamo amiche per la pelle, ma nemmeno nemiche. Quando ho scoperto di essere malata, dopo una gita scolastica in spiaggia che mi ha mandato al pronto soccorso con una terribile insolazione, Zoe sparse la voce che ero una vampira. Fu la fine: i miei compagni avevano paura di me e iniziarono a prendermi in giro. Mi isolarono tutti. Tutti tranne Morgan, che continuò a parlarmi. Charlie si era appena trasferito in città ed era in classe con noi da poco. Non ci eravamo mai rivolti la parola (era l’epoca in cui i maschi mi facevano ribrezzo), però ricordo che una volta i suoi amici mi stavano dando fastidio e lui era intervenuto per farli smettere per poi scusarsi con un sorriso. Quello fu il mio ultimo giorno di scuola; dopo, papà decise di farmi studiare a casa. Cominciammo ad andare al cinema o a prendere un gelato nelle città vicine, così che non dovessi sopportare gli sguardi e i commenti dei bambini come Zoe (o della vera Zoe) ogni volta che uscivo la sera.
Ecco in sintesi perché preferisco accontentarmi di ciò che conosco piuttosto che tentare la sorte e allargare il mio giro di amicizie. Mi rifiuto di fare entrare altri bulli nella mia vita.
1 Il termine ha diverse sfumature ironiche, alcune delle quali poco gradevoli. In genere, indica una persona con difficoltà a relazionarsi con gli altri.
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Mi sveglio da una “notte” di sonno con una gran confusione fuori: clacson, urla di ragazzi, euforia...