Capitolo Due
Il giorno successivo all’apertura del libro di papà, mamma è tornata al lavoro. Dice che è tempo; che dobbiamo ritornare alla nostra vita normale; o, almeno, scoprire quale sarà la nostra nuova normalità. Essere normali è molto importante per mamma; non le è mai costato nessuno sforzo essere popolare, socievole e attiva, impegnata nella comunità, e penso che il fatto che sua figlia sia una solitaria l’abbia sempre sconcertata un po’. Decido anch’io di uscire da casa, diretta al mercato; non c’è scuola, gli studenti del mio anno non hanno corsi in questo periodo. So di dover ricominciare a occuparmi di quella roba, a ripassare per gli esami finali. Dovrò lavorare sodo per recuperare il tempo perduto se voglio diventare un tatuatore come ho sempre desiderato.
Mentre cammino sul marciapiede reso irregolare dalle radici sottostanti, mi domando quando sapremo la data della cerimonia della pesatura dell’anima di papà. La parte che richiede più tempo è già avvenuta nel mese che è trascorso dalla sua morte: lo scuoiamento, la conciatura, la rilegatura in volume della sua pelle. Adesso la gente al governo deve studiare il libro finito e preparare il suo caso in vista della cerimonia. E dopo potrà tornare a casa, da noi, al luogo a cui appartiene.
Durante la cerimonia della pesatura i capi annunciano la loro decisione definitiva riguardo al destino della tua anima. Per allora avranno studiato il libro di papà e deciso se ha condotto una vita abbastanza degna. I degni vanno a casa con la loro famiglia e prendono posto tra gli antenati, letti e ricordati per sempre. La loro anima, nell’aldilà, è salva. Se non sei giudicato degno, la tua anima viene distrutta tra le fiamme insieme al tuo libro. Non l’ho mai visto succedere, ma si dice che l’odore di un libro di pelle al rogo sia impossibile da dimenticare. Comunque questo non ha niente a che fare con papà; nessuno potrebbe aver condotto una vita migliore o più pura.
Avvicinandomi al centro città il marciapiede si fa sempre più stretto, fino a essere largo a malapena per una persona. Camminando lungo la strada polverosa sbircio dalle finestre delle case a schiera che l’affiancano. Edifici trascurati, di diversi colori, affacciati direttamente sul marciapiede. Quando ero piccola, mi inventavo storie sulle strade come questa; immaginavo che un gigante avesse strizzato insieme l’intera fila di case, restringendo le facciate e creando tetti malfermi e di altezze differenti. Ora mi racconto storie diverse mentre spio attraverso le finestre dai vetri piombati e mi pongo domande sulla vita all’interno. Le tende non sono chiuse? Lo prendo come un invito a indovinare chi vive in quel luogo. Sono così assorta a guardare che quasi sbatto contro un uomo che sta staccando i petali appassiti di un geranio rosso alla sua finestra. Lo aggiro in fretta, un piede sulla strada, inalando il sentore pungente dei fiori morenti.
Continuo a camminare e sfoglio nella mente le pagine del libro di papà. Sento le mie spalle rilassarsi. Mi è stato di gran conforto, vederlo ieri notte. Mamma sembrava una persona diversa quando abbiamo lasciato il museo; ha sospirato così forte quando ha raggiunto l’ultima pagina che dapprima ho pensato ci fosse qualcosa che non andava, ma quando mi sono girata a guardarla stava sorridendo. E aveva ragione, la pelle di papà racconta una storia bellissima. Leggere il tuo libro dovrebbe permettere a chiunque di leggere la storia della tua vita, pesando il buono e il cattivo e scoprendo se sei degno. Tutte le cose importanti finiscono sulla tua pelle. L’alternativa è che rimangano nella tua anima e nessuno vuole l’anima appesantita, né dall’orgoglio per le buone azioni, né dalla colpa per le mancanze. Marchiamo i corpi perché le anime restino libere e lievi. Solamente i degni conquistano il diritto al ricordo, e perché accada, ciò che c’è di buono in te deve pesare più del cattivo e la tua anima deve essere libera.
