Una vita tedesca
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Una vita tedesca

  1. 280 pagine
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Informazioni su questo libro

Brunhilde Pomsel fu vicina come pochi altri suoi contemporanei a uno dei più grandi criminali della storia: Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler. Sempre al suo fianco, sempre ai suoi ordini come segretaria e dattilografa. Brunhilde non si interessava di politica. Per lei venivano prima il lavoro, la sicurezza materiale, il senso del dovere nei confronti dei superiori, il bisogno di sentirsi parte di un sistema. Poco dopo l'ascesa di Adolf Hitler, si iscrive al Partito nazionalsocialista per assicurarsi un posto alla radio. Nel 1942 si trasferisce al ministero per l'Istruzione pubblica e la Propaganda ritrovandosi così accanto all'ufficio di Goebbels e nel centro nevralgico del potere nazista. Vi rimane fino alla capitolazione, nel maggio del 1945. Durante gli ultimi giorni di guerra, quando le truppe sovietiche sono già a Berlino, anziché cogliere l'occasione per fuggire resta nel bunker a battere a macchina i comunicati. Poi, per settant'anni, non racconterà niente a nessuno. Dal cuore di Berlino, l'autrice dipinge un ritratto inconsapevole, eppure inquietantissimo, della Germania prima, durante e dopo il Reich, raccontando una realtà sconcertante che mostra quanto l'indifferenza e la disillusione possano influenzare la democrazia. "Prima che la storia si ripeta" scrive Thore D. Hansen "individuare le analogie tra passato e presen- te ci offre l'opportunità di calibrare con cura la nostra bussola morale, in modo da renderci conto quando sia giunto il momento di schierarci, di alzarci e di opporci apertamente alla radicalizzazione. Con quanta superficialità prendiamo in considerazione i nostri criteri morali di valutazione? Per quali fini primitivi, immediati, banali e superficiali o per quali successi apparenti siamo pronti a sacrificare la nostra coscienza? Sono domande alle quali la storia di Brunhilde Pomsel non può e non potrà mai dare una risposta universalmente valida. Solo la disponibilità a riflettere di ciascuno di noi potrà produrla."

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Informazioni

Che cosa c’insegna la storia della segretaria di Goebbels

Thore D. Hansen
Più di qualsiasi altro testimone del suo tempo, Brunhilde Pomsel ammette apertamente il proprio opportunismo, usando il proprio tornaconto personale e il proprio egoismo giovanile per giustificare il disinteresse per la politica e la posizione avuta durante il nazismo. L’esperienza della povertà e soprattutto la paura di un peggioramento economico, così come il profondo desiderio di benessere e di ascesa sociale, sono una costante della sua infanzia e giovinezza e l’accompagnano fino alla maturità. La carriera veniva per lei prima di tutto il resto, e preferì volgere lo sguardo dall’altra parte invece di confrontarsi con le azioni del suo superiore, Joseph Goebbels, e cercare una via d’uscita personale.
Goebbels fu uno dei principali artefici del nazionalsocialismo. Sfruttò il cinema e la radio – le conquiste degli anni Trenta per raggiungere le masse – a fini propagandistici, per indottrinare il popolo tedesco e soprattutto per diffamare ebrei, comunisti e altri gruppi ai margini della società. I suoi discorsi sono considerati ancor oggi esempi magistrali di manipolazione del popolo. La propaganda antisemita da lui attuata costituì la base ideologica per l’Olocausto.
Talvolta, nel corso dell’intervista, ci si chiede, increduli: come è possibile che una giovane donna, che a causa della situazione politica perse l’amato e una carissima amica, non riesca a mettere questi fatti in diretta relazione con le azioni dell’uomo per il quale – per puro senso del dovere e per una insanabile idealizzazione della realtà – mantenne il posto di segretaria, per poi finire prigioniera in un campo speciale sovietico e ritrovarsi sotto la stessa doccia dalla quale presumibilmente era uscito il gas che aveva ucciso la sua amica Eva Löwenthal?
