Il lupo nel furgone bianco
eBook - ePub

Il lupo nel furgone bianco

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il lupo nel furgone bianco

Informazioni su questo libro

«Va tutto bene, mamma» dissi. «Ho paura che sarai solo» disse lei, piangeva. «Sarò solo in ogni caso.» Non intendevo dirlo con quel tono ma mi uscì così, e d'altra parte era la verità. Sfigurato da un incidente da quando aveva diciassette anni, Sean Phillips vive nel suo minuscolo appartamento in una cittadina del Sud della California. Isolato tra quelle mura, costruisce mondi possibili, orchestra avventure fantastiche per i tanti sconosciuti a cui piace perdersi nei giochi di ruolo. Traccia Italiana è la sua ultima creazione: si gioca per corrispondenza, ogni lettera una mossa, a cui Sean risponde presentando scenari sempre nuovi, avventure in un'America del futuro devastata e imbarbarita. Lo scopo del gioco è uno solo: trovare un rifugio, e conservarlo, fino a raggiungere l'ultima fortezza, il santuario, la salvezza. Lance e Carrie, invece, frequentano un liceo in Florida. Giocano a Traccia Italiana, e sono convinti che quell'universo immaginario si possa trasportare nel mondo reale. Un errore che sarà loro fatale, e di cui Sean sarà chiamato a rispondere davanti a un giudice. Da quei giorni in tribunale inizia il suo racconto, un viaggio indietro nel tempo fino al momento in cui lui stesso, per primo, decise di staccarsi dal mondo degli altri. Un romanzo innovativo, costruito con grande maestria e impreziosito da un finale che è anche climax e innesco degli eventi che hanno dato forma definitiva alla vita di Sean. Il lupo nel furgone bianco è un esordio folgorante, una storia delicata e al tempo stesso penetrante sull'emarginazione e il desiderio di fuggire dalla realtà proprio dell'adolescenza; già libro di culto in America, annovera tra i suoi più convinti estimatori il Premio Pulitzer Donna Tartt.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817099554
eBook ISBN
9788858693100
Seconda parte

11

Ho sorpreso Vicky mentre studiava la mia faccia alla luce – ero seduto alla scrivania e passavo in rassegna vecchie foto pescate in una scatola senza contrassegni. Io e mia nonna, da qualche parte a correre dietro un gruppetto di oche. Mi sembrava di ricordare che fossimo allo zoo. Oppure in vacanza. Non ero sicuro.
Se mi trovassi in un bagno da qualche parte fuori di casa, sarei capace di cogliere il luccichio sui lembi di pelle ai due lati della bocca, quella pelle smorta e brillante. «Brutto spettacolo, vero?» le ho detto.
«No, non esageriamo» ha risposto lei in tono divertito. «Però sai che nei fine settimana lavoro a Loma Linda.»
«Non lo sapevo» le ho detto. La mia idea della vita privata degli altri è piuttosto abbozzata, basica, bidimensionale.
«È così, è così» ha aggiunto lei. «A ogni modo, un’amica di mia sorella lavora nel reparto di chirurgia ricostruttiva. La settimana scorsa si è operato un paziente nelle tue condizioni.»
I nostri sguardi si sono incrociati. Non mi capita spesso, con nessuno. Mi sentivo denudato. Ho cercato di reggerlo, di essere lucido per vedere fino a dove potevo arrivare.
«Oggi possono fare miracoli, tesoro» ha ripreso lei tornando alle sue incombenze. Stava preparando i tamponi per pulirmi. «Hanno compiuto enormi passi avanti dal tuo incidente.»
«Lo... lo so. Ne ho parlato con loro un paio d’anni fa.»
«Così tanto?» ha chiesto lei fissandomi di nuovo la faccia. Ci si dimentica di quanto bene ti conoscano gli altri, quando arrivano a conoscerti.
Ho aperto un cassetto sul lato sinistro della scrivania, quello dedicato alle questioni personali, quindi non proprio trafficato. Ho frugato un po’ e ho preso qualche dépliant. Uno era proprio del Loma Linda. Pensa un po’.
