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Lo facciamo con gli occhi, lo facciamo con lo sguardo
In cuffia suona The National
con About Today
Sabato 18 novembre 2015
Come certa musica che, senza sfiorarti, ti stende al tappeto, per terra, ansimando per averne ancora, in una pozza di sudore e lacrime e pioggia. Ecco, io il sesso più bello della mia vita l’ho fatto così, senza che nessuno sfiorasse nessuno, con gli occhi, con gli sguardi, con le occhiate rubate o proibite.
Il “piacere” finale, spesso, è solo un fatto meccanico, il vero godimento è tutto quello che c’è dietro, quello che non tocchi, quello che non ti tocca, quello che non fa rumore, il non detto, il viaggio mentale che inizia prima, molto prima, il viaggio più speciale, quello che nasce dentro di noi e poi si riconosce nell’altro, nel viaggio dell’altro, una danza di sospiri e desideri reciproci sussurrati dall’aria intorno a noi, una fusione di voli e traiettorie che non conosce le dissonanze emotive e cerebrali di chi si tocca ma non si sente, di chi si parla ma non si ascolta.
È proprio questo che penso quando incrocio lo sguardo di Valeria, mentre lei accenna un sorriso con labbra, mani e occhi. Ecco, proprio questo penso mentre le restituisco un sorriso carico di ambiguità, silenzi ed esitazioni, è così che succede: senza nemmeno una parola. Ed è in quel momento che lei stempera l’aria che si fa bollente, ed esce appena in tempo da un terreno sempre più minato e pericoloso, chiedendo: «Che tipo di donna ti piace? Sapresti descrivermela? L’ipotetico ideale, intendo».
«Non deve essere gelata» dico e la fisso sornione, in attesa di reazioni, mentre il ticchettìo della pioggia sul tettuccio insiste senza sosta.
Novembre freddo e piovoso, a Roma. Stesso clima nel mio cuore. Siamo fermi da circa un’ora nella mia Smart sgangherata, in uno dei parcheggi all’aperto adiacenti all’Auditorium Parco della Musica. Abbiamo scelto di proposito di non fermarci in quello di fronte all’entrata principale, quello più battuto, quello che si riempie prima; negli altri parcheggi laterali, compreso quello in cui ci troviamo, c’è poca affluenza, salvo nel caso di concerti di artisti molto noti, giovani cantanti pop, musicisti internazionali, non certo per eventi che riguardano libri o fotografia che, anche nei casi di “mostri sacri”, fanno poco rumore, attirando il solito ristretto numero di appassionati. Valeria è una mia amica, l’ho conosciuta cinque anni fa, proprio durante una mostra fotografica che organizzava lei. Io ero lì da solo, amo visitare mostre da solo, amo andare al cinema e ai concerti da solo, amo fare molte cose da solo. Amo la solitudine, ecco, e la amo in una misura – ora che ci penso – forse inquietante.
Valeria fa questo nella vita, è ufficio stampa e organizzatrice di eventi culturali. A trent’anni è già un’eminenza nel suo settore. Finimmo a letto insieme la sera stessa, io feci cilecca. Lei è davvero notevole, ha le curve al posto giusto e quella sera indossava un vestito scollatissimo che le stava da dio e metteva in risalto un décolleté da capogiro... Le provai tutte, non ci fu nulla da fare. Era clinicamente morto. La prendemmo a ridere. Avevo bevuto tanto, troppo, in più l’emotività mi tira spesso colpi bassi, specie le prime volte.
Dopo quella sera non ci sono più stati tentativi di approccio fisico, ma qualcosa fra di noi, a tratti, sembra incompleto, sospeso, e i nostri sguardi, a volte, continuano a flirtare senza pudore. In un silenzioso balletto di pensieri nascosti.
«Non deve essere gelata?» Sbarra gli occhi e insiste: «Cioè? Che significa “gelata”? Non ti piacciono quelle con le mani fredde, tipo?». Mentre lo dice alza le mani, spaesata e incuriosita.
«Non mi piacciono quelle col corpo gelato e immobili da almeno sei ore» rispondo e continuo a fissarla, spavaldo, quasi sfidandola, in attesa di una reazione.
Lei ride e, guardandomi come si guarderebbe un simpatico marziano, forse un po’ burlone, forse un po’ geniale, mi fa: «Sei tremendo...». Poi, ridendo ancora di gusto, continua: «Quindi basta che respirino?».
«No. Basta che non siano gelate e morte da almeno sei ore. Tiepide vanno ancora bene, anche se non respirano.» Valeria si contorce ancora dalle risate nel sedile della mia Smart.