E tuttavia, alla prima del documentario Una vita tedesca, spettatori e giornalisti mettevano in guardia di non cedere alla tentazione di pronunciare una condanna unilaterale nei confronti dell’anziana segretaria di Goebbels. Lo facevano nella consapevolezza che anche ai nostri giorni si stanno diffondendo nella popolazione l’ignoranza, la passività e il disinteresse, mentre altri strati della società stanno diventando sempre più intransigenti. Paul Garbulski della rivista «Vice» spiega questo fenomeno con estrema precisione quando scrive: «Ho sempre cercato di guardarmi dagli altri, e in questo c’è l’uomo comune che alberga in me, sul quale poggia quella assurda pigrizia, sufficiente a spianare la strada al tradimento e alla violenza di interi eserciti. Stiamo attenti a quella parte di Pomsel, anche piccola, che alberga in ognuno di noi».1
Come Brunhilde Pomsel divenne la persona che è diventata, ce lo racconta lei stessa quando ricorda la sua infanzia. Nacque a Berlino nel 1911, figlia di un decoratore. L’ex segretaria di Goebbels descrive la vita povera e alquanto modesta del periodo del dopoguerra e della crisi economica mondiale degli anni Trenta. Nonostante le condizioni economiche della sua famiglia fossero relativamente buone, cresce in lei il desiderio di assicurarsi il benessere materiale e di far carriera. I metodi educativi famigliari e la severità del padre la segnarono per tutta la vita. Se uno dei cinque figli si comportava male, veniva semplicemente preso a sculacciate.
Con l’amore e la comprensione non si arrivava da nessuna parte. Era normale ascoltare i genitori, così com’era normale imbrogliare ogni tanto, raccontare qualche bugia o incolpare un altro.
Anche i nazionalsocialisti scaricarono ben presto la colpa delle condizioni in cui versava la Germania negli anni Trenta su un gruppo ben determinato: gli ebrei. E Brunhilde Pomsel ha una risposta chiara e precisa per coloro che oggi sostengono che a quell’epoca si sarebbero adoperati a loro favore:
Alcuni sostengono che avrebbero fatto di più per aiutare quei poveri ebrei perseguitati. Non metto in dubbio che lo pensino sinceramente. Ma lo dicono oggi, mentre allora si sarebbero comportati allo stesso modo. Con i nazisti al potere, era come se l’intero Paese fosse sotto una campana. Noi stessi eravamo in un gigantesco campo di concentramento. Dopo l’ascesa di Hitler era troppo tardi per qualsiasi cosa. Ognuno aveva i propri problemi da risolvere, non c’erano solo le persecuzioni degli ebrei. C’era molto altro, per esempio i destini dei propri parenti in guerra. Ma non deve essere una giustificazione.
Come si spiega l’ascesa di Hitler negli anni Venti del secolo scorso e perché non è più stato possibile fermarlo? Nel rispondere a questa domanda oggi tutti concordano solo su un punto: non esiste alcuna spiegazione facile e adducibile a una sola causa. Non dipese, unicamente, né dall’ideologia e dalla propaganda, né dalla forza di suggestione di Hitler, né dal terrore che le SA seminavano per le strade, dalle condizioni politiche e sociali del tempo, dall’umiliazione inflitta al popolo tedesco dai trattati di Versailles, dalla minaccia comunista e dalla disoccupazione di massa. Nessuna di queste condizioni può, da sola, spiegare l’ascesa al potere del nazionalsocialismo. Ma, messi insieme, tutti questi fattori provocarono un effetto devastante.
Avendo ben chiare le cause che avevano reso possibile il nazismo, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale i padri costituenti di Germania, Italia e Austria misero al centro delle loro preoccupazioni l’eventualità che i nascenti sistemi democratici potessero di nuovo essere travolti da movimenti estremisti e che la storia si ripetesse.
Brunhilde Pomsel, probabilmente l’ultima testimone dall’interno dell’apparato nazista, offre a noi cittadini del XXI secolo l’opportunità di comprendere perché i populisti radicali, i sistemi autoritari e infine le dittature ritornino e perché, seppure in forme diverse, a livello internazionale tutto ciò stia già accadendo da tempo e quali cause stiano giocando un ruolo importante nel ripresentarsi di questi fenomeni.
Se da un lato è forse prematuro affermare che la storia si ripete, dall’altro è altrettanto presuntuoso e superficiale ignorare le evidenti avvisaglie che alimentano il timore di una possibile disgregazione dell’Europa, un processo nel quale non si possono escludere conflitti armati.