Vicky li ha sfogliati. «Adesso si sono trasferiti in un edificio indipendente» ha spiegato. «Questo dépliant è di quando facevano ancora parte del reparto di chirurgia generale.» Il deserto occidentale recede un po’. Esalazioni di palude? C’è uno strano odore nel vento. METTI FACCIA MASCHERA. TORNA INDIETRO. CONTINUA VERSO EST. SCAVA RIPARO.
«Comunque» ha concluso lei, «potresti chiamarli». Ha iniziato a tamponarmi il viso con un impacco di glicerina, un tocco così delicato che quasi non pizzicava per nulla.
«Si tratta di tua nonna» disse mio padre al telefono dopo avere chiuso i convenevoli del giorno. «La notte scorsa... è morta ieri notte.»
Quando ti spari in faccia con un Marlin 39A, una cosa di cui non ti preoccupi è che dirà tuo padre a sua madre quando sarà necessario spiegarle l’accaduto. Il mio nonno paterno era morto da oltre dieci anni: un infarto al supermercato. Origliai mio padre mentre lo spiegava a mamma quando rientrò a casa in anticipo dal lavoro. «La corsia era deserta, era ancora presto» aveva detto. «È rimasto sdraiato lì per... per un po’.» Avevo dodici anni; mi portarono al funerale a Oak Park e rimasi a immaginare in silenzio le urla che sarebbero esplose se la bara si fosse scoperchiata di colpo e qualcosa fosse strisciato fuori.
Mia nonna abitava da sola nell’enorme casa in cui mio padre era cresciuto con i suoi fratelli. Quando salire le scale era diventato un problema, si era trasferita a vivere al pianterreno, e il primo piano si era trasformato in una specie di museo improvvisato che commemorava chiunque avesse vissuto tra quelle mura. Quando andavamo a trovarla mi piaceva nascondermi lassù, cercavo di perdermi nell’atmosfera polverosa e abbandonata di un luogo dove non succedeva mai niente.
Dopo il fatto, a mia nonna raccontarono che ero stato coinvolto in un incidente d’auto, e che tutti gli altri passeggeri erano morti. Era un particolare importante, perché un sacco di persone sopravvivono senza troppi danni agli incidenti stradali. Si rompono le braccia o riportano lesioni varie, forse danni al cervello e magari non ricordano più le cose come prima. Ma non hanno un aspetto spiccatamente diverso, a meno di non distruggere il parabrezza con la faccia mentre l’auto prende fuoco e tutti gli occupanti muoiono arrostiti. Questi erano i due dettagli che mio padre mi chiese di imparare a memoria, da specificare in caso la nonna avesse mai fatto domande. «So che non ti chiederà di parlarne, so che non lo farà» diceva mio padre. «Ma giusto per essere sicuri.»
Una terapeuta da cui dovetti andare più in là cercò di farmi sbottonare sulle ragioni della rabbia che provavo verso i miei genitori; io risposi di non essere davvero arrabbiato con loro, tranne forse con mio padre, per avermi costretto a mentire alla nonna. Me n’era rimasta solo una ancora in vita, non mi sembrava corretto raccontarle balle. «È successo qualche cosa tra voi, prima?» chiese la terapeuta, e io risposi di no con la testa: la questione principale era mentire a mia nonna. «Allora se questa è la faccenda più importante» disse lei una volta, «quali sono le altre?»
Con i terapeuti, arriva sempre un punto in cui faresti quasi qualunque cosa pur di renderli felici, pur di evitare di essere la persona che fa sentire loro che stanno solo perdendo tempo. Io però cerco sempre di essere onesto. Per me è importante.
«Non ce ne sono altre» ammisi.
Subito dopo l’incidente, i miei genitori volevano fare causa a chiunque, nessuno escluso. Ma avrebbero avuto bisogno della mia collaborazione per perseguire qualcuno, se non i sostenitori della lobby delle armi, così se la presero con loro. La gran parte degli avvocati li avrebbe spremuti per un po’, credo, ma quello a cui si affidarono, scelto sulle Pagine Gialle, era una brava persona, e spiegò loro senza battere ciglio che non avrebbero racimolato un centesimo da quella gente. Così l’idea fu scartata. L’avvocato aggiunse che avrebbero speso meglio il loro denaro trovando una persona in grado di trattare con le compagnie assicurative – qualcuno che avesse dimestichezza con simili incidenti, e che sapesse che era proprio per gli incidenti che esistevano le assicurazioni. «Incidente»: era un gran bel regalo, semplice e chiaro, che l’avvocato delle Pagine Gialle donò ai miei genitori quando lo chiamarono. Disse inoltre che forse avrebbero potuto montare una causa se volevano scoprire chi aveva venduto il fucile a mio padre.
