La quinta tappa
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La quinta tappa

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Informazioni su questo libro

La quinta tappa del Tour de France non è un pezzo di strada come tanti altri. I ciclisti la temono, i tifosi più esperti la aspettano con estremo interesse: è un banco di prova decisivo, quello che divide lo spaccone dal giocatore di squadra, lo sportivo dal campione. È una tappa che non ammette errori e facilonerie, perché riprende in parte il tragitto della Parigi-Roubaix e alcuni dei suoi rischiosissimi tratti di pavé: delle vere e proprie montagne in miniatura, pronte a sbalzarti dalla sella alla minima distrazione. È qui, nel corso di questa gara insidiosa, che il trentenne Vincenzo Nibali, già vincitore alla Vuelta e al Giro, smette di essere un semplice corridore e diventa un campione: arriverà terzo, ma con la consapevolezza di avere attorno a sé una vera e propria squadra, un gruppo di amici fidati, grazie al quale vincere la paura e concentrarsi sulla strada. Due settimane dopo, a Parigi, vincerà il Tour de France. In queste pagine Nibali e Pastonesi si inseguono nel racconto come ciclisti in volata. Mentre il giornalista ci restituisce la cronaca di quella gara epica, il corridore rivive attimo per attimo i momenti in cui - nel pieno della corsa - la sua mente volava altrove: ricordi d'infanzia, momenti decisivi della sua storia personale, riflessioni intime che ovattano il ritmo incessante delle pedalate... Arricchito dalle evocative illustrazioni di Antonio Zeoli, La quinta tappa non è solo un libro di sport, ma la perfetta descrizione di un attimo: quel preciso istante in cui troviamo in noi stessi la forza di andare avanti.

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Informazioni

Print ISBN
9788817100007
eBook ISBN
9788858693018
LA QUINTA TAPPA
Immagine 1 LA QUINTA TAPPA
Il cielo è pioggia, la strada è un sentiero, i corridori procedono in fila indiana. È una processione dolorosa.
Grande pubblico, due ali di folla che accompagnano gli uomini in gara, il popolo del ciclismo incoraggia tutti, dal primo all’ultimo.
Strade bagnate, corridori infangati, una sporca dozzina in testa alla corsa. Fra questi c’è la maglia gialla del leader della classifica generale. Vincenzo Nibali.
“Enzino, dacci dentro” dice tra sé.
Stringe i denti, assottiglia le labbra, affila il naso, riduce gli occhi a due fessure. E allunga. Mancano dieci chilometri al traguardo.
“Enzino, ora o mai più.”
Immagine 2 LA QUINTA TAPPA
Nibali. Vincenzo Nibali. Per gli amici, Enzino. Faccio il corridore. Ventinove anni, quasi trenta. Siciliano, siciliano di Messina, ma per il ciclismo sono emigrato sul continente, in Toscana, a Mastromarco, provincia di Pistoia, che avevo ancora i pantaloni corti. Professionista dal 2005, questo è il mio decimo anno fra i Giganti della strada. Se penso a quando sono passato fra i Giganti, ero proprio piccolo. L’Amstel Gold Race, per esempio: una giornata tremenda, pioggia forte e nuvole basse, tanto che non furono possibili le riprese tv. Ero così stanco, stanco morto, che dovetti abbandonare la corsa. Mi sentivo umiliato. Dentro di me avevo paura di non poter mai diventare un corridore vero. Tre giorni dopo, in Belgio, c’era la gara della Freccia Vallone: il tempo era meno brutto, il percorso era meno difficile, le mie aspettative erano più realistiche. Mi staccai nel finale, giunsi settantesimo, ma ero contento così. Quattro giorni dopo si correva la Liegi-Bastogne-Liegi: è la gara più sentita, forse perché la più antica, la più pesante, anche la più divertente. Finalmente una giornata di primavera, senza neanche troppo vento, una rarità da quelle parti. Chilometro dopo chilometro, colle dopo colle, sfilavo verso il fondo del gruppo finché sull’ultima salita, il Saint-Nicolas, quella abitata dagli immigrati italiani, mi ritrovai ultimo. Non mi persi d’animo. Per me arrivare era come vincere. E vinsi. Ultimo, ultimissimo: centotredicesimo. Il mio direttore sportivo, Giancarlo Ferretti detto “Ferron”, forse perché aveva la fama del sergente di ferro.
Immagine 3 LA QUINTA TAPPA
Pensava che mi fossi perso.
Pensava che mi fossi perso.
