Capitolo 1
IL GIORNO
Il primo cazzotto l’aveva dato il padre coi capelli rossi, in piedi sul gradone di cemento: si era sentito lo schiocco, più uno schiaffone che un pugno, una cosa un po’ molle, mica un destro come quelli dei film. Per questo Luca era rimasto sorpreso quando aveva visto l’altro tizio andare giù lo stesso.
Il mister, in campo, non si era accorto di niente, impegnato a placare la rissa scoppiata fra i giocatori. Luca aveva la strana sensazione di non trovarsi davvero lì. Botte sul campo, botte sugli spalti, un paio di mamme avevano iniziato a urlare. Una si era alzata in piedi e gridava più di tutti, viola in faccia come il suo completino da palestra alla Kim Kardashian.
Il ragazzino era ancora a terra e si teneva il ginocchio. C’era lui al centro di tutto quel casino. Distratto e un po’ annoiato, Luca non aveva visto il centrale avversario falciarlo col suo tackle assassino. Ma il papà del ragazzino sì, aveva visto eccome.
«AHO!!!» era saltato su, le mani protese in avanti. «Ma chi te ce manna a gioca’?!»
Il rosso era sceso di un gradino, tanto per chiarire: «Ce lo manno io, perché?», e sbam.
Luca inseguiva i suoi pensieri. Uno di questi era che se tu sei un omone con un figlio dodicenne che è la tua fotocopia in piccolo, stessa passione per Van Damme e stessa criniera rosseggiante, non lo fai giocare in una squadra che ha la maglia verde. Tuo figlio sembrerà un ortaggio, poi è chiaro che si incazza e fa male agli avversari.
Adesso il mister stava separando a fatica i due gruppi: quelli che si erano messi col rosso scassaginocchia e quelli che parteggiavano per l’altro, che si stava rialzando a fatica, pronto per il tunnel delle risonanze magnetiche, la ricostruzione del menisco, la via crucis della riabilitazione, la società che perde milioni di euro aspettando mesi per poterlo schierare di nuovo in campo, il padre procuratore incazzato nero, niente nazionale, addio Mondiali… sì, vabbe’: borsa di ghiaccio di mamma per il gonfiore e poi di nuovo gli allenamenti dopo pranzo, prima dei compiti.
Luca scosse la testa.
Fermo dietro la rete metallica che chiudeva un lato del campo, era stanco di aspettare e non sapeva più che inventarsi per passare il tempo. Buttò l’occhio al cellulare per controllare l’ora e si sparò in bocca un paio di gomme alla menta, reprimendo uno sbadiglio. Il rosso si stava appiccicando con il mister.
«Barca di scemi» disse tra sé, continuando a masticare.
Un gatto attraversò la strada, evitò per un pelo la Mercedes che arrivava sparata e si tuffò dentro una siepe. Luca spostò lo sguardo sul casermone accanto al campo, verso l’ingresso con il cartello SCUOLA CALCIO in cima a una ripida scaletta di ferro. Erano le tre e un quarto, c’era un po’ di gente che fumava e chiacchierava nella striscia d’ombra contro il muro. Fece qualche passo per avvicinarsi, nervoso. Nella tasca posteriore dei jeans il Samsung produsse una breve pernacchia. Lo prese e guardò la notifica sul display: “cinque minuti e esco”.
Con sedici anni, quasi diciassette, alle spalle, la sufficienza in tutte le materie (tranne latino) ottenuta senza sforzarsi troppo, una faccia simpatica in cui ogni tanto, ma non troppo spesso, spuntava un sorriso sbruffoncello, Luca era il tipo che sapeva badare ai fatti suoi, ed entrare in quelli degli altri quanto bastava a risolvere qualche situazione complicata per poi uscirne pulito come dopo una sessione di Photoshop. Quindi, in genere, era un tipo paziente. Uno che non andava mai in paranoia per un compito in classe o per una festa, tutti casi in cui tendeva a prendersela comoda. Crescendo aveva sviluppato una specie di saggezza fatalista che sua madre, quando le girava male, definiva menefreghismo. Sembrava aver capito che le cose tendono a risolversi da sole, che se lo lasci fare il mondo va a posto da sé. Almeno per lui era così. E in effetti il mondo gli girava attorno piuttosto tranquillo. Rispetto a parecchia gente della sua età si può dire che le cose gli andassero discretamente bene.