Il negozio di armi dove mio padre aveva acquistato il fucile era in Mission Avenue, tra il drive-in e il negozio di pneumatici usati. Era un edificio tozzo di cemento costruito su uno spiazzo di asfalto ed erbacce. Il proprietario del negozio, Ray, era l’uomo che aveva venduto il fucile a mio padre. Ray era un reduce della Prima guerra mondiale, in cui aveva combattuto insieme a mio nonno. Mio padre non era ancora in grado di camminare quando conobbe il vecchio compagno d’armi di suo padre. Ray era proprietario dell’edificio e viveva in una stanzetta attigua all’ufficio. A un certo punto, prima della mia nascita, sua moglie era morta; non si era più risposato, e quando i miei genitori parlavano di lui – quando papà, a cena, diceva che in settimana voleva passare da Ray – avevo la sensazione che la visita implicasse un dovere sottaciuto. Perciò, quando una mattina papà mi disse di accompagnarlo da Ray, scoprii che aveva deciso un mutamento di strategia nel suo approccio con quanto restava del suo unico figlio. La rabbia era ancora fresca, ma doveva aver iniziato ad avvertire il lento avvio della curva discendente.
Ricordo che quel giorno percepivo il mio corpo pericolosamente leggero. Come se un soffio di vento improvviso potesse sollevarmi da terra e trasportarmi attraverso il parcheggio. Credo che oggi saprei identificare quella sensazione come paura, ma all’epoca era qualcosa di strettamente fisico: la pesantezza della testa, che mi accompagnava quasi tutti i giorni, sembrava trascurabile. Sebbene non potessi ancora muovermi senza aiuto, mentre attraversavamo Monte Vista sentivo di poter camminare almeno per un paio di isolati. Mi fece pensare al futuro, il cui compimento andava presentandosi molto lentamente davanti ai miei occhi. I giorni, i mesi e gli anni a venire. Avevo diciassette anni, perciò il mio senso del tempo era ancora giocoforza limitato, ma il soffitto dell’ospedale mi aveva insegnato un paio di cose a riguardo. Lo vedevo nel tettuccio dell’auto: persino quando trovavo il punto di fuga, sapevo che oltre c’era qualcosa.
Fuori faceva caldo; quando arrivammo Ray era seduto su una sedia pieghevole nel parcheggio, accanto alla porta, con la schiena appoggiata contro il muro dell’edificio, il viso abbronzato e rugoso. Leggeva una copia di «PennySaver». Alzò lo sguardo su di noi quando scendemmo dall’auto; vide mio padre, poi me, guardò ancora mio padre. «Ehi, William» disse, con un punto fermo ben udibile alla fine del saluto. Poi guardò di nuovo me.
«Ehi, Sean» disse.
«Ciao, Ray» risposi.
«Ho sentito parlare di questa faccenda» disse. Non indicò il mio volto, non era necessario. Mi squadrò dalla sua sedia all’ombra, con la pazienza tipica degli anziani. Non era nervoso; avevo sviluppato un senso animale per riconoscere il nervosismo. Era un sollievo trovare qualcuno che potesse guardarmi senza innervosirsi.
«Davvero una stupidaggine» dissi. Non ero sicuro di essere sincero, ma era per fare un tentativo; sembrava mettere a proprio agio gli altri. Lui mi studiò come un gioielliere che valuta una pietra preziosa.
«Su questo devo darti ragione, Sean» disse dopo un po’. «Mi fa piacere che tu non sia riuscito a...» S’interruppe nello stesso punto in cui si fermavano quasi tutti, e prese un respiro come tendevano a fare quasi tutti. «Vorrei tanto che tu non lo avessi fatto.»