Se ci si avvicina a Brunhilde Pomsel attraverso i ricordi e le motivazioni, per lo più innocue e banali, che la portarono nel cuore del potere nazista, non si possono non riscontrare alcune analogie con il presente, in cui una grossa parte dei cittadini delle democrazie occidentali percepisce a stento i fatti reali, ed è dominata solo dalle emozioni che tali fatti scatenano. La sensazione di ingiustizia può arrivare a condurre intere fasce di popolazione su posizioni radicali e alla fine è sufficiente agitare lo spauracchio del nemico adatto alla circostanza per convincerle della bontà di soluzioni semplicistiche, se non peggio. Insomma, la storia della segretaria di Goebbels può essere un’occasione per indurci a impegnarci di più su tutti i fronti per mantenere una società aperta.
A tratti, ascoltando le parole di Brunhilde Pomsel, si ha l’impressione che non sia sincera. Di sicuro anche lei, come molti altri, ha semplicemente cercato di rimuovere alcuni dettagli del suo lavoro, e tuttavia è indubbio che la consapevolezza di quanto accadeva all’interno del Ministero della Propaganda non ha mai smesso di accompagnarla in tutti questi lunghi decenni.
È difficile, quando uno ha attraversato un periodo simile, pieno di alti e bassi. Alla fine però quello che conta è la mia vita, il mio destino, e in fondo, a guardare bene, ognuno ha sempre pensato solo a se stesso. A volte non mi sento del tutto a posto con la mia coscienza, in qualche modo la colpa è sempre individuale, e poi mi dico: te la sei sempre cavata bene in tutto. Certo, dei fatti atroci che accadevano ero a conoscenza un po’ di più rispetto all’uomo comune. Ma ce l’ho sempre fatta.
Nel ripercorrere la sua vita, Brunhilde Pomsel non ha rivelato quali siano i fatti atroci di cui è venuta a conoscenza. Ma se è vero che non ha mai saputo nulla, non è perché non abbia potuto saperlo, ma perché non ha voluto.
E nemmeno lo volevamo sapere, non ci volevamo caricare di altri pesi inutili. Era già sufficiente che ognuno di noi dovesse combattere con le proprie difficoltà, soprattutto da quando l’approvvigionamento aveva iniziato a scarseggiare.
[…]
Se in un momento così difficile, in cui c’erano così tante cose a cui pensare e da risolvere, se in quel momento ci fossimo anche solo messi a pensare che era stato tutto un errore… no, non potevamo assolutamente ammetterlo con noi stessi.
Ciò di cui avrebbe potuto essere a conoscenza è ormai risaputo, dai colloqui con Brunhilde Pomsel non ci si aspettava certo di acquisire nuove conoscenze storiche, anche perché dei dettagli non voleva assolutamente parlare o non era più in grado di ricordarli. Ciò che rende le sue affermazioni particolarmente preziose per il nostro tempo lo si legge tra le righe. Nonostante tutti i vuoti di memoria, alla fine è stata in grado di riflettere sulla propria vita, consegnandoci una confessione inusuale, talvolta molto dura.
Naturalmente sono colpevole nel senso che sono stata una stupida. Ma nessuno voleva tutto ciò che accadde in seguito. Tutti si aspettavano una ripresa del Paese dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale, cosa che nei primi anni si era anche verificata. La rinascita di un popolo umiliato, che aveva perso la guerra e che nei trattati non aveva ottenuto la dovuta giustizia.
Quando Brunhilde Pomsel afferma di non aver saputo nulla della reale entità della persecuzione degli ebrei, a ragione le si può rimproverare che proprio lei, che lavorava nel ministero della Propaganda, dove i fatti venivano edulcorati e si decideva quali notizie nascondere e quali invece divulgare, avrebbe potuto benissimo sapere qualcosa, se solo avesse voluto. Già dal 1942 correvano voci in tutto il Reich che gli ebrei non fossero trasferiti altrove, bensì portati in campi di concentramento. E le informazioni raccolte da sondaggi anonimi, condotti fino agli anni Novanta del secolo scorso tra i testimoni di quel periodo, hanno mostrato che il quaranta per cento della popolazione tedesca, già prima della fine della guerra, era a conoscenza dell’Olocausto. Brunhilde Pomsel avrebbe però anche potuto, in un momento in cui non veniva osservata, dare un’occhiata agli atti dei processi contro la Rosa Bianca o ad altri fascicoli che le venivano affidati, anziché riporli, senza nemmeno guardarli, in una cassaforte ed essere orgogliosa di aver eseguito le disposizioni dei superiori e di essersi in tal modo guadagnata la loro fiducia. Nella giovane segretaria, il bisogno di un riconoscimento e il cieco senso del dovere prevalsero su tutto il resto.