Il pensiero dell’anima pura di papà pronta per essere valutata degna mi suscita un sorriso. Non vedo l’ora che venga il giorno della pesatura. Papà era uno scuoiatore – saranno stati proprio i suoi compagni di lavoro ad aver tagliato a strisce sottili la sua pelle, preparandola per i conciatori. Lui ha fatto la stessa cosa per i loro cari e per gli innumerevoli sconosciuti che arrivano tra le loro mani ogni giorno.
Mamma è una lettrice; immagino che si possa definire più una vocazione che una professione, ma è comunque un lavoro che paga. È difficile spiegare che cosa fa di te un lettore, ma il modo migliore per descriverlo è dire che qualcuno di noi può leggere significati che vanno al di là dei marchi, al di là del messaggio superficiale, arrivando a vedere ciò che il tatuaggio dice in merito al cuore di una persona. Mamma è in grado di guardare un albero di famiglia e dire chi è il figlio preferito. Guarda i marchi dell’età sulla tua mano e ti sa dire quale anno ti ha quasi distrutto.
Guardando i marchi che descrivono le tue qualifiche è in grado di dire se hai imbrogliato. La gente ammira i lettori, ma li teme. Una volta mamma mi disse che chiunque ha dei segreti che vuole mantenere tali.
Anche se in realtà non dovremmo averne. Questo è il punto.
Anch’io ho il dono. Sono stata in grado di leggere la gente fin da piccola. Mamma dice di averlo capito quando mi misi nei guai durante la prima settimana di scuola. Avevo chiesto a un bambino perché non viveva con il suo vero padre. Quando sua madre si presentò, furibonda, alla nostra porta esigendo di conoscere chi aveva spettegolato sul loro conto, mamma capì che dovevo aver letto tra le righe sulla pelle del ragazzo. Ma solo perché posso farlo, non significa che io voglia farne la mia professione. Amo la possibilità di dare una sbirciata ai marchi e alla vita della gente, ma a volte mi stanco di tatuaggi che urlano il mondo interiore degli estranei che mi passano accanto. Non credo che potrei sopportarne le facce ansiose, seduti al tavolo di lettura di fronte a me, consapevoli che, se i loro marchi scegliessero di rivelare la verità, io non potrei evitare di vederla.
No, il mio sogno è diventare un tatuatore. Posso solo sperare di passare gli esami con voti sufficientemente alti, cosa meno scontata di quanto non sarebbe stata una volta. Ho perso così tante lezioni a causa della malattia di papà. È la prima volta che sono in ansia per la scuola, sono sempre andata bene.
Mentre mi avvicino al centro città le case lasciano spazio a file di negozi. Supero il panettiere, un fiorista e la pelletteria dove vengono riparate le nostre scarpe e borse. I ciottoli sostituiscono la polvere e la stradina che sto percorrendo mi porta alla piazza principale. In mezzo al grande spiazzo c’è un fazzoletto di terreno mantenuto a prato, che risplende contro la pietra e il legno degli edifici circostanti. Al centro si trova la statua del Santo, la guida più importante della nostra storia.
È un’alta figura in bronzo che svetta nel bel mezzo della nostra animata città: nella sua toga levigata, il Santo ci osserva. Ho sempre amato la sua storia – il racconto che narriamo per ricordarci la sua lealtà, il potere delle storie e la necessità di scuoiare i morti per liberarne l’anima. Naturalmente, la statua si erge anche come ammonimento contro gli spregevoli comportamenti degli intonsi.
Da un angolo all’altro la piazza è attraversata da percorsi pedonali su cui la gente passeggia chiacchierando, alla ricerca di un francobollo di erba dove sedersi a bere un caffè. È qui che si ha la percezione di quello che conta a Saintstone e, se qualcosa è importante qui, lo è dovunque. Tutte le città vicine dipendono da noi: Saintstone è la sede del governo, ed è qui che vengono prese tutte le decisioni strategiche. Mi piace vivere al centro degli eventi, non so come sarebbe abitare in una delle cittadine più piccole, dove tutti pensano di conoscerti perfino prima di aver visto i tuoi tatuaggi.