Luca, insomma, era uno che sapeva aspettare, senza mai scomporsi troppo. Ma non oggi. Perché oggi era il Giorno. E lui aveva una smania addosso… la sentiva che gli mangiava le gambe, come una scossa, dritta fino alla testa. Un piccolo capogiro continuo. Euforia e stanchezza, la sensazione che le cose possano sfuggirti da un momento all’altro se non farai in tempo a…
Prese un lungo respiro: tre o quattro dei cinque minuti annunciati nel messaggio erano passati, la strada adesso sembrava deserta, in pieno sole, e il campo da calcio un’oasi di verde che interrompeva il panorama familiare dei palazzi e dei marciapiedi. Se Luca avesse avuto un colore preferito, quello sarebbe stato proprio il verde. Gli piaceva. Il verde era forte, e sotto quel sole così brillante gli ricordava la copertina del disco di Bob Marley di sua sorella. Fino a un anno prima l’aveva ascoltato allo sfinimento. Il verde era come Bob Marley, con un sacco di luce dentro.
In cima alle scalette qualcuno fece un fischio.
Luca lasciò scivolare lo zaino a terra, allargando le braccia, in un gesto che diceva: “Era ora! Sono qui che mi rompo da non sai quanto”.
Non vide il sorriso dell’amico, con la faccia mezzo nascosta da un cappellino degli Houston Rockets e da un paio di occhiali neri – un po’ da maniaco, pensava Luca, ma non gli aveva mai detto niente. Tight al polpaccio sotto i pantaloncini da allenamento, maglia di James Harden lunga e un po’ slabbrata e felpa fluo completavano il nuovo outfit NBA in tutto il suo splendore. Si trascinava dietro un borsone sportivo che sembrava pesare qualche quintalata. Se in quel momento ne avesse tirato fuori la centralina di un sommergibile nordcoreano o un tritaghiaccio a fusione nucleare, Luca non si sarebbe affatto stupito.
«Allora?»
«Eh, scusa» disse l’altro, «avevano un problema coi server, macchine vecchie, Ethernet con l’Alzheimer, ho dovuto smanettare tipo bradipo, il DHCP non assegnava gli indirizzi, il condizionatore era spento e la segretaria mi stava col fiato sul collo, sai – mezza isterica: “Hai finito? Funziona? Hai finito? Funziona adesso?”.
Luca ridacchiò e gli diede un pugno sulla spalla. «Fai sempre aspettare tutti, Fede, lo vedi?»
Federico Pini qualche anno prima si era scelto il nick di battaglia di Sasquatz, scritto 5A5QUATZ: non il solito mago del computer, no, lui tendeva a considerarlo un talento secondario, una roba che gli era capitata, come la predisposizione per la matematica – una vera predisposizione: faceva moltiplicazioni fra numeri a otto cifre, calcolava radici quadrate in una frazione di secondo e conosceva le caratteristiche più cazzute di certi cazzutissimi numeri primi.
Luca gli voleva bene: 5A5QUATZ sarebbe stato un genio, se avesse voluto. Probabilmente lo era. Il fatto è che della matematica non gliene fregava niente. In classe, per dire, era come se non ci fosse, limitandosi pure lui a galleggiare intorno alla sufficienza. Di quella specie di dono non sapeva cosa farsene a sedici anni, né la cosa sembrava interessargli più di tanto. La sua mente, leggiadra come un camoscio, poteva cogliere misteriose corrispondenze fra entità lontanissime sulla scala dei numeri naturali, ma 5A5QUATZ se ne sbatteva serenamente. La sua vera passione era un’altra.
«Fica» disse, come se stesse rimettendo a fuoco gli ultimi minuti all’interno della scuola calcio, «la segretaria, là dentro. Isterica ma innegabilmente fica.»
«Quanto?»
«Uhm. Scarlett Leithold.»
«Sì, vabbe’.»
«Con gli occhi più stretti, le labbra meno carnose, i capelli meno biondi…»
«Una scopa, insomma.»
