
- 176 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Juma. Il bambino che voleva lavorare
Informazioni su questo libro
Un villaggio africano, sei pance vuote e un bambino di dieci anni che, da un giorno all'altro, capisce di essere diventato grande. Così ha inizio l'avventura di Juma, piccolo lavoratore deciso a mantenere la propria famiglia; una storia dominata dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, ma anche dall'amicizia, dalla dignità e dalla forza d'animo.
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Informazioni
Print ISBN
9788817101233eBook ISBN
9788858693216Capitolo 1
La fame non arriva da un giorno all’altro. Si avvicina piano piano, in punta di piedi, senza fare rumore, come un ladro.
Tu ti ci abitui senza nemmeno accorgertene. Riduci le porzioni pranzo dopo pranzo, cena dopo cena, fino a che un bel giorno ti ritrovi con il piatto vuoto.
Anche per noi fu così.
L’ultimo raccolto era andato male e la mamma ci aveva chiesto di tirare la cinghia fino alla nuova mietitura. Ma poi arrivò l’uragano e si portò via tutto il mais. Ormai mangiavamo solo sukuma wiki bollita senza nemmeno un pugno di ugali. Mia madre la allargava nel piatto per farla sembrare più di quella che era. Ma ci voleva ben altro per ingannare sei stomaci vuoti.
Io mangiavo in silenzio, come tutti, cercando di farla durare il più possibile, anche per non dare l’impressione di essere un ingordo. Ma mi vergognavo e tenevo lo sguardo basso. Non avevo il coraggio di guardare in faccia i miei fratelli più piccoli. Avevo compiuto dieci anni da una settimana. Non ero un uomo. Ma ero il più grande di tutti ed ero sicuramente in grado di procurarmi il cibo da solo. Dovevo solo farmi coraggio. E così feci, un giorno, all’uscita da scuola.
Non fu una decisione meditata. Non avevo preparato niente. Né una borraccia, né un sacco, nemmeno la mia fionda. Me ne andai così, con l’uniforme della scuola che mi aveva cucito mia madre. Mi fermai sotto un baobab fingendo