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Record del mondo
SENTITE QUESTA. Un tipo che si chiama Andrew Dahl detiene il record del mondo per aver gonfiato più palloncini… con il naso. Non sto scherzando. Come ha scoperto di essere un talento del genere non saprei, e non voglio neanche pensare a quanto moccio ci sia in quei palloncini, ma, bisogna dirlo, è un’impresa e questo Andrew è il migliore. Poi c’è una donna, una certa Charlotte Lee, che detiene il record di chi possiede più paperelle di gomma. Giuro! Ora, la cosa assurda è: non so a chi potrebbe venire in mente di volerne anche solo una, di paperella di gomma, ma 5.631? Figurati… E io… Be’, io forse detengo il record del mondo di chi sa più record del mondo. E anche di chi mangia più semi di girasole.
«Fammi indovinare… semi di girasole.» Mr. Charles praticamente urla da dietro il bancone di quello che lui chiama il suo “negozio di paese”, anche se viviamo in città. Mr. Charles – che, tra l’altro, è identico a James Brown se solo James Brown fosse bianco – è quello che mi vende semi di girasole per cinque giorni alla settimana da quando… fatemi pensare… da quando ero in quarta elementare, che è il periodo in cui mia madre ha cominciato a lavorare in ospedale. Perciò da quasi tre anni, ormai. È anche duro d’udito e quando lo diceva mia madre all’inizio io capivo sempre “duro indurito”, e non è che avesse molto senso. Non so perché non dicesse semplicemente “quasi sordo”. Magari perché “duro d’udito” faceva più gergo da ospedale e lei ormai era del settore. E comunque, Mr. Charles non ci sente quasi niente, che poi è il motivo per cui urla sempre con tutti e tutti urlano con lui. Il suo negozio è il festival dell’urlo libero, per non parlare degli effetti sonori extra che vengono dalla tele costantemente accesa ad alto volume dietro il bancone: film western a ripetizione. Mr. Charles è anche quello che mi ha regalato questo libro, il Guinness World Records. È così che ho saputo di Andrew Dahl e di Charlotte Lee. Lui dice che un giorno potrò stabilirlo anch’io, un record. Un record vero. Diventare il più grande del mondo in qualcosa. Chissà? Però, una cosa la so: a Mr. Charles spetta di sicuro il record per la frase “Fammi indovinare… semi di girasole”. La ripete tutte le volte che entro, il che vuol dire che anch’io potrei già detenere il record per la risposta che do, ad alta voce, sempre identica.
«Mi faccia indovinare… un dollaro.» È questa la mia risposta. L’avrò detta un miliardo di volte.
Poi piazzo un dollaro sul palmo della sua mano raggrinzita e lui mette un sacchetto di semi nella mia.
Quindi continuo il mio viaggio al rallentatore, la cui tappa successiva è la fermata dell’autobus. Ma non è una fermata qualunque. È quella che c’è proprio di fronte alla palestra. Me ne sto seduto lì con le persone che aspettano l’autobus, solo che io non aspetto mai veramente. L’autobus ti porta a casa in fretta e non è quello che voglio. Io ci vado a guardare la gente che fa ginnastica. La palestra che c’è dall’altra parte della strada ha una grande vetrata – per capirci, tutta la parete è una vetrata – e ci sono queste macchine che ti fanno fare i gradini. Così, se ne stanno tutti con la faccia verso la fermata dell’autobus con un’espressione assurda, come se stessero per svenire. E, credetemi, non c’è niente di più divertente. Mi fermo lì per un po’, come davanti a un film: Lo Show dei Morti Svenenti, protagonisti tutti quelli sugli step dall’uno al dieci. So che può sembrare un po’ strano, forse anche inquietante, ma è un modo per passare il tempo quando ci si annoia. E la cosa migliore di starsene seduto là è ingozzarsi di semi di girasole manco fossero popcorn al cinema.
Parliamo dei semi di girasole. Prima, ne mettevo in bocca un’intera manciata, tutti in una volta, succhiavo bene il sale e poi li sputavo tipo mitragliatrice. Forse avrei potuto stabilire un record del mondo anche in quello. Ma adesso sono maturato. Adesso mi prendo il mio tempo, li rigiro, li metto in posizione per far schioccare il guscio con il morso perfetto, con la lingua lo separo bene dal seme e poi – e questa è la parte difficile – lo sputo tenendo il semino al sicuro tra la lingua e i denti. E dopo, ma solo dopo, mastico il seme. In questo sono un campione. Anche se, a essere onesti, i semi di girasole non sanno di niente. Non sono neanche sicuro che valgano tutta questa fatica. Ma mi piace tutto il procedimento.