C’è una verità: la testa di una donna è l’unico posto che mi permette un’erezione stabile e duratura, l’unica via per un orgasmo che mi faccia scordare chi sono e da dove vengo. E non parlo di sentimenti, non per forza, ma di emotività, di percorsi mentali, di dialogo cerebrale, di vibrazioni, di brividi, quindi di charme, di sensualità e di intelligenza. Quindi di sesso. Se osservi una “gnocca” priva di cervello e umanità ti rendi conto che i veri inestetismi sono quelli che non vedi con gli occhi e riguardano l’anima, la passione, il cuore. Una donna senza passione e senza cuore è un cesso, è una donna gelata e morta da almeno sei ore...
Mary, però, non è morta da almeno sei ore, per quanto abbia provato a convincermi del contrario. Ed è pure straordinariamente gnocca, oltre che brillante e intelligente. Vorrei non averla mai conosciuta. Vorrei aver detto di no, quel giorno, a Paolo, vorrei non aver mai accettato l’invito a incontrarlo in quel maledetto lounge bar da ricchi. Qualcuno avrebbe dovuto avvisarmi. Qualcuno avrebbe dovuto impedirlo. Certe cose non dovrebbero succedere.
«Stai male, vero?»
Ora Valeria è seria, quasi preoccupata. Aveva intuito fin dall’inizio che Mary sarebbe potuta essere devastante nella mia vita. Allunga una mano sopra la mia.
«No, sto bene, tranquilla... Ok, no, sto male, sto fottutamente male» ammetto, e abbasso lo sguardo cercando un punto da fissare fra il volante e il cruscotto. Appoggio piano la testa sul clacson e subito dopo sento le sue dita infilarsi nei miei capelli.
«Mi dispiace, io sono qui» dice e, sporgendosi verso il mio lato, mi abbraccia come solo un’amica sa abbracciarti, stando in silenzio, come solo un’amica sa stare.
«C’è qualcosa che mi sfugge. Ho visto i suoi occhi, ricordo il suo sguardo... Vedi, io... Ecco, io sono sicuro che c’era, c’era la magia, non ti puoi sbagliare, non ti puoi confondere quando c’è la magia, perché la senti, capisci? La provi, la percepisci in ogni cosa. È una questione di istinto. Fra me e lei c’era, la magia. Io l’ho sentita.»
«Sì, forse è così, forse c’era la magia, ma c’è anche che è fidanzata, e che convive con un altro uomo. Forse questa volta hai sbagliato, Luca, forse ti sei confuso. Forse la magia non c’era, o forse è solo dentro di te, la senti solo tu...» Parla veloce ma con grazia, e mentre lo fa mi accarezza i capelli.
«Ma no, dài... E poi cosa intendi quando dici che forse la magia è “solo dentro di me”?» chiedo, mimando il virgolettato, e la guardo fissa sforzando un po’ gli occhi, socchiudendoli, come quando, nel momento stesso in cui affermi qualcosa, ti chiedi anche quanto sia vero, quanto ci credi, e queste due forze, completamente opposte, comportano un dispendio di energia che non ti aspettavi, che ti costringe a concentrarti il doppio per non smettere di parlare, per non finire barricato dietro un laconico “no comment”. Come quando si forma una piccola crepa su un cristallo che ritenevi infrangibile, quello dietro il quale guardavi il mondo, il tuo mondo, quello che ti proteggeva dal vento e dalle rotture di cazzo, un cristallo così perfetto, pulito e trasparente da non poter esser notato da nessuno. Solo che le crepe si notano eccome, e più è sottile la rottura, più è visibile la linea.
«Sai, Valeria...» Mi interrompo un attimo per fissarla, quasi cercando, nei suoi occhi, una risposta alle millemila domande che mi frullano in testa. «È solo che certe volte ho bisogno di credere che il mondo, il mondo che osservo, quello che ho intorno, quello che ho dentro... Ecco, ho bisogno di credere che non stia andando davvero a puttane come sembra. Ho bisogno di pensare che certi momenti non esistono unicamente per riempire i vuoti, per farci sentire meno soli, o meno annoiati, o più speciali. Ho bisogno di dare un senso alle cose, e di credere che posso ancora fidarmi del mio istinto, del mio cuore e delle mie sensazioni.» Da un rapido sguardo allo specchietto retrovisore, mi rendo conto che i miei occhi sono un po’ lucidi. Solo un po’.