Immagine 4 LA QUINTA TAPPA
È il 9 luglio 2014. È la quinta tappa del Tour de France: da Ypres a Arenberg, 155,5 chilometri, nove tratti di pavé. Due di questi tratti – Orchies e Mons-en-Pévèle – vengono subito condonati per le proibitive condizioni del tempo e della strada. È una giornata invernale in piena estate, e i chilometri vengono ridotti a 152.
Al ritrovo di partenza, a Ypres, in Belgio, dove il cielo sembra sempre più basso che altrove, bandiere gialle con il Leone delle Fiandre che sventolano fra gli ombrelli, davanti alla Lakenhalle, il mercato dei tessuti, capolavoro dell’architettura gotica. L’atmosfera è tesa: quella di oggi è la temutissima tappa del pavé, una parte del percorso comprende le pietre della Parigi-Roubaix, “l’Inferno del Nord”.
La Roubaix (si dice così, forse anche perché il luogo della partenza non è più Parigi, ma Compiègne-Choisy-au-Bac, una sessantina di chilometri a nord-est di Parigi) è una corsa estrema proprio per queste pietre di porfido, irregolari, su stradine di campagna costruite a schiena d’asino, su cui passavano i carriaggi di Napoleone III. Se non ci fosse il pavé, sarebbe una corsa banale, quasi insulsa. Ma con il pavé, la Roubaix è una corsa unica. Nel bene e, anche, nel male. Chris Boardman, inglese, primatista dell’ora, sentenziò: “È roba da circo”. Beppe Saronni, campione del mondo su strada, la squalificò: “Ciclocross”. Bernard Hinault, bretone, cinque vittorie al Tour de France, tre al Giro d’Italia e due alla Vuelta di Spagna, la insultò: “Spazzatura”. Tant’è vero che non la voleva correre, poi sul bus che lo portava alla partenza sdrammatizzò la tensione guardando con i compagni di squadra un film porno, quindi la corse, la vinse, e fieramente confermò: “Paris-Roubaix est une connerie”, una cavolata. Theo De Rooij, olandese, la disputò da protagonista, tra scatti e fughe, non riuscì a salire sul podio, e intervistato da un giornalista dichiarò: “Questa corsa è solo un mucchio di merda”. Il giornalista, imbarazzato, non trovò altro da chiedergli che se l’avrebbe mai più corsa. E De Rooij, con un acrobatico salto mortale a parole, esclamò: “Certo, è la corsa più bella del mondo”.
La Roubaix, proprio per queste pietre, non è la corsa più bella del mondo, ma la più speciale e terribile, affascinante e terrificante, seducente e insopportabile, cioè tutto e il contrario di tutto, polvere e fango, paleolitica e tecnologica, guerra del fuoco e di industrie, così disumana da elevare l’umanità. È, per la sua natura archeologica, viscosa, infiammata, irta, rossa di porfido e nera di carbone, forestale e minerale, vegetale e metallurgica. È originale come un peccato, ed è fortunatamente unica, e questo lo si era capito da subito, al primo pronti-via. Fu Maurice Garin, valdostano, terzo nella prima edizione (1896), primo nella seconda (1897) e nella terza (1898), a balbettare “les heures chaudes de l’Enfer du Nord”, le ore calde dell’Inferno del Nord. Lui, di calore e di inferno, e anche di nord, se ne intendeva: faceva lo spazzacamino.
Sulla mappa la Roubaix è una corsa dannatamente piatta: dai 52 metri di Compiègne-Choisy-au-Bac ai 31 di Roubaix. Dislivello zero, o quasi. Come la Milano-Vignola, che non c’è più; come una tappa del Giro del Burkina Faso, che non si sa neanche se ci sia, ma c’è; come 635 giri del moribondo velodromo Vigorelli, pedalando alla corda, in basso. Però, se si contasse – un lavoro infinito e impossibile – il dislivello fra una pietra e l’altra nei 55 chilometri dei 29 settori di pavé, verrebbe fuori un’altimetria dolomitica, ed è per questo che, anche se dannatamente piatta, infligge distacchi da tappone alpino.
Immagine 5 LA QUINTA TAPPA
“Les Amis de Paris-Roubaix”, una sorta di Greenpeace del pavé, 250 soci (ogni anno si tassano dai 20 euro per quelli semplici agli 80 per quelli benefattori), hanno un comandamento drastico: “Sans pavés pas de course”, niente corse senza pavé. La missione di questi angeli dell’Inferno del Nord è custodire e sistemare, restaurare, ripulire le sacre pietre, blocchi di basalto di una quindicina di chili, erosi dal tempo e dal tempaccio. Uno di questi blocchi, dodici chili di peso, attaccato a una base di legno, è l’ambitissimo trofeo destinato al vincitore. Pochi, tutti sommati, gli italiani vincitori: dopo Garin, che poi ottenne la cittadinanza francese, ecco Giulio Rossi, parmense di Boccolo dei Tassi, anche lui emigrato in Francia (1937), la doppietta dei fratelli Coppi (Serse nel 1949 e Fausto nel 1950), l’assolo di Felice Gimondi (1966), la tripletta di Francesco Moser (1978-1979-1980), l’uno-due di Franco Ballerini (1995-1998) fino all’ultimo hurrah di Andrea Tafi (1999). Una vittoria qui cambia la vita, le dà un senso, un nome-e-cognome scolpiti nella storia e nella geografia, albo d’oro riservato esclusivamente a uomini forti e fortissimi.