Anche mio papà mangiava semi di girasole. È da lui che ho preso. Ma lui masticava tutto. I gusci, i semi, tutto. Li divorava come una specie di animale. Quando ero piccolo, gli chiedevo se gli sarebbe cresciuto dentro un girasole, visto che mangiava tutti quei semi. Era sempre lì a guardare qualche partita, tipo football o basket. Si voltava verso di me giusto un secondo, il tempo minimo per non perdersi neanche una giocata, e diceva: «Io sono pieno di girasoli dentro, ragazzino». Poi scuoteva i semi nel palmo della mano come fossero dadi, se ne lanciava in bocca un’altra manciata e li mandava giù masticando.
Ma vi dico una cosa, mio padre mentiva. Non era pieno di girasoli che gli crescevano dentro. Proprio no. Non ne so molto di girasoli, però so che sono belli e piacciono alle ragazze, e so che la parola “girasole” è una bella parola, anzi due, e quell’uomo non ce l’aveva due belle parole dentro o qualcosa che potesse piacere alle ragazze, perché alle ragazze non piace uno che spara contro di loro o contro il loro figlio. E lui invece era uno così.
È stato tre anni fa che mio padre ha perso la testa. Che l’alcol lo ha reso più cattivo del solito. Quasi ogni notte diventava una persona diversa, come se si trasformasse in un pazzo, ma quella volta lì mia madre aveva deciso finalmente di reagire. Ed è stata la notte in cui è precipitato tutto. Io tenevo la testa schiacciata a sandwich tra il materasso e il cuscino, ormai lo facevo sempre mentre litigavano, quando mia madre è entrata di schianto nella mia stanza.
«Dobbiamo andare» ha detto, strappando le coperte dal letto. E visto che non mi muovevo abbastanza in fretta, ha urlato: «Sbrigati!».
Un secondo dopo eravamo in corridoio, con lei che mi trascinava e io che inciampavo nei miei piedi. Ed è stato allora che mi sono voltato e l’ho visto, mio padre, che usciva barcollando dalla camera da letto, le labbra insanguinate, una pistola in mano.
«Non costringermi a farlo, Terri!» ha come implorato, infuriato, ma io e mia madre non ci siamo fermati. Il rumore della pistola che si armava. Il rumore della chiave che girava nella toppa. Non appena la porta si è spalancata, mio padre ha esploso un colpo. Ci stava sparando addosso! Mio padre! Mio padre stava sparando… contro… di NOI! Sua moglie e suo figlio! Non mi sono girato per vedere cosa avesse colpito, più che altro per la paura che potessi essere io. O la mamma. Il rumore era stato forte, e secco, tanto da farmi pensare che il cervello mi sarebbe scoppiato in testa, tanto da farmi sobbalzare il cuore. Ma la cosa più assurda è stata che mi è sembrato che quel colpo – il più forte che avessi mai sentito – mi facesse andare le gambe ancora più veloci. Non so se sia una cosa possibile, ma è stata l’impressione che ho avuto.
Io e mia madre abbiamo continuato a correre, giù per le scale e poi per strada, dentro la notte, con la morte che ci inseguiva. Abbiamo corso e corso, fino a quando non siamo capitati davanti al negozio di Mr. Charles, che, per nostra fortuna, rimane aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Mr. Charles ha dato un’occhiata a me e alla mamma, senza fiato, in lacrime, scalzi e in pigiama, e ci ha nascosti nel magazzino mentre chiamava la polizia. Siamo rimasti lì tutta la notte.
Non ho più visto mio padre, da quella volta. La mamma ha detto che quando i poliziotti sono arrivati a casa lui era seduto fuori sui gradini, a torso nudo, con la pistola accanto, a tracannare birra e mangiare semi di girasole, e ad aspettare. Come se volesse essere preso. Come se non fosse una questione importante. Gli hanno dato dieci anni di prigione e, onestamente, non so se la cosa mi faccia felice o no. A volte vorrei che l’avessero messo in galera per sempre. Altre vorrei trovarlo a casa sul divano, a guardare una partita e a scuotere i semi nella mano. In ogni caso, una cosa è certa. Quella è stata la notte in cui ho imparato a correre.
