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Mark stringe le ginocchia al petto e ci infila la testa dentro. All’età di sei anni sa cos’è la paura. E la porta della stanza, chiusa a chiave, è lì per ricordarglielo.
Fuori, gli strepiti rompono il silenzio della notte.
Sono iniziati con un rumore secco, come lo schianto di un vetro in frantumi. Mark è saltato sul letto e si è messo in ascolto, evitando che il ritmo del respiro gli impedisse di sentire. Prima una pausa prolungata, poi un altro colpo, stavolta sordo, simile al tonfo di un pugno su una poltrona. Quindi il fragore.
Mark riflette: la sua prigione è anche la sua salvezza. Oltre quella porta, la furia si abbatte su tutto ciò che trova: libri, sedie, tavoli, divani, soprammobili.
È bravo a suonare il pianoforte e abbina ogni rumore a una nota. Un pugno contro il muro è cupo come un do. Una tazzina che precipita in terra, invece, assomiglia a un si.
“Se riesco a immaginare la musica” pensa, “tutto questo finirà.”
Quasi fossero le melodie che Jeremy Welch, il maestro di piano, gli assegna il mercoledì pomeriggio. E quelle noiosissime lezioni di solfeggio… che prima o poi finiscono sempre.
Non c’è dubbio, si convince, anche questa nottata sarà solo un ricordo.
Lo spera con la testa incastrata tra le ginocchia e le lacrime che colano lungo le gambe. Di tanto in tanto avvicina la mano al volto e, senza aprire gli occhi, le asciuga, con un pizzico di pudore, perché una volta suo padre gli ha detto che, anche per lui, è giunto il momento di diventare un uomo.
Mark ci prova, rinunciando alle urla e alle richieste di aiuto. Aspetta ancora qualche istante, finché il tumulto si placa e sfuma in un silenzio perfino più pauroso del fracasso.
È il momento di rialzare la testa, ripulire gli occhi dalle lacrime e fissare lo sguardo sulla porta.
Ben fatto, Mark! Un attimo dopo, i passi di un uomo raggiungono il corridoio. Il bambino sente la mano sulla maniglia e il rumore nitido della chiave che gira.
Clic.
Trattiene il fiato una volta ancora, ma l’anta non si apre. Il chiarore che filtra dall’esterno svela la sagoma dei piedi che si allontanano lenti e lo lasciano di nuovo solo.
Vorrebbe ricacciarsi nel letto e infilarsi sotto le coperte, però le parole del padre gli frullano nella testa: «Ne incontrerai di demoni nella vita; devi solo trovare il coraggio di affrontarli».
Allora si alza in pigiama, le gambe che tremano, le braccia incrociate sul petto a nascondere l’immagine dei Fantastici 4, e inizia a camminare verso l’uscio. La maniglia lo tradisce cigolando, lui spalanca la porta e percorre il lungo corridoio che conduce al salone.
La vetrata di cristallo si affaccia sullo skyline di Londra: i Docklands, Canary Wharf e la City, che brilla per le luci degli uffici accese giorno e notte.
Si muove nel silenzio con la voglia di dimostrare a se stesso che ha smesso di avere paura. Quando raggiunge il salotto, dà finalmente un volto al rumore: poltrone ribaltate, libri sparsi sul pavimento, bicchieri rotti, quadri sbilenchi. Il divano di pelle è ancora lì, storto rispetto alla posizione naturale, ma risparmiato dalla furia.
C’è seduto sopra un uomo: le gambe larghe, i gomiti piantati sulle cosce e le dita conficcate nelle tempie. Il suo torace si allarga e si restringe, come se stesse recuperando le forze, mentre lo sguardo punta verso il basso.
Mark distingue il pallore del volto e il sudore freddo che gli cola sulla fronte. E avverte il terrore improvviso di interrompere quella tregua.
«Tutto… bene?» sospira senza altra scelta. La voce da bambino trema e il mento vibra in modo vistoso.