Ci sentivamo un po’ un’élite. Per questo era molto bello lavorare lì. L’ambiente era piacevole, mi ci trovavo bene. Persone eleganti, gentili. È vero che a quell’epoca anch’io ero molto superficiale, sì, ero molto stupida.
L’unica cosa che rimprovera a se stessa è di essere stata superficiale, mentre nega con forza di essere colpevole in prima persona per i crimini del nazismo.
A meno che non si decida di accusare l’intero popolo tedesco di aver contribuito all’ascesa del nazismo. In questo caso lo siamo stati tutti, me compresa.
Questo modo di vedere le cose ignora naturalmente che ogni persona, allora come oggi, deve sempre rispondere delle proprie decisioni, della propria posizione nella società. Tuttavia, il giudizio di Brunhilde Pomsel si rivela esatto per quanto riguarda l’esito di tale atteggiamento: senza il consenso di larghi strati della popolazione al Partito nazista, unito al disinteresse per i veri scopi del «movimento», con tutta probabilità la storia avrebbe preso una piega diversa anche negli anni Trenta del secolo scorso.
Può il disinteresse politico essere considerato di per sé una colpa? Per comprendere quali insegnamenti si possono trarre dalla biografia dell’ex segretaria di Goebbels, è irrilevante se sia stata o meno una nazista convinta. È evidente che non lo fosse. Tra partecipazione attiva e altrettanto attivo volgere lo sguardo da un’altra parte, nel suo caso la questione della responsabilità si confonde nell’affermazione delle proprie stupidità e ingenuità, con cui cerca di difendersi. Da un punto di vista morale volgere lo sguardo da un’altra parte è già di per sé una colpa perché vivere significa sempre partecipare. Questo vale anche e soprattutto in una democrazia, nella quale i diritti umani sono la base dei diritti fondamentali. Attualmente molte persone si allontanano dai sistemi democratici perché non mettono in discussione i meccanismi che stanno minando la solidarietà sociale e umana. O forse non vogliono? Nella vita di Brunhilde Pomsel, così almeno sembra, poche cose, a eccezione della propria carriera, erano veramente importanti.
Era il mio destino. Ma c’è qualcuno che, soprattutto in tempi così movimentati, ha in mano il proprio destino? Sono pochissimi quelli che possono dire: ho fatto questo e quest’altro per questo e quest’altro motivo. Andò semplicemente così, non c’è altro da aggiungere!
Già Traudl Junge, la segretaria di Hitler, affermava di non aver saputo nulla dell’Olocausto. E anche Rochus Misch, il centralinista del Führerbegleitkommando, il Commando delle SS per la scorta del Führer, ha sempre sostenuto di non aver mai sentito parlare, in presenza di Hitler, di una «soluzione finale». Comune alla loro biografia è che alla fine non poterono fare a meno di vergognarsi, di sentirsi responsabili o di nascondersi, tanto pesò la connivenza con i crimini dei superiori.
Effettivamente fino a oggi ci sono pochissime informazioni dirette su come si sia parlato, nella cerchia ristretta dei collaboratori di Goebbels, della cosiddetta «soluzione finale». Se anche fosse vero che soltanto gli assistenti personali del ministro, e non le segretarie, erano a conoscenza dei progetti di sterminio degli ebrei in Europa, è difficile credere alle affermazioni di Brunhilde Pomsel quando sostiene di non aver saputo nulla. Dato che gli ordini dettati dal ministro della Propaganda, oggi a nostra disposizione, non portano alcuna sigla, non è più possibile risalire alla persona che li aveva registrati o trascritti. Ma si stenta a credere che una dattilografa così vicina ai vertici non abbia saputo nulla dei loro contenuti.2
A Brunhilde Pomsel si possono rimproverare molte cose, la si può giudicare per l’apparente distanza con la quale si rapporta alla propria biografia, che deriva forse dal tentativo di convivere con la colpa, seppure inconscia, di essere stata parte del sistema. Ha avuto circa settant’anni di tempo per riflettere e darsi una spiegazione. Resta il fatto che è stata al servizio di un uomo che ha sedotto, manipolato e portato alla rovina un intero popolo. Ostinarsi a negare di essere colpevole in prima persona per i crimini del nazismo e insistere nell’affermare di non aver saputo nulla le rende forse più facile accostarsi alla verità che riguarda la sua persona. Di sicuro la sua confessione risulta più credibile di quella di altri al servizio della dirigenza nazista i quali, dopo la guerra, hanno cercato di discolparsi, di mentire o anche semplicemente di minimizzare i fatti.
