IV
Come la lingua cambia senza tradire il passato
Neologismi: non tutto vien per nuocere
Adattamento e selezione
La crisi dell’italiano che abbiamo descritto nei capitoli precedenti si è accompagnata a una curiosa crescita di atteggiamenti puristici: quando si protesta contro l’eccesso di parole inglesi, si trova facilmente, in quel solo caso, il consenso di molti: gente comune, ma anche intellettuali, giornalisti e scrittori. Non tutti costoro, in altre situazioni, quando si tratta di difendere per davvero l’italiano dall’emarginazione (per esempio, nelle questioni di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo di questo libro), sono altrettanto disposti a darsi da fare. Sembra un paradosso, ma è così.
Classificherei questo atteggiamento come un nuovo genere di purismo, un amore per la lingua italiana che nasconde una forma rischiosa di conservatorismo. Più o meno consciamente, costoro mirano a imbalsamare la lingua, ancorandola al suo passato; ma le lingue, in questo modo, muoiono. Diventano come gli idiomi classici, il latino e il greco, si staccano dalla realtà contemporanea. La conservazione del passato può dare soddisfazione, può essere frutto di un certo gusto erudito, ma sicuramente non porta verso il futuro. Per questo i linguisti sostengono che la produzione di neologismi è garanzia di vitalità.
Naturalmente, c’è neologismo e neologismo. Ci sono i forestierismi crudi, i prestiti integrali, sui quali ho già detto tutto quello che penso, là dove ho distinto i forestierismi stupidi (come step, mission, competitor, maladministration, sold out) e i forestierismi inevitabili (come wi-fi, che del resto francesi e spagnoli, a differenza degli italiani, non pronunciano alla maniera inglese). Discriminante tra l’una e l’altra categoria è la novità effettiva dell’oggetto designato. La novità è particolarmente evidente per tutto quello che appartiene al campo della tecnologia: chi introduce un’innovazione tecnica ha il diritto di imporre una parola nuova. Ci sono però le pseudo-innovazioni, innovazioni finte, verso le quali l’atteggiamento deve essere ben diverso.
Non tutti i neologismi sono forestierismi. Certo, moltissimi lo sono. Se si interroga la versione elettronica nel vocabolario Zingarelli 2018, il più aggiornato dei vocabolari italiani, perché esce ogni anno rivisto e ammodernato, si può constatare che le parole nuove registrate da questo vocabolario, entrate in italiano a partire dall’anno 2000, sono in totale 467. Ovviamente la selezione è frutto di una scelta, ma si tratta di una scelta oculata, e quindi si può dare a questo numero una certa fiducia. Tra queste 467 voci, ben 228 sono originate dall’inglese o da una sorta di pseudo-inglese, con combinazioni di inglese e italiano, come nella parola acquaspinning. Si può dunque concludere che delle circa 500 parole accolte da un vocabolario italiano come neologismi, a far data dall’anno 2000, una quota quasi pari al 50% è inglese o risente fortemente dell’influsso dell’inglese. Il dato è indubbiamente significativo.
Il neologismo spesso ha una radice forestiera, ma per fortuna dà luogo a una parola italiana, ottenuta mediante suffissazione o adattamento: così taggare o swappare. In questo caso i linguisti riconoscono che il forestierismo si è piegato almeno in parte alle regole della lingua ricevente. L’adattamento è visto in genere come un fatto positivo. Un tempo l’adattamento delle parole forestiere era più forte: riguardava addirittura i nomi propri e i toponimi, per cui non si diceva New York ma Nuova York. Oggi l’adattamento dei nomi geografici è molto più limitato, ma in certi casi resiste, almeno per le parole che sono diventate italiane da molto tempo, per cui abbiamo Parigi e non Paris, Londra e non London.
I linguisti osservano i neologismi, cercando di individuare il momento in cui le parole nuove emergono per la prima volta. Non è raro che la prima comparsa di un neologismo sia nei giornali, nella televisione o sulla Rete. I linguisti che si occupano di compilare i dizionari, inoltre, devono assumersi la responsabilità di stabilire quali neologismi abbiano diritto di entrare nel patrimonio della lingua, simbolicamente rappresentato dal «vocabolario».