«Ma no, è per farti capire il tipo.» Si tolse per un istante il cappellino dei Rockets per passarsi una mano tra i ricci castani. Luca controllò di nuovo l’ora. Tutta la faccenda gli sembrava un’inutile perdita di tempo.
«Quelli ti pagano, almeno?»
5A5QUATZ fece la faccia di uno che ha appena trovato in giardino un nido di velociraptor – la faccia dello scopritore di una specie estinta.
«Dai, te l’ho detto, il proprietario è un amico di mio padre. Ogni tanto mi chiamano e gli risolvo gli intoppi con la rete. Mi hanno regalato ’sto borsone, l’anno scorso.»
Luca avrebbe voluto protestare, ma c’era sempre quella smania che gli mangiava le gambe.
«Senti, sono venuto a prenderti, come mi hai chiesto. Voglio rientrare a casa per le quattro, ci dobbiamo sbrigare. Oggi è il giorno.»
«E chi se lo perde!»
Camminarono per un centinaio di metri lungo la strada, sopra le loro teste i cartelloni pubblicitari strillavano nomi di ipermercati e i vantaggi dell’epilazione laser. Un’agenzia funebre faceva la spiritosa: NON BERE QUANDO GUIDI, O L’ULTIMO PASSAGGIO TE LO DIAMO NOI. I cioccolatini invece puntavano sulla nota serietà dei supereroi in mantello. La fermata dell’autobus era davanti a loro. Quattro persone in piedi, un sedile, buste della spesa sul sedile sfasciato, sorvegliate da una vecchia, la pensilina e tutto il resto: poteva essere una pubblicità pure quella – di qualche reportage sulle zone depresse. Luca si liberò dello zaino e lo sistemò per terra, fra i piedi. C’erano dei pezzi di città che all’improvviso gli apparivano diversi, come se fossero fatti di un altro materiale – effetto ologramma: lo scorcio della fermata gli ricordava un livello di Grand Theft Auto. La precisione dei poligoni, la realtà simulata, così liscia, soprattutto gli esseri umani, come degli avatar comandati da un algoritmo. 5A5QUATZ depositò il borsone accanto alla pensilina e si stiracchiò le braccia.
«Sarà una lunga sessione, quella di oggi.»
Luca non disse nulla, si limitò a un leggero mugolio mentre strizzava gli occhi per avvistare l’autobus. La linea che stavano per prendere era di quelle sicure: una manciata di fermate, attraversando il confine tra due quartieri periferici ma non troppo. I passeggeri erano tranquilli, gente dalla faccia tra il rassegnato e l’annoiato, c’era sempre qualcuno che teneva stretto nel pugno un libro, o la mano di un bambino. In altre zone la Città non era così generosa: si raccontava di linee di trasporto letali come roccaforti dell’Isis, di battaglie con tanto di armi scoppiate per un’osservazione del conducente, di bande di tredicenni che devastavano i mezzi pubblici sotto gli occhi indifferenti dei passeggeri. Luca si era studiato su internet una specie di mappa delle safe zone pubblicata da un’associazione di cittadini: le linee rosse disegnavano un anello irregolare attorno al suo quartiere – era come sentirsi accerchiati, ma l’abitudine gli rendeva tutto estremamente familiare. La vita della Città era una faccenda di strategia: scegliere i percorsi, affrontare gli ostacoli (o saperli aggirare con astuzia), contrattare a destra e a sinistra. Sapere sempre cosa e chi, dove e come, quando e perché. Tenersi aggiornati. Era come scaricare software: adolescenza urbana, adolescenza urbana 2.0, adolescenza urbana 2.1 e così via.
I freni dell’autobus sibilarono e il mezzo e si arrestò con un contraccolpo metallico. Entrarono, e 5A5QUATZ fece quello che faceva sempre quando salivano sull’autobus.
«Non farlo» lo implorò Luca.
L’altro si limitò a sorridere.
«Ti prego… vedi che ti sto pregando?»
«Tranquillo, stavolta non cado.»
Si era già posizionato al centro del corridoio tra le file di sedili, le gambe leggermente ...