L’uomo se ne accorge, vorrebbe scattare in piedi e abbracciarlo, inginocchiarsi davanti a lui, chiedergli perdono, ma la vergogna lo inchioda sul divano. Aveva giurato che non sarebbe successo mai più e invece eccolo là, di nuovo schiacciato sotto il peso del suo passato.
Scusarsi sarebbe inutile. Se ne convince limitandosi a sollevare leggermente il capo e abbozzare un sorriso rassicurante, a cui nessuno crederebbe. «Torna a letto» risponde con un filo di voce, «adesso papà sistema tutto.»
Il primo bottone cede con facilità. Poi il secondo e infine il terzo.
L’uomo insinua le mani nella camicetta di seta, sposta la lingerie, e comincia a sfiorarle il seno, piccolo e rotondo.
Priscilla è indifesa e persa, mentre lui le sta sopra. I brividi la trafiggono e lei inarca il collo sperando che la baci proprio lì.
Subito, e senza rimpianti.
Ti accontento, sembra dirle mentre muove le labbra tra i capelli biondi e la nuca della donna. Con un gesto delicato, lei allontana la poltrona dalla scrivania, infila le mani sotto la gonna e si toglie gli slip, gettandoli a terra. Poi gli afferra un braccio e lo guida tra le sue cosce. Su e giù finché il piacere è così violento da perdere la testa. In quello stesso istante lo blocca, si libera dalla presa e si alza, poggiandosi con i gomiti sul tavolo. Lo sbirro rimane immobile, ad ammirare il culo del giudice e le gambe magre e sode.
«Che diavolo aspetti a buttarmelo dentro?» ordina lei, senza voltarsi.
L’uomo le solleva la gonna fino alle anche, le spinge il busto sulla scrivania e, quando è pronta, la prende da dietro con colpi potenti e ben assestati. Uno, due, tre volte. Priscilla ha già avuto il suo e conta i secondi, puntando gli occhi sulla serratura della porta, lasciata aperta per rendere tutto più eccitante.
Di pomeriggio il Palazzo di Giustizia è un casermone deserto: gli avvocati sono tornati ai loro studi, i giornalisti nelle redazioni e i pochi giudici rimasti sono immersi nelle scartoffie.
La donna fissa quella toppa e sorride, ignorando la battaglia che l’uomo sta combattendo dietro le sue spalle.
All’improvviso il cellulare le squilla. Una suoneria inconfondibile, che anche lui riconosce. Priscilla sembra fregarsene; l’uomo invece tentenna, allenta la presa e si ferma un istante.
«Che cazzo fai?» lo rimprovera, «pensa a finire!»
Lo sbirro allora riparte, rinvigorito. Ancora due o tre botte senza ritmo, poi le afferra con violenza le natiche e lei capisce che è finalmente vicino al traguardo. Non urla, perché il silenzio è l’anima del loro patto. Insieme al segreto e alla fuga. Ma la fuga, direbbe Priscilla, è solo sua, e non vuole dividerla con nessuno.
Pochi minuti dopo, sono di nuovo uno di fronte all’altra, divisi da una scrivania che sembra infinita. Lei, il giudice Priscilla Sinni; lui, il dirigente Michele Martini, direttore del Reparto Speciale della Polizia di Stato.
«Bene» sorride la donna, godendosi l’ultimo tiro di sigaretta, «adesso è meglio che tu vada.»
L’uomo si alza, e obbedisce.
Quando è sola, prende il telefono in mano e controlla. Conta fino a cinque, poi richiama.
«Amore» risponde la voce dall’altra parte, «è un’ora che ti cerco.»
«Lo so, ma ero in riunione.»
«Sarai distrutta.»
«E affranta. Ho bisogno di una bella cena e di un po’ di relax.» Anche senza vederlo, avverte il sorriso del marito, lo stesso che conosce da una vita. «Le gemelle?» domanda. «Che fanno?»
«Giocano, litigano… e aspettano la loro mamma.»
«Allora di’ loro che sto arrivando.» Chiude la conversazione e in un attimo è fuori dal Palazzo di Giustizia.