A seconda della direzione da cui soffia il vento si riesce a sentire l’odore del fumo che proviene dalla sala del giudizio. È un ampio edificio circolare di pietra e vetro colorato che si innalza in una grande ciminiera. Il fuoco è sempre acceso e il fumo crea permanenti nuvole grigiastre sopra la città. È il luogo dove avviene la cerimonia della pesatura dell’anima e dove mamma e io andremo quando sarà il nostro turno di pronunciare i nomi dei morti. È anche il luogo dove vengono insegnate e confermate le questioni di fede. I nostri insegnanti si formano qui; la nostra educazione e formazione spirituale è altrettanto importante dei risultati accademici.
Su questo lato della piazza, alle mie spalle mentre cammino, si trova il museo – il mio luogo preferito. Si innalza circondato da gradinate e svetta su di noi con colonne di pietra e finestre ad arco. Da qui ha un aspetto cupo e imponente, ma una volta dentro è luminoso e accogliente. Papà mi ci portava spesso. Deglutisco quando all’ombra dell’edificio sento un brivido improvviso, e mi affretto ad allontanarmi.
Sull’altro lato della piazza, oltre l’erba, gli alberi e le panchine, vedo un improvviso trambusto. Alcune persone stanno montando degli altoparlanti su una piattaforma costruita fuori dal palazzo del governo, una gigantesca scatola a forma di L che occupa due lati della piazza. Ci dev’essere una riunione di cui mi sono dimenticata. La gente si sta radunando; alcuni si stanno alzando dalle panchine per dare un’occhiata da vicino, e nell’aria si sente il brusio basso delle conversazioni.
Il palazzo del governo mi fa ricordare che è da un po’ che non mi convocano per il mio test della verità. Immagino succederà presto. Ci permette di confessare, quindi lo sosteniamo regolarmente, un appuntamento che si ripete ogni pochi anni. Rivedo con chiarezza l’immagine di papà che mi ci accompagna per la prima volta, quando avevo quasi quattordici anni.
Papà mi aveva assicurato che non c’era nulla di cui dovessi preoccuparmi, ma questo non mi aveva impedito di avere paura. Tutti avevamo sentito parlare della macchina che legge le pulsazioni, la temperatura corporea e che segnala con un bip se stai mentendo, ma io non l’avevo mai vista. L’immaginazione mi aveva convinta che sarebbe stato sicuramente doloroso. Ero certa che sarei stata smascherata; pensavo a tutte le piccole bugie che avevo raccontato ai miei genitori e alle volte in cui avevo preso di nascosto un biscotto quando mi avevano detto che ne avevo già avuti a sufficienza. Avevo persino avuto incubi in cui confessavo un crimine che non avevo commesso.
Fu una delusione quando, dalla reception, ci portarono in una semplice stanzetta dalle pareti bianche con due sedie, un tavolo di legno e un piccolo aggeggio che non era niente più di una cupola di metallo brutta e ammaccata da cui uscivano dei cavi, collegata a una lampadina. Un uomo con un taccuino mi fece segno di sedermi, ma papà, vedendo quanto ero nervosa, gli chiese di poter andare per primo. Si sedette su una sedia, mise la mano sinistra sulla cupola e mi guardò sorridendo, alzando gli occhi al cielo come per dirmi “È una passeggiata”.
Rispose tranquillamente a tutte le domande e la macchina non fece nulla. Fui sollevata che le domande non fossero troppo difficili: solo richieste generiche sui nuovi marchi e una lista di crimini che lui dovette confermare di non aver commesso. L’uomo prese qualche appunto e, alla fine, sorrise a papà dicendogli che poteva alzarsi.
«Ha la coscienza pulita, signor Flint. Bene, bene.» Sorrise come se fosse tutto un allegro passatempo e poi guardò nella mia direzione. «Adesso tocca a te.» Ridacchiò. «Prometto che non sentirai niente.»
Mi sedetti e feci un lungo respiro ma, nel momento in cui vi appoggiai sopra la mano, la macchina cominciò a stridere. La ritrassi subito, terrorizzata.
«Cos’è successo?» Mi ricordo che volevo piangere e guardavo incredula papà. Lui cercava di trattenere il sorriso.
L’uomo invece sorrideva apertamente. «Non preoccuparti. Non l’avevo reimpostata come si deve.»
Ora papà stava ridendo.
«Forse hai da nascondere più di quanto pensassi, Leora» disse. Gli lanciai un’occhiataccia.