«Se la tua sensazione è giusta lo capirai, Luca. Devi avere pazienza, devi cercare un po’ di calma dentro di te. Me lo hai insegnato tu: le cose belle nascono da sole, vivono da sole. Arriverà, se lei deve essere nella tua vita, arriverà.» E abbozza ancora un sorriso di supporto, pieno di comprensione.
«Certo, hai ragione. Non posso credere che finisca così, non è possibile...» Il tono della mia voce è basso, basso come succede solo in certi dialoghi con noi stessi, quando intorno non c’è nessuno ma abbiamo voglia di pronunciare le parole che scorrono come fiumi dirompenti nella nostra testa.
Ma lei mi sente e risponde: «Magari ha solo bisogno di tempo, magari è l’unico modo che conosce per fare questa cosa, per uscire da questa storia... o per entrarci. Quanto è passato dal vostro ultimo contatto?».
«Dieci giorni. Non era mai passato così tanto. E poi quel suo messaggio finale... è tutto assurdo...»
«Quando vi siete visti l’ultima volta, te l’aveva detto che voleva mettere un punto, giusto?»
«Sì, l’aveva fatto.»
Mi guarda come per dire che c’è poco altro da aggiungere. E ha ragione, c’è poco altro da aggiungere. Sento una morsa allo stomaco. Dieci giorni sono tanti. Troppi per il mio cuore.
Mi tiro su, simulando di colpo un’aria sollevata. «Oh, però, dài, ora andiamo, è la tua serata...»
Poi le sorrido, quasi riconoscente.
In fondo non conta da quanto non ti vedo, e non importa nemmeno quanto sei lontana. Perché tu sei nel posto esatto in cui sei sempre stata. Sei lì, nell’unico luogo possibile, in quel punto nascosto da tutto, in quell’angolo dove c’è spazio per una sola, preziosa cosa rara. Una sola. Solo una. Sei tu, il mio luogo di bellezza. Il mio posto raro. L’unico che può rendermi felice. Sei tu.
2
Vetri appannati
In cuffia suona Neil Young
con My My, Hey Hey (Out Of The Blue)
Sabato 18 novembre 2015
L’evento organizzato da Valeria è una mostra di Herb Ritts, il fotografo di moda, di cinema, dei ritratti in bianco e nero. Famoso il suo scatto a un giovane Richard Gere in jeans, canotta da meccanico e sigaretta in bocca, una foto del ’78 che ha fatto storia. Ma anche molte fra le più importanti immagini della carriera di Madonna furono opera sua, e alcune celebri foto di Jack Nicholson, Cindy Crawford e Naomi Campbell. Da tanti esperti e critici d’arte è considerato il più grande fotografo degli ultimi vent’anni. Valeria ha lavorato a questo evento per un mese intero, per lei è molto importante.
Mentre scende dalla macchina, incuriosita, mi chiede: «Che cos’è?» indicando un origami, una barchetta di carta grande come una moneta, poggiata in un angolo del cruscotto della mia Smart.
«È una barchetta.»
«Lo vedo» sorride. «Posso?»
«Certo.»
La prende delicatamente fra le dita, alzandola all’altezza dei suoi occhi, e la osserva.
«L’ho ritrovata a casa, qualche giorno fa, in una scatola in cui tengo vecchie lettere, bigliettini e cianfrusaglie d’amore. La scatola era nei pacchi del trasloco, accanto a quella delle foto... E niente, mi sono messo a sbirciare ed è saltata fuori...» sorrido.
«Quindi questa meravigliosa, piccolissima barchetta è un segno d’amore?» chiede, continuando a fissarla.
«È il primo gesto d’amore che io abbia ricevuto da una donna. Uno dei più sinceri. Me la regalò una bambina di cui non so nulla, più di vent’anni fa.»
Lei scuote la testa, senza fare altre domande, i suoi occhi sono pieni di ammirazione.
«Valeria...» distolgo la sua attenzione con dolcezza. «Ora però dobbiamo andare, è la tua serata!» e le faccio una carezza sulla guancia mentre lei rimette la barchetta nel cassettino con l’attenzione e la delicatezza con la quale si riporrebbe un diamante in cassaforte.
Ad aspettarla, nella libreria di fianco all’entrata, c’è il tipo che sta frequentando, insieme a un suo amico.
«Ma quello è un papillon? Esci con un tipo che usa il papillon? Dimmi che non è lui, ti prego, dimmi che è quello basso, brutto ma senza papillon!» mi rivolgo a lei mentre ci avviciniamo a Marco e al suo amico, senza riuscire a trattenere un sorrisino fra lo stupito e il divertito.
«È lui, è quello col papillon. E non fare lo stronzo.» Me lo dice a mezza bocca, agitatissima, a mo’ di ventriloquo imbarazzato da quattro soldi.