Il fascino della Roubaix c’è, e c’è sempre di più, e c’è anche il giorno della quinta tappa del Tour de France 2014. Di solito i sentieri, le mulattiere, le carrozzabili, i tratturi vengono contati alla rovescia, dal numero 29 al numero 1, e sono percorsi come una liberazione: il primo tratto viene dopo 97 chilometri, da Troisvilles a Inchy, 2,2 chilometri, l’ultimo all’ultimo chilometro, già nel cuore della città d’arrivo, in uno spazio dedicato all’“enfant du pays” Charles Crupelandt (nacque e morì a Roubaix, 1886-1955, vinse la Roubaix nel 1912 e 1914, fu ribattezzato “il Toro del Nord”), trecento metri che spesso sanno già di trionfo. Il tratto più breve è proprio l’ultimo. Il tratto più spaventoso, e spaventevole, è quello della Foresta di Arenberg, lungo 2400 metri. Ufficialmente si chiama “Drève des boules d’Hérin”, il passaggio delle betulle di Hérin. È una strada nel bosco. Da una parte la foresta, poi un fossato con acqua stagna, poi una striscia di terra e polvere grigia e avanzi di miniera, poi una transenna, poi la strada in pavé, poi una zona di terra sottratta alla foresta e smossa da una scavatrice (così chi cade si fa meno male), poi un altro fossato, poi ancora la foresta. La chiamano anche la trincea. Per quel senso di strada militare e di gogna militaresca che la contraddistinguono. Per entrare nella foresta, il gruppo disputa una volata, complice anche una leggera discesa, a settanta all’ora. Per guadagnare la migliore posizione. Chi rimane indietro, è tagliato fuori. Come rimanere indietro di un passo in un tappone alpino. Due chilometri e mezzo affrontati a settanta all’ora e poi volati a cinquanta, è – garantiscono – un’esperienza traumatizzante, traumatica, a volte ortopedica. È come subire un’eterna scossa di terremoto al sesto grado della scala Mercalli. È come chiudersi in una lavatrice, saltare prelavaggio e lavaggio, e passare direttamente alla centrifuga. Ed è proprio ad Arenberg l’arrivo della quinta tappa del Tour de France. Quando si riemerge dalla foresta di Arenberg, è come essere usciti da un corpo a corpo con Mike Tyson. Ubriachi di colpi. Sfiatati. Sfiniti. Per sopravvivere a questo sconquasso ortopedico e logorio muscolare ci vogliono anche biciclette speciali: tubolari stagionati e ispessiti, imbottiture di gommapiuma sul manubrio, forcelle rinforzate, telai più pesanti e più robusti.
Immagine 6 LA QUINTA TAPPA
Immagine 7 LA QUINTA TAPPA
“La vita del corridore” mi ripeto, “è come quella di un monaco.” Non esiste sport in cui non si debba vivere così. Anzi, noi del ciclismo diciamo semplicemente “fare la vita”. Che significa: svegliarsi presto e soprattutto addormentarsi presto, dando un ritmo, un’abitudine al corpo; mangiare poco e bene, in maniera studiata e regolata, senza trascurare le intolleranze e tutto quello che rallenta o complica la digestione, rinunciando ai fritti e ai dolci, e alle mie tentazioni, come arancini, pizza, gelati, granite… e ovviamente niente alcol, un mezzo bicchiere di vino solo in casi straordinari; allenarsi tutti i giorni, tre, quattro, cinque, a volte fino a otto ore in sella, anche al freddo, anche sotto la pioggia, se no che corridore sei? E poi approfittare di ogni momento per riposare, perché il riposo fa parte dell’allenamento: se non ti riposi bene, non puoi allenarti bene. La vita del corridore è spartan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. PREFAZIONE. IL CAPITANO E IL SUO GREGARIO DI PAOLO CONDÒ
  4. LA QUINTA TAPPA
  5. POSTFAZIONE. UNA VITA IN CORSA DI MARCO PASTONESI
  6. Indice