Qualche volta i lessicografi vantano il numero di neologismi introdotti nei loro vocabolari. È soprattutto un espediente di mercato, con cui si cerca di attirare il pubblico, dando l’idea di un aggiornamento significativo e continuo. In realtà le cose sono più complicate, perché non tutti i neologismi sono davvero destinati a durare. Allora la domanda è la seguente: quando un neologismo può essere accolto dal vocabolario? Chi decide qual è il momento opportuno per la parola opportuna? Un neologismo può essere accolto solo quando raggiunge una certa stabilità. Unicamente in quel caso siamo di fronte a una vera parola della lingua. Ma qual è il momento in cui il cambiamento avviene ed è riconoscibile? L’operazione è delicata. Si basa su di un presupposto fondamentale di cui abbiamo già discusso: che la proprietà della lingua appartenga alla società dei parlanti. I parlanti e gli scriventi decidono quando una parola è destinata a fortuna nel tempo futuro e quando invece è destinata a cadere e sparire. Non lo decidono riunendosi in un consiglio o mettendo ai voti la decisione; la decisione nasce spontanea da sé, dall’uso della società, dall’azione combinata di coloro che parlano e scrivono.
Parole che vanno e vengono
Dunque alcuni linguisti si dedicano con molta attenzione a osservare la nascita, e soprattutto la crescita e la durata delle parole nuove. In passato, questo compito veniva svolto in modo diverso. Un tempo, i migliori osservatori del fenomeno della neologia erano i severi puristi, gli arcigni raccoglitori delle parole da proscrivere, cioè proprio coloro che si davano da fare per condannare le parole nuove. Costoro erano impegnati in una continua osservazione critica della lingua, pronti a emettere la loro condanna, appena notassero un cambiamento. I dizionari puristici del passato, malgrado le intenzioni censorie dei loro autori, sono ancora oggi una ricca fonte di informazione, se ci interessa sapere quando certe parole sono entrate nell’italiano.
Purtroppo, questa particolare e imprevista funzione dei dizionari puristici può indurre a un equivoco: può dar l’idea che ogni forma di conservazione, ogni freno all’innovazione linguistica, sia frutto di un atteggiamento sbagliato, e che tutte le novità siano sempre da accettare. Invece le cose non stanno così. Il problema è semmai distinguere tra le novità che contano e che devono durare, e le novità destinate a cadere in breve tempo.
Ho di fronte a me il Lessico della corrotta italianità compilato da Pietro Fanfani e Costantino Arlìa, pubblicato nel 1877, e successivamente riedito con un titolo anche più severo, Lessico dell’infima e corrotta italianità. Il titolo è già un’evidente indicazione del programma degli autori. Si tratta di una raccolta di parole che essi condannano e vogliono eliminare. Si può credere che queste parole siano terribilmente corrotte. Invece troviamo una bella quantità di termini oggi normali, accolti anche dagli utilizzatori più schizzinosi, come abbandonarsi, abbassare, abbasso!, abbastanza, abbeverare, abbonare, aberrazione, abietto, abile, analfabetismo. Ce n’è abbastanza per convincersi che l’atteggiamento del purista spesso conduce a giudizi sbagliati. Nella raccolta della Corrotta italianità ci sono anche parole oggi sparite, per esempio il termine absentismo: questo era un tipo di alcolismo che colpiva coloro che abusavano di bevande alcoliche a base di assenzio. Oggi l’assenzio nelle bevande alcoliche è passato di moda (o almeno lo si spera).
Non dobbiamo però credere che il purista sbagli sempre. Qualche volta indovina. Per esempio, Fanfani e Arlìa condannano l’espressione «all’impensata», in una frase di questo tipo: «giunse qui il conte all’impensata». Gli autori suggeriscono di sostituire «all’impensata» con «improvvisamente», e una volta tanto il loro suggerimento ha colto l’indirizzo futuro della lingua, perché «all’impensata» non lo dice più nessuno, mentre «improvvisamente» continuiamo a usarlo anche nell’italiano d’oggi. Un altro caso in cui i puristi Fanfani e Arlìa hanno indovinato, è stato la condanna della parola asilare per «cercar rifugio». Dunque occorre essere comprensivi nel giudicare i puristi: quasi sempre la loro smania di purezza li porta a condannare parole destinate al successo, ma in qualche caso colgono il ridicolo in parole che effettivamente finiscono per uscire dall’uso. Il problema è sapere di volta in volta quale sarà la sorte di una parola.