Alla fine andò tutto bene; mi furono chieste le stesse cose di papà, più un paio di domande adeguate a persone della mia età, per esempio se avessi mai imbrogliato a scuola. La macchina rimase beatamente silenziosa e lungo la strada di casa papà mi comprò un dolce per farsi perdonare di aver riso di me.
Mentre taglio per il sentiero tra la sala del giudizio e il palazzo del governo, diretta verso le bancarelle del mercato alle spalle dell’edificio, mi accorgo di stare sorridendo.
Vorrei che lui fosse qui.
Oggi fa freddo. È il primo giorno di vero gelo, quest’inverno, e di conseguenza tutti sono avviluppati in strati supplementari di abiti. È strano vedere meno pelle esposta – mi sento un po’ tagliata fuori mentre cammino tra gente di cui riesco a vedere solo i marchi sui volti e sugli avambracci. È una bella sensazione, però; mi sento meno nuda, e non solo a causa dello scialle che ho avvolto stretto intorno alle spalle. È solo che a volte è bello nascondere i miei marchi – anche se non lo direi mai ad alta voce.
Il mercato c’è quasi tutti i giorni, e io piombo in mezzo a una cacofonia di tende a strisce, di grida e di gente. Cerco di trattenere il respiro mentre passo vicino al macellaio – l’odore della carne appesa mi dà la nausea. Prendo fiato quando raggiungo il banco dei tessuti. L’odore terroso del cotone e quello speziato delle tinture sono irresistibili. Mentre inalo i colori, immagino di espirare sbuffi d’arcobaleno. Cammino attraverso la folla, tenendo lo sguardo puntato sui miei piedi – così è più facile. Solo per oggi voglio ignorare i frammenti di conversazione e lasciare che i marchi della gente diventino rumore di sottofondo. Finché il ricordo è ancora fresco preferisco avere nella mente solo quelli di papà.
Seguo il mio naso finché non distinguo i profumi del banco del fruttivendolo. Le cassette che contengono le merci sono rialzate, in modo da allettare i passanti con le loro prelibatezze. Il fruttivendolo, con il grembiule verde leggermente impolverato di terriccio, mi sorride. In mano tiene una busta di carta e aspetta il mio ordine. Ha le maniche arrotolate – ci si aspetta che abbiamo sempre gli avambracci in vista – e le sue braccia mi dicono tanto di lui. Ha trentasei anni ed è intelligente – il più sveglio della sua classe, abbastanza da poter scegliere il lavoro che preferisce – ma nei suoi marchi c’è anche morte. Leggo di una gioventù troncata precocemente dalla dipartita del fratello maggiore. Adesso sembra felice, però, e i suoi marchi si snodano raccontandomi che ha una famiglia sua. Nell’inchiostro leggo gioia – c’è abbondanza nella sua vita, e non solo per la gran quantità di mele e fagioli all’interno delle cassette che lo circondano.
Chiedo al fruttivendolo delle cipolle e incomincio a riempire di patate ancora sporche di terra un sacchetto di carta che ho portato da casa. Le carote hanno un bell’aspetto e i pomodori hanno un profumo fresco e dolce.
«Sa cosa sta succedendo in piazza?» gli chiedo. «Hanno allestito un palco e si sta radunando molta gente.»
Scuote il sacchetto di cipolle e lo ruota per chiuderlo, tenendolo stretto per gli angoli. «Non hai sentito? Ci sarà una marchiatura pubblica» dice, mentre gli porgo il sacchetto di patate perché lo pesi. Sento dell’eccitazione repressa nella sua voce, ma anche qualcos’altro. Paura? «Sono passati anni dall’ultima volta.»
Ci sono un sacco di cose a cui non ho prestato attenzione, ultimamente. Sono stata così impegnata con papà. Lancio un’occhiata verso la strada, esitando. Ho sentito raccontare delle marchiature pubbliche a scuola e sono incuriosita. Pago il fruttivendolo, raccolgo la mia borsa e mi unisco alla folla che si dirige verso la piazza. Nella fretta di superarmi qualcuno mi urta la spalla. Le voci si fanno più forti e mentre mi avvicino il sentiero si riempie di gente attirata dal desiderio di vedere che cosa succederà.
Quando raggiungo la piazza, attorno al palco si è già ammassata una gran folla e io rimango verso il fond...