Così, quando standomene seduto alla fermata dell’autobus davanti alla palestra ho notato tutti quei ragazzi che si allenavano sulla pista di atletica al parco, non ho resistito e sono andato a vedere. Perché io non mi ero mai dovuto allenare per correre. Lo sapevo fare e basta.
2
Record del mondo per il provino più veloce
ALL’INIZIO, ho guardato dal cancello. Non pensavo di fermarmi, ma poi ho visto che c’era altra gente vicino alla pista, che chiacchierava e guardava l’allenamento, tipo madri o gente così, e allora mi sono unito a loro. Be’, non mi ci sono proprio seduto accanto, sarebbe stato un po’ strano, ma mi sono piazzato su una panchina lì vicino. La mia scuola non aveva una squadra di atletica. Non che avrei provato a entrarci, se anche ce l’avesse avuta. Ero più un tipo da pallacanestro, io. Il mio sport era quello, anche se non ci avevo mai giocato davvero. A volte, tornando a casa, mi fermavo al campetto a vedere se riuscivo a infilarmi in una partita, ma non mi sceglieva mai nessuno, più che altro perché ai vecchi che comandano non piaceva correre con ragazzini della mia età. Ma ho sempre avuto la sensazione che, se ci fossi riuscito, sarei diventato il futuro LeBron. Ma diventare il futuro… – chiunque sia il corridore più famoso – non era mai stato quello che volevo. Non mi aveva proprio mai sfiorato il cervello. Ho dato un’occhiata al libro dei record e c’è scritto che il più veloce di tutti è un tizio che si chiama Usain Bolt. Mai sentito. Mio padre non ha mai guardato una gara di corsa in televisione. Esistono corridori famosi? Dai, siamo seri! Io non ne ho mai sentito parlare. Però, a giudicare dal modo in cui quei ragazzini facevano stretching e saltavano sulla pista, loro forse sì.
«Bene, un po’ di ginocchia alte!» ha ordinato il coach. Era basso e calvo, ma direi che la sua pelata non dipendeva dal fatto che gli erano caduti tutti i capelli. Era uno di quelli che i capelli se li radono. Anzi, era uno di quelli che si radono tutti i peli della faccia tranne le sopracciglia, il che non gli donava molto. Sembrava una tartaruga. Una tartaruga con un dente scheggiato che portava un anellino all’orecchio e un fischietto nero attorno al collo. «Su! Su! Su!»
C’erano ragazzi e ragazze, più o meno della mia età, tutti in maglietta e pantaloncini, con le braccia tese, a eseguire una specie di marcia a salti, toccandosi le mani con le ginocchia.
«Forza, Sunny! Siamo solo al secondo giorno di allenamento e stai già battendo la fiacca!» ha sbraitato l’allenatore, rivolto al ragazzo più alto della compagnia. Aveva in mano una cartelletta e l’ha usata per schiaffeggiarlo sulle cosce. «Tirale su!»
Io mi sono seduto a gambe larghe, così potevo sputarci in mezzo i gusci dei semi di girasole. Il sale mi stava facendo venire sete, ma non riuscivo a smettere. Sulla pista, dopo quella marcia a ginocchia alte, hanno continuato con salti a gambe divaricate e qualche giro di riscaldamento. Che idea del cavolo! Che senso ha correre per riscaldarsi? Arrivi alla gara che sei già stanco. Mah! Poi tutti gli atleti si sono raccolti intorno al coach Faccia di Tartaruga.
«Ascoltate» ha detto lui. «Se vi trovate su questa pista, è perché avete già fatto parte dei Defenders o perché siete stati selezionati per far parte dei Defenders.» Parlava come se si fossero appena arruolati nell’esercito o roba del genere. «Sono sicuro che tutti voi sappiate cosa significhi, ma nel caso non fosse così significa che fate parte di una delle migliori squadre giovanili della città. È da noi che le scuole superiori vengono in cerca di talenti. E se andrete in una buona scuola e vi distinguerete in una buona squadra, allora, indovinate un po’, potreste anche finire al college senza tirar fuori un soldo.»
“Ma chi vuoi che finisca al college senza tirare fuori un soldo solo perché corre in qualche gara?”, ho pensato dentro di me, sputando un guscio. Odio quando restano attaccati alla lingua e devi dargli un colpetto per riuscire a sputarli. Fastidioso.