Proviamo ora ad aprire un altro famoso dizionario ricco di parole nuove: si tratta del Dizionario moderno di Panzini, che l’autore definì «supplemento ai dizionari italiani», perché doveva contenere quelle parole che nei dizionari italiani del tempo non si trovavano. La prima edizione del Dizionario moderno di Panzini risale al 1905. Raccoglie parole di vario tipo, anche dialettali, termini che in qualche modo facevano capolino nell’uso, per esempio la voce del dialetto veneziano amolo, che vuol dire «susina».
Molte delle parole nuove di Panzini, ma non tutte, sono rimaste nella lingua, anche perché Panzini, con acume, selezionava parole utili: troviamo per esempio amperometro, amovibile, ampolla, anamnesi, anarcoide, e anche espressioni come andare a Canossa, o andare a vapore. Andare a Canossa vuol dire «ricredersi, fare un atto di sottomissione». «Andare a vapore» significa, secondo Panzini, «andare in gran fretta», «compiere alcuna cosa con grande sollecitudine». Quest’espressione pian piano è uscita dalla lingua, e forse oggi nessuno la capisce più, e ciò è spiegabile: la tecnologia ha fatto sì che il treno a vapore del 1905 non sia più un esempio di grande velocità. Oggi potremmo dire «andare in Freccia Rossa», se fosse già nata questa espressione che ancora non esiste. Oppure si potrebbero usare altre espressioni, come «andare sparati» o «andare a tutto gas» o «a tutta birra» (errata traduzione del francese «aller à toute bride» che significa, letteralmente «andare a briglia sciolta», inteso, nell’etimologia popolare, attribuendo una speciale virtù alla birra, o piuttosto, secondo altri, affidandosi al valore onomatopeico di brrr, simile al rumore di un motore).
Leggere e consultare il dizionario di parole nuove del passato è un’esperienza interessante perché, sulla base della lingua moderna, possiamo subito verificare com’è andata a finire, cioè qual è stata la sorte della parola. La cosa è ben diversa se la nostra attenzione si sposta sui neologismi del presente. In questo caso, evidentemente, non sappiamo affatto come andrà a finire. È uscito di recente un libro di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle, intitolato Che cos’è un neologismo. Adamo e Della Valle hanno grande esperienza nel campo dell’osservazione della neologia, e nel loro libro spiegano come una parola nuova nasce, come si diffonde, in quali circostanze o condizioni può durare, quali sono i meccanismi che attraverso suffissazioni, alterazioni e prefissi ne permettono la costruzione. Il libro è ricchissimo di esempi, e contiene un indice dei neologismi citati. Poiché questo libro è del 2017, qui davvero possiamo cercare un elenco di neologismi dei nostri tempi. Basta scorrere l’elenco per essere sollecitati a rispondere alla domanda: quanto dureranno queste parole? hanno diritto di entrare nel vocabolario?
Proviamo a scorrere questo elenco. Troviamo abuso di diritto, acchiappa-consensi, accordicchio, acquisto compulsivo, aerogel, afrocentrismo, afrofobia, ambulanziere, americofonia, amiantato, ammazza-sprechi, anti-eutanasia, anti-inciucio, anti-iPad, anti-Monti, anti-omofobo, anti-Renzi, anti-vaccinazione, arbitropoli, avanspettacolare, biopattumiera, biofarmaco, biodepuratore, birroso, bisteccheria, bloggarolo, bolla finanziaria, bomba d’acqua... non è facile stabilire quali di queste parole siano destinate a entrare stabilmente in italiano, e quante per contro siano invenzioni, giochi linguistici, trovate giornalistiche. Qualche distinzione, tuttavia, si riesce a fare: si capisce, per esempio, che gli anti-qualche cosa, per esempio gli anti-Renzi, dureranno soltanto finché durerà la stagione politica di Matteo Renzi, finché sarà sulla breccia. Alcune di queste parole spariranno, ma la loro registrazione avrà sempre un’utilità: servirà a intendere, a distanza di anni, i testi in cui le parole stesse comparivano. Sarà come conservare la chiave della cronaca del passato.
