Venti
Una mattina Turtle scende a Buckhorn Beach con un sacchetto di piccole mele aspre del frutteto. Si siede sottovento contro un tronco portato dalle onde. La marea è bassa e l’acqua nella baia torbida. Il vento soffia rigido da nord e forma dune di sabbia alte trenta centimetri che rendono visibili tutte le correnti. I gabbiani si sono radunati al riparo sotto le scogliere settentrionali. Dove i tronchi si trovano di traverso rispetto al vento, i mulinelli di sabbia creano delle rampe aderenti alla sagoma di legno. C’è un sibilo continuo, penetrante.
Dietro a ogni ammasso di alghe, il vento traccia una V, lasciando una macchia dove si accumulano schegge di corteccia e filamenti di zostera secca, che vorticano e si scontrano, giocando tra loro fino a formare delle palle. A volte, lunghi fili di alghe o rametti di legno si sfilano dal mulinello e volteggiano per tutta l’estensione dell’insenatura prima di allontanarsi verso sud. Turtle alza gli occhi e vede Martin sulla spiaggia che si avvicina, gli stivali ai piedi, i jeans 501 e una camicia di flanella, una mano a ripararsi gli occhi dalle raffiche di vento che gli scolpiscono la stoffa contro il torace. La luce giunge di sbieco alle sue spalle. La spiaggia è azzurra, le scogliere grigio-marroni e i passi di Martin sollevano la sabbia al vento. Arriva a una decina di metri da lei e allarga le braccia, la sua presenza lì è un’intrusione terribile, e lei lo ama per questo, resta seduta a guardarlo, col vento che gli scompiglia i lunghi capelli intorno al viso ampio, bello, le spalle larghe, enormi come sempre. Turtle si alza in piedi, si pulisce la sabbia sul sedere e si getta fra le sue braccia. Sa di sigaro e olio per motori. Restano abbracciati, stretti l’uno all’altra. Poi Martin la prende per un braccio e tutto è come prima. La guida su per la spiaggia, seguono il sentiero sterrato che risale il promontorio. Il furgone di Martin è posteggiato lungo la highway, alla fine della stradina.
Si immette nella highway e si avvia verso la città, cambia le marce di continuo, taglia le curve oltrepassando la mezzeria, ogni tanto si gira a guardarla, i denti affondati nel labbro inferiore. C’è un AR-15 a canna mozza sul tappetino, appoggiato al sedile. Il semicastello è stato modificato manualmente per rendere l’arma perfettamente automatica. I fori di aerazione nel caricatore sono otturati dalla sporcizia. Turtle siede accanto all’arma, accanto a Martin e pensa a quei momenti di solitudine che le hanno dato tanto piacere e le hanno riempito i pori della pelle, ma che sono stati anche così dolorosi, così insopportabili che non saprebbe sceglierli per sé, se potesse davvero scegliere. Nel chiuso dell’abitacolo sente il suo odore, percepisce il peso tremendo di cui è portatore, la sua presenza è come un pozzo accanto a lei nella cabina del furgone, con un odore solo suo di WD-40 e di sigari scadenti schiacciati nel portacenere.
«Crocchetta» dice lui, «ho fatto una cazzata. Dio, lo so.» Serra la mascella. Guida terribilmente veloce, ma con estrema attenzione, cambia marcia, preme sull’acceleratore, supera un’auto su una curva cieca, il motore che ruggisce, torna nella sua corsia, cambia, aspetta, la guarda quasi con rabbia, poi guarda la strada, stringe il volante, stringe la leva del cambio, un’altra occhiata a lei, un mezzo sorriso pieno di rimpianto, Turtle coglie dei lampi con la coda dell’occhio, lui è lì accanto a lei e assorbe tutta la sua attenzione, e lui dice: «Cazzo, non è colpa tua. È stato… Cristo, ti ricordi che aspetto aveva?».
«No» dice Turtle.
«Sbalordito. Sembrava sbalordito. Te lo ricordi?»
«No.»
«Tu gli assomigli. Lo sai?» Lei guarda avanti, le scogliere, il guardrail, l’immenso oceano scintillante, un letto di alghe, poi i promontori si allontanano verso ovest e l’oceano resta nascosto dalle case, dalle locande e dai cartelli di legno appesi che annunciano le locande, dalle recinzioni di sequoia, dai bei vecchi cipressi. Martin scala la marcia, sale una collina oltre un boschetto di eucalipti, le scocca un’occhiata. «Io l’ho perduto, crocchetta. L’ho perduto. Lo sguardo nei suoi occhi, Cristo, quello sguardo. Lo vedo ancora adesso. Doloroso, ha detto il medico, doloroso e veloce, ma non sembrava che fosse così. Sembrava che avesse capito qualcosa, e non qualcosa di bello, crocchetta, non qualcosa di bello, ma qualcosa come… Ci ho pensato e ripensato cento volte. Mille volte, di più, e non so cosa tirarne fuori. Era mio padre e mi guardava e doveva sentirsi in un certo modo, il modo esatto, incalcolabile, in cui si capisce che ci si sta per spegnere in un buio senza dio, ed è… Cristo, crocchetta, l’ho guardato morire. L’ho ucciso io, crocchetta. Se mi fossi comportato in maniera diversa – se gli avessi parlato in maniera diversa, con più dolcezza.»