Un ragazzino dall’aspetto strano, non so proprio spiegare come fosse fatto… be’, ci provo. Vi ricordate quando vi ho detto che Mr. Charles è identico a James Brown, se James Brown fosse bianco? Ecco, quel ragazzo era identico a un ragazzo bianco, se il ragazzo bianco fosse stato nero. No, aspettate. Così non ha senso. Riprovo. Quel ragazzo aveva la pelle bianca, ma bianca come il colore bianco. E i capelli castano chiaro. Ma in viso sembrava un nero. Come se Dio si fosse dimenticato di mettergli il marrone. Un attimo, allora anche Mr. Charles? Lasciamo stare. A ogni modo, il ragazzo ha alzato la mano.
«Sì, Lu?» ha detto il coach.
«È vero che lei ha corso alle Olimpiadi?» ha chiesto il ragazzo.
«È vero che tu non ci hai mai corso?» ha ribattuto l’allenatore, mettendolo a tacere.
Il ragazzo che si chiamava Lu è rimasto imbambolato, come se fosse appena stato colpito in faccia da una paperella di gomma di Charlotte Lee. Come se non sapesse più cosa fare. «Uh uh…» ha balbettato, incerto.
«Non preoccuparti di quello che ho fatto io. Preoccupati di quello che vuoi fare tu. Se farai come ti dico, vedrai che ti ci faccio arrivare.» Il coach si è asciugato un po’ di saliva dagli angoli della bocca. «Bene» ha detto, guardando il suo ruolino di marcia, «vediamo come se la cavano i novellini. Lu, Patty, Sunny, alla partenza!»
I tre “novellini” si sono affrettati a raggiungere l’altro capo della pista.
«Lu, tu sei il primo. Cento metri. Al mio fischio» sono state le istruzioni dell’allenatore. Il tipo dall’aspetto strano, Lu, era agghindato alla grande: scarpe da corsa Nike fiammanti e un body ultra-aderente. Come un supereroe. Portava una fascia in testa e una catenina d’oro intorno al collo, e a ogni orecchio gli brillava un diamante. Tutti gli altri corridori si sono piazzati di lato quando il coach ha portato il fischietto alla bocca. Nell’altra mano teneva un cronometro. «Pronto» ha detto tra i denti. Poi è seguito il breve fischio, fiiii!, e Lu è partito.
È durata poco. Quel ragazzo era proprio veloce. Quando è arrivato in fondo al rettilineo, una donna seduta su una panchina dall’altra parte della pista ha cominciato a saltare, strillare e battere le mani neanche quel tipo fosse una celebrità o roba del genere. Ero colpito, non tanto da applaudire – ero più che altro felice che, finalmente, succedesse qualcosa di non noioso – ma di sicuro quanto bastava da smettere di ficcarmi semi in bocca fino a quando ha tagliato il traguardo.
«Ottimo lavoro» ha detto il coach, mentre Lu tornava trotterellando al lato della pista, come un professionista. Quasi non fosse poi questa gran cosa e lui ne fosse consapevole. Ha lanciato uno sguardo nella mia direzione. Io ho sputato i gusci per terra. L’allenatore ha anche annunciato il tempo e lo ha annotato, ma non sono riuscito a sentire.
Dopo è stato il turno dello spilungone che il coach aveva chiamato Sunny. Quello a cui aveva urlato contro quando ero appena arrivato perché non teneva le ginocchia alte durante il riscaldamento. Onestamente, a guardarlo ti dava l’idea di non sapere neanche camminare in linea retta, così ho pensato che sarebbe stato un bello spettacolo. Sunny si è messo in posizione, ha chiuso gli occhi e ha fatto qualche respiro lento e profondo. Quindi l’allenatore ha fischiato e lui è partito. Si capiva che stava spingendo al massimo, solo che non andava da nessuna parte. Era come se corresse controvento, anche se di vento quel giorno non ce n’era. Come se avesse scarpe da una tonnellata, o le ossa troppo pesanti. Nessuno faceva il tifo per lui e qualche ragazzo si è anche messo a ridere.
«Vedremo chi riderà quando passeremo al miglio» ha sbraitato il coach a quelli che ridacchiavano. Hanno smesso subito. Sunny è tornato a grandi passi e si è unito al gruppo, tranquillissimo. Non gli importava di avere corso nel modo più lento in cui avessi mai visto correre qualcuno. Il suo scatto sembrava una corsetta. Forse anche mia madre se lo sarebbe fumato. Pure Mr. Charl...