La vicenda di «petaloso»
Bisogna rendersi conto che creare neologismi è un’attività comune nella lingua. Non riguarda soltanto gli addetti alla scrittura professionale, i giornalisti, i narratori. Si inventano parole anche nella vita quotidiana, nella lingua comune, nella conversazione di tutti i giorni. Spesso inventare una parola significa strappare un sorriso, una risata, riscuotere successo nel circolo degli amici. Significa mostrare la nostra capacità di invenzione. Questo non ci fa onomaturgi, cioè «creatori di parole», ma ci permette di esercitare la nostra vitalità di utenti della lingua materna. In una lingua straniera il gioco sarebbe più difficile, uscirebbero solo calchi e incroci involontari, semplice segno di imperizia.
Si è discusso molto di neologia quando si è scatenata la vicenda di petaloso, nel febbraio 2016. Il bambino di terza elementare di Copparo in provincia di Ferrara aveva usato petaloso in un tema scolastico, e l’insegnante aveva corretto la parola, però, al tempo stesso, aveva consigliato al bambino di chiedere all’Accademia della Crusca se quell’invenzione linguistica non potesse essere in qualche modo giustificata. Il bambino scrisse, e l’Accademia rispose che petaloso era una parola costruita in modo accettabile. Vale la pena di riprodurre la lettera della dott.ssa Maria Cristina Torchia, dell’ufficio di consulenza linguistica della Crusca, colei che ebbe la ventura di scrivere la risposta:
Caro Matteo,
la parola che hai inventato è una parola ben formata e potrebbe essere usata in italiano così come sono usate parole formate nello stesso modo.
Tu hai messo insieme petalo + oso > petaloso = pieno di petali, con tanti petali.
Allo stesso modo in italiano ci sono:
pelo + oso > peloso = pieno di peli, con tanti peli
coraggio + oso > coraggioso = pieno di coraggio, con tanto coraggio.
La tua parola è bella e chiara, ma sai come fa una parola a entrare nel vocabolario? Una parola nuova non entra nel vocabolario quando qualcuno la inventa, anche se è una parola «bella» e utile. Perché entri in un vocabolario, infatti, bisogna che la parola nuova non sia conosciuta e usata solo da chi l’ha inventata, ma che la usino tante persone e che tante persone la capiscano. Se riuscirai a diffondere la tua parola fra tante persone e tante persone in Italia cominceranno a dire e a scrivere «Com’è petaloso questo fiore!» o, come suggerisci tu, «le margherite sono fiori petalosi, mentre i papaveri non sono molto petalosi», ecco, allora petaloso sarà diventata una parola dell’italiano, perché gli italiani la conoscono e la usano. A quel punto chi compila i dizionari inserirà la nuova parola fra le altre e ne spiegherà il significato.
È così che funziona: non sono gli studiosi, quelli che fanno i vocabolari, a decidere quali parole nuove sono belle o brutte, utili o inutili. Quando una parola nuova è sulla bocca di tutti (o di tanti), allora lo studioso capisce che quella parola è diventata una parola come le altre e la mette nel vocabolario.
Spero che questa risposta ti sia stata utile e ti suggerisco ancora una cosa: un bel libro, intitolato Drilla e scritto da Andrew Clements. Leggilo, magari insieme ai tuoi compagni e alla maestra: racconta proprio una storia come la tua, la storia di un bambino che inventa una parola e cerca di farla entrare nel vocabolario.
Grazie per averci scritto.
Un caro saluto a te, ai tuoi compagni e alla tua maestra.
Maria Cristina Torchia
Redazione della Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca
La risposta è ineccepibile. Come spiega la dottoressa Torchia, l’ingresso reale di petaloso nella lingua sarebbe potuto avvenire solamente se i parlanti italiani avessero trovato interessante e utile la parola.
Il caso volle che la risposta data al bambino fosse scritta in una lettera con carta intestata dell’Accademia (non su una e-mail elettronica), con tanto di protocollo. La lettera fu fotografata e pubblicata nei social, scatenando un improvviso interesse. Non era solo questione della lettera in sé. Il presidente del Consiglio del tempo, Matteo Renzi, nella conferenza stampa di presentazione di Human Technopole, il nuovo polo di ricerca sull’area di Expo 2015, citando più volte l’Accademia della Crusca, r...