Forse, nella mia vita, ho avuto a che fare con più criminali di quanto io stessa ne sia conscia. Ma non si può saperlo in anticipo. E all’epoca in cui lavoravo per Goebbels, per me lui era solo il mio superiore, quello che veniva subito dopo Hitler. L’ordine di trasferimento mi giunse dal ministero. Lo stesso vale per i soldati che sparavano ai russi, ai francesi o agli inglesi; non per questo sono assassini. Hanno solo compiuto il loro dovere. Potrei rimproverarmi qualcosa solo se avessi fatto del male a qualcuno in prima persona e ingiustamente. E non mi ricordo che sia capitato.
La storia di Brunhilde Pomsel ci offre l’opportunità di vedere cosa comporta ignorare l’insorgere di una dittatura e in seguito dover vivere e sopravvivere in essa, fisicamente e psichicamente. Ci consente di vedere con chiarezza l’attuale tentativo dei populisti di liquidare le democrazie occidentali. La vita di questa ultracentenaria dovrebbe suscitare il nostro interesse perché, nella sua «viltà» apertamente dichiarata e nella sua posizione apolitica, emerge un’analogia con quanto da tempo sta crescendo nella nostra società: l’enorme disinteresse, la pigrizia nella lotta politica, l’apatia nei confronti del destino dei profughi, l’odio divampante nei confronti delle élite democratiche e la nuova ascesa di populisti di destra che hanno apertamente dichiarato guerra alla democrazia e all’integrazione europea.
Il suo superficiale egoismo, l’allettante offerta di lavoro da parte del futuro cronista radiofonico Wulf Bley, così come il desiderio di avanzamento sociale e di appartenenza furono per Brunhilde Pomsel i motivi che segnarono il suo ingresso nel Partito e alla radio. Si è «semplicemente lasciata trascinare».
Fu solo grazie al fortunato incontro con Wulf Bley che riuscii ad avere un contratto, anzi un buon contratto. Non ricordo più bene, ma comunque guadagnavo più di duecento marchi al mese. Era una cifra enorme. Paragonato con quanto avevo dovuto penare per anni, era semplicemente uno stipendio da favola. In un primo momento lavorai in direzione, in seguito nell’ufficio dei precedenti direttori. Di per sé non era un grande onore, perché vi lavoravano le persone che dovevano essere trasferite, vale a dire tutte le segretarie di direzione che prima lavoravano per gli ebrei: erano soprattutto membri del consiglio di vigilanza, che in seguito furono cacciati o finirono in un campo di concentramento; in ogni caso furono tutti allontanati dalla radio.
La paradigmatica biografia di Brunhilde Pomsel può servirci da bussola per capire come a costituire una minaccia per la democrazia sia non solo la mancanza di disponibilità a impegnarsi per una società aperta ma anche l’incapacità delle élite politiche democratiche di reagire in maniera adeguata e tempestiva agli sviluppi negativi dell’epoca moderna. Nella ricerca di analogie tra gli anni Trenta del secolo scorso e il nostro presente si arriva inevitabilmente a porsi alcune domande. Che cosa sta accadendo in Europa e negli Stati Uniti? Non è forse vero che, di fronte agli attuali sviluppi politici, quella parte di popolazione che non si è ancora lasciata condurre su posizioni radicali dai nuovi de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una vita tedesca
  4. Introduzione di Thore D. Hansen
  5. «La politica non ci interessava» Una gioventù nella Berlino degli anni Trenta
  6. «Hitler era semplicemente l’uomo nuovo» Alla radio del Reich
  7. «Ci sentivamo un po’ un’élite» Carriera nel ministero della Propaganda
  8. «Fedele fino alla fine » Gli ultimi giorni nel ministero della Propaganda
  9. «Non sapevamo nulla» Arresto e nuovo inizio
  10. «Non ero colpevole» Il bilancio di una centenaria
  11. Che cosa c’insegna la storia della segretaria di Goebbels di Thore D. Hansen
  12. Ringraziamenti
  13. Note
  14. Indice