Turtle non riesce ancora a guardarlo in faccia, le mani di Martin stringono ancora e poi ancora il volante, si fermano sulla leva del cambio, sulle cosce dei suoi Levi’s macchie enormi, e dei tagli nella plastica del sedile, l’isolante giallo, le molle arrugginite, i tappetini di gomma scura sotto i piedi, aghi di pino nelle zigrinature dei tappetini. Martin la guarda e dice: «L’ho perduto e sono scappato, e cazzo, crocchetta. Voglio dire – con tutto il disprezzo che provavo per lui, con tutto il disprezzo per i suoi fallimenti – sono scappato. Col mio vecchio… ha avuto una possibilità, con me, credo. Gli ho dato una sola possibilità, davvero. Non ho mai capito – chi era. Non credo che mi amasse, o se mi amava era in qualche modo distorto. Tutti gli errori che ha fatto, glieli ho rinfacciati e pensavo: io non commetterò mai quegli stessi errori. La sua vita non è vita e gli errori che ha fatto, li ha fatti perché era un vigliacco senza cuore, un bigotto miserabile, odioso, impaziente, esitante – oh, crocchetta, tutto questo era mio padre. Uno che se ne sbatteva il cazzo di tutto, un alcolizzato figlio di puttana, un assassino. E io, io ero giovane e non avevo nessuna pietà per lui, io non avrei mai fatto quegli errori. Volevo ripudiare tutto ciò che era, e soprattutto pensavo di riuscirci. Non potevo salvarmi – non ero come te, non ascoltavo, me ne fregavo. Nessuna comprensione. E fanculo a me, crocchetta, perché malgrado tutti i suoi difetti, e malgrado tutte le cose che non ha capito fino alla fine, lui è venuto da te, era preoccupato per te, era disposto a dare ogni cosa per te, e io dov’ero?».
Turtle lo guarda, la spalla, la camicia di flanella, la cintura, il coltello Daniel Winkler alla cintura, il sedile, il portacenere, la strada davanti a loro, poi torna su, la mandibola che scatta da una parte all’altra per la rabbia. «Avevo paura e ho fatto una cazzata e non so come – Cristo! Come sono diventato l’uomo che sono adesso, fatto come sono fatto, spaventato come era lui, rigido come era lui, senza compromessi come era lui, e mi odio per questo, non volevo diventare l’uomo che sono, e pensavo – cazzo! L’ho visto sprofondare nel buio senza dio e ho visto te – ho visto te, e sai cosa sei? L’unica cosa numinosa in un mondo buio e profano, e senza te, il nichilismo. Capisci?»
Si volta verso di lei. Lei guarda l’oceano, guarda le festuche rosse increspate sul promontorio. No, pensa. No, non è possibile che alla fine di tutto questo io sia come te. Non può essere. Quelle parti di te io le rifiuto, le rifiuterò sempre e alla fine non scoprirò di essere uguale a te. Incrocia le dita delle mani, le infila tra le cosce, le stringe.
Fanno colazione sul portico della MacCallum House, sopra alla Mendocino Bay spazzata dal vento. Il cameriere porta fuori burritos abbondanti di caviale di salmone guarniti con fiori di nasturzio e germogli di piselli. Il volto di Martin assume un’espressione che Turtle non riesce a decifrare e a riprodurre nella propria mente. Tiene la forchetta con una mano e il coltello con l’altra appoggiando gli avambracci al tavolo e chinandosi verso di lei, tutta la sua attenzione concentrata su di lei, e dice: «Guardati. Gesù Cristo». Turtle non dice niente. Le donne sedute vicino a loro indossano abiti estivi; gli uomini hanno camicie bianche. Turtle non sa se sono turisti o transfughi della Silicon Valley con residenze estive nei dintorni. Martin non presta attenzione a nulla tranne che a lei. Turtle indossa vecchi anfibi, una tuta verde oliva, un reggiseno sportivo nero e una canottiera bianca da uomo. I capelli continuano a finirle sulla faccia, ad appiccicarsi alle labbra. Martin la studia con la concentrazione di chi si tasta la bocca con la lingua in cerca di ulcere. «Dai» dice, «prova il tuo burrito.» Lei prende la forchetta, guarda il mucchietto di caviale arancione. «Sei la cosa più bella» dice lui, «ecco quello che penso. In te tutto è perfetto, crocchetta. Ogni dettaglio. Sei l’ideale platonico di te stessa. Ogni tua imperfezione, ogni graffio, è l’inimitabile elaborazione della tua bellezza e del tuo essere selvaggio. Sei come una naiade. Sei come una bambina allevata dai lupi. Lo sai?» Lei taglia il burrito, sparpaglia le patatine artigianali e l’uovo strapazzato, li porta a spasso per il piatto coi rebbi.