Sono le otto di sera e Roma è ancora un groviglio di lamiere. Il poliziotto che guida la sua auto scivola tra le vie strette del quartiere Prati. Priscilla solleva la testa dal cellulare e guarda fuori: via degli Scipioni, via Fabio Massimo, via Cola di Rienzo. Osserva i tavoli dei ristoranti al completo, i minimarket illuminati dai neon, le vetrine dei negozi che brillano. I bancarellari fanno fagotto e cominciano a caricare sui camion le loro cianfrusaglie, mentre gli studi legali si svuotano e riversano in strada uomini in abito scuro e donne strette nei tailleur. Prima di vincere il concorso, Priscilla era una di quelle carrieriste rampanti con le tasche sempre piene di risposte. L’automobile passa sotto lo studio dove ha cominciato, al terzo piano di un edificio color ocra costruito negli anni Venti. Ricorda il giorno in cui si è presentata davanti a quella porta: i capelli appena fatti, i pantaloni ben stirati, la borsa di marca e la falsa naturalezza dei fuorisede che sperano di ingannare la grande città. Dodici anni vissuti di corsa, come un brutto ricordo che vuoi lasciarti dietro.
Socchiude gli occhi e ricalcola il percorso: altri due minuti e sarà a casa, a due passi da San Pietro, nel bellissimo attico che il suocero ha lasciato a lei e a Giuseppe, appena sposati.
Marta e Sofia sono sul pianerottolo, la aspettano lì tutte le sere. Hanno quattro anni e si somigliano come due gocce d’acqua.
Oggi indossano i gioielli regalati da papà per il compleanno. Anelli, braccialetti, collane, orecchini: tutto molto kitsch ma quanto basta perché una bambina si senta una principessa.
«Mamma, mamma» grida Marta cercando di attirare la sua attenzione, «guarda che bella che sono!» E intanto volteggia, con il vestitino che svolazza.
«Sei bellissima, amore mio» la gratifica lei. «Anzi» aggiunge, «siete tutte e due fantastiche.»
Sofia, la più timida, sorride e si stringe nelle spalle. Allora Priscilla la prende in braccio, tenendo Marta per un dito, e le conduce in salotto.
«Adesso aspettatemi qui, mamma si lava le mani e viene.»
In cucina Giuseppe sta girando un risotto con i funghi porcini e si allunga per baciarla. Lei risponde sfiorandolo appena con le labbra.
«Tutto bene?» domanda il marito, mentre riprende a lavorare di mestolo.
«Al solito» taglia corto Priscilla, «ma adesso sono a casa.»
La vita rallenta quando le gemelle si addormentano. Il tempo che li separa dalla camera da letto è riempito di niente: i silenzi davanti alla televisione, le dita che corrono sulle chat dei cellulari, gli occhi che si chiudono per la stanchezza e per la noia.
Alle undici Giuseppe prende coraggio e accetta la realtà. Si alza in piedi, le poggia una mano sulla spalla e le sussurra nell’orecchio: «È tardi, andiamo a dormire».
Priscilla si scuote di dosso il torpore e lo segue. I gesti sono i soliti. Ognuno chiuso nel suo bagno, ognuno imprigionato nella sua routine. Si ritrovano, poco dopo, sullo stesso materasso, come due alieni sparati lì da chissà quale galassia.
Giuseppe la sfiora con timidezza sulle cosce, per tentare un approccio. «Che ne dici?» le sussurra, ammiccando.
Sono due settimane che non fanno l’amore e la moglie assomiglia sempre più a una barca alla deriva. A lui è rimasta solo una cima da stringere e la paura che possa sfuggirgli. Ci prova con il sesso, allora. Sa che non servirà, ma si illude che finché ci sarà anche una sola goccia di sangue a unirli, quella cima rimarrà nelle sue mani.
Eppure con Priscilla questo non basta. Lei preferisce ignorare i problemi. Fuggire: ecco cosa ha fatto per tutta la vita, perché è ciò che le riesce meglio.
«Domani» mormora.
Lui toglie la mano dalla coscia. Di scatto, intruso nella casa di un altro. Sorride amaro, e tace.
«Sono stravol...