Marco ha un papillon e una giacca verde. Cazzo.
Li raggiungiamo e, fatte le consuete presentazioni, Valeria consegna loro i pass; finalmente ci avviamo tutti insieme verso l’entrata.
La mostra si svolge in una bella sala moquettata con dei faretti puntati sulle opere. Al centro ci sono divani e poltroncine dal design minimalista, in pelle nera. Per la sala girano dei camerieri con vassoi di tartine e champagne.
Quando visito una mostra fotografica, oltre che dalla location, sono attratto da due cose: ovviamente la fotografia, e poi il commentatore di turno della fotografia. Oggetto e soggetto...
Ecco, molti dei visitatori di mostre fotografiche, prima di entrare, si inseriscono, per l’occasione, un palo nel culo. Sì, proprio così. È un atteggiamento talmente diffuso che ormai nelle mostre di un certo livello, all’entrata, vengono gratuitamente distribuiti pali da culo usa e getta, sterilizzati e sigillati in appositi contenitori.
Il commentatore col palo nel culo è sempre accompagnato da un altro commentatore col palo nel culo, la prassi è sempre la stessa: ci si ferma davanti alla foto, dita semichiuse a pugno sotto il mento, l’altra mano a reggere il gomito, postura retta, rigida, vigile, per via del corpo estraneo, attenzione massima sull’opera, sulla fotografia, la si osserva con pathos, con trasporto, in religioso silenzio, socchiudendo un po’ gli occhi, lasciandosi penetrare dalle vibrazioni, dal magnetismo che sprigiona, poi scatta una leggera quanto sobria apertura della bocca, in segno di stupore, di impressione, quindi un’impercettibile inclinazione del viso e dello sguardo verso il nostro accompagnatore e, all’improvviso, come colti da un’illuminazione divina, ci si rivolge all’altro con: «Dio, l’hai notato?»; e l’altro, che ovviamente non ha notato nulla, distolto dalla fase “religioso silenzio” nella quale era entrato in leggero ritardo per via del palo nel culo un po’ difettoso che non scorreva e che ha provveduto a farsi sostituire dall’hostess all’ingresso, prova a concentrarsi per un attimo di più sull’immagine che ha davanti, per capire cosa cavolo ci sia da notare di così tanto significativo, ma proprio non nota nulla, niente, zero, se non quello che vede, un viso di donna, bellissimo, immortalato in un momento perfetto, ma nulla di trascendentale, nessun simbolo satanico, nessun segnale in codice, niente che si muova in modo soprannaturale all’interno della foto, nessun esoterismo, proprio nulla, ecco, ma, seguendo un cliché consolidato e automatizzato che lo rassicura sull’impossibilità di essere “tanato”, risponde: «Certo» – circa quindici secondi di silenzio, anche qualcosa di più... – e prosegue: «Incredibile! Erano anni che non provavo un’emozione del genere, mi tremano le gambe, mi sento svuotato».
Marco ha un papillon e una giacca verde. Capelli ricci sopra occhialini da intellettuale radical chic. E un palo nel culo, ha anche un grande palo nel culo che sono sicuro non toglie mai, nemmeno dopo le mostre di fotografia. Ci ho scambiato pochissime parole, non amo appiccicare etichette alle persone senza nemmeno conoscerle, odio stigmatizzare in modo prevenuto la vita e la storia della gente, mi sforzo sempre di sospendere il giudizio fino all’ultimo, per quanto mi sia possibile, ma lui non mi ha fatto una buona impressione. Mi irrita.
«Be’, dunque tu sei il gvande Luca! Valevia mi ha pavlato molto di te... L’assicuvatove, giusto?»
«Sono un broker assicurativo, sì...» rispondo, e marco la parola “broker”. “Tu invece sei quel coglione che non fa un cazzo perché è ricco di famiglia, giusto?” Questo avrei voluto rispondere, invece mi forzo a un più formale: «Tu, mi diceva Valeria, sei un giornalista, vero?».
«Sì, esatto...»
«E scrivi di viaggi e attualità, deve essere pazzesco!»
«Guavda, è davvevo una passione pev me...»
“Grazie al cazzo” penso, e rispondo: «Immagino...» sorridendogli.
«Anche il tuo lavovo sembva molto intevessante... Tu, quindi, devi esseve uno che ha un gvan fiuto pev gli affavi. Soldi, finanza, investimenti...» Accompagna le sue parole facendomi il pollice in su alla Fonzie e l’occhiolino, ma è evidente che non sa n...