«Conosci la storia di Atteone?»
«No» dice lei.
«Atteone era un giovane cacciatore, durante una battuta si imbatté in una fonte dove la dea vergine e le sue ancelle facevano il bagno.» Guarda l’oceano, si morde il labbro, e poi guarda lei, il volto acceso di piacere, e sbuffa dal naso per esprimere tanta contentezza. «Artemide, quella stronza. Artemide. Come punizione per averla vista, Artemide trasformò Atteone in un cervo, i suoi stessi cani gli diedero la caccia e lo sbranarono. E tu, maledizione, hai lo stesso aspetto che doveva aver lei. Dammi la mano.» Turtle si china in avanti e lui le prende la mano, la stringe fra le sue. «Maledizione, è bello vederti. Maledizione se è bello.»
Turtle aspetta che veda le dita rotte, ma lui non le nota. Col pollice le accarezza la carne del palmo, guardandola attentamente; ha gli occhi azzurri, le iridi striate di bianco, i folti capelli scuri stretti in una coda, ancora selvaggia, ma ormai più sottile, si vedono delle strisce di cuoio capelluto, la pelle intorno agli occhi è segnata come legno scheggiato, segni profondi sotto agli occhi, è ancora grande e grosso, ma più piccolo, adesso, sminuito e curvo, la sua presenza fisica trasmette ancora una gravità tremenda e precisa, ma sbalordisce meno, come se lui si stesse ritirando in se stesso e non fosse più l’uomo che sulla soglia di una stanza occupava con le sue spalle quasi tutta la cornice della porta. Restano lì in attesa, lui le accarezza la mano e la guarda e lei non sa che cosa veda nel suo volto, ma lui sta seduto a ispezionarlo e ne sembra addolorato e allora guarda verso l’oceano e lei vede che sta facendo appello a tutta la propria pazienza, capisce che sta ragionando tra sé, vede che si sta dicendo: Dalle un minuto, e poi lui la guarda di nuovo e dice: «Crocchetta?».
«Sì» dice lei, e pensa: tu hai fiducia nella tua disciplina e nel tuo coraggio e non ci rinuncerai mai e non li abbandonerai e sarai più forte, coraggiosa e dura, e non ti siederai mai come si siede lui, a guardare la tua vita come la guarda lui, sarai forte e pura e fredda per il resto della tua maledetta vita e queste sono lezioni che non dimenticherai mai.
Martin sta aspettando che lei dica qualcosa e Turtle non sa cosa dire. Lui vuole qualcosa, una qualche risposta. Lei non riesce nemmeno a ricordare cos’ha detto. Lui le lascia la mano e si appoggia allo schienale, quasi con irritazione, quasi con impazienza, e lei prende il fiore di nasturzio che ha sul piatto e se lo fa girare tra le dita, senza sapere cosa vuole da lei.
«Perché?» dice lei, dato che non capisce. «Perché avevi paura?»
Lui guarda la Mendocino Bay. «Non so se riesco davvero a spiegarlo, nemmeno a me stesso. La morte di un genitore, crocchetta, dio, ti penetra sotto la pelle.»
Lei annuisce, ma ancora non afferra, sa cosa le è successo, il dolore che ha provato, il modo in cui ne ha sofferto fin nelle ossa, ma non c’è stata nessuna paura e non capisce – paura di cosa? – e lo guarda e sa, realmente sa di capirlo assai poco.
«Dove sei andato?»
Lui accenna al suo burrito. «Hai intenzione di mangiarlo?» Lei prende la forchetta e mangia e poi, imbarazzata perché sta masticando, abbassa lo sguardo. Lui dice: «A nord. Sono andato a nord. Sono andato nell’Oregon orientale e nello Stato di Washington, e poi fino in Idaho e in Wyoming».
«Cos’hai visto?»
«Niente» dice lui.
«Perché, allora?»
Lui scuote la testa. «Ho fatto una cazzata.»
«Ah» dice lei.
«Mi riprendi con te?»
Turtle guarda il burrito che ha nel piatto, rotto, aperto, col contenuto sparpagliato, non ha voglia di mangiarlo, ha la nausea per la paura e l’eccitazione insieme. Certo che lo rivuole. C’è così ...