«Mi dispiace» dissi.
Mio padre non aveva ancora parlato. «Ray» disse poi, e Ray si alzò dalla sedia: era un saluto privo di formalità. Si strinsero la mano; Ray prese un profondo respiro quando incrociarono lo sguardo. Poi strizzò due volte con la mano sinistra la spalla destra di mio padre, e tutti e tre ci riparammo dal sole del mattino nel modesto negozio, una stanza verniciata di scuro e con la vetrina occupata da manifesti che bloccavano la luce.
Nei romanzi di Conan che amavo da ragazzo, la storia procedeva in Technicolor. Gli uomini morivano in modo violento e con serie conseguenze, in continuazione, e trovavano una fine gloriosa o squallida a seconda del loro destino, e la scena era sempre carica di una grande potenza, non importava che si ripetesse identica ogni volta; ogni offesa era crudele, la vendetta sempre totale. Conan si aggirava furtivamente per Cimmeria, una terra in costante subbuglio; nessuna tregua a Cimmeria era stabile, ogni scena tranquilla avrebbe di certo aperto scenari brutali, con fiumi di sangue a ricoprire i recenti ricordi degli antefatti. Cimmeria ribolliva senza pace. Persino nei periodi quieti, l’intrigo attendeva di manifestarsi come la foschia che si addensa al tramonto.
Nel negozio di Ray, ormai da molto tempo, la luce era rimasta quella che precede il crepuscolo, e non sarebbe mai cambiata. La polvere si ammassava sulle mensole al banco: vecchi pettini neri incollati a supporti di cartone ingiallito, barattoli di vetro spesso con bossoli di proiettile, un biglietto a L rialzato e sfilacciato e mezzo pieno di monete donate alla Città della Speranza. Non c’era alcun futuro in quel negozio, il passato era un rifugio privo di spettri. Niente di ciò che era lì dentro avrebbe mai lasciato quelle mura.
Credo che Ray avesse capito che mio padre era passato da lui per qualche faccenda di cui non riusciva a parlare, un argomento per cui provava imbarazzo o vergogna. La missione inoltre era parzialmente se non del tutto nascosta persino a mio padre, credo: stava improvvisando. Una volta entrati nel negozio, cominciarono a parlare come fanno gli adulti, senza dire niente: qualche riferimento ad amici comuni, poi osservazioni sul clima, commenti sugli L.A. Rams. «Sei già andato a vedere... a vedere i Rams?» chiese mio padre e Ray rispose: «No, non ancora».
Alla fine, come una telecamera di sorveglianza appesa al muro, Ray riportò la sua attenzione su di me. Gironzolavo vicino a una boccia da pesci piena di bossoli di fucile, volevo immergere la mano fino al polso, e lui disse qualcosa sul fatto che le armi non sono giocattoli. Mio padre, il suo amico – tipi come Ray – sembravano avere qualche difficoltà a rendersi conto persino delle cose più banali.
«Bisogna essere abbastanza grandi per maneggiare un’arma, e il punto è saperne rispettare la potenza» disse.
«Lo so, signore» risposi. Chiamavo automaticamente «signore» tutti gli amici di mio padre. A volte era difficile ricordare che fossero persone vere.
«Già, credo che ora tu lo sappia» disse Ray cercando di chiudere il discorso. Ma non sapeva nemmeno lui cosa sperava di dire, si era smarrito. Ne ero sempre più sicuro e in quel momento avvertii una specie di flusso caldo attraversarmi il corpo. Era difficile non sorridere.
«Sì, signore» dissi.
Ray proseguì ancora un po’ sul potere delle armi, il prezzo che pagava chi non teneva in giusto conto quel potere; a un certo punto smisi di ascoltare. Lasciai che la melodia arida e vuota della sua voce penetrasse nelle camere inattive del mio cervello. L’emozione che faceva capolino dalla sua voce, i suoi continui sforzi di controllarla: fantasticai di fare la spia sui miei genitori, rivelare che un avvocato aveva suggerito loro di accusare Ray se avevano intenzione di fare causa a qualcuno, e noi eravamo pa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il lupo nel furgone bianco
  4. Prima parte
  5. Seconda parte
  6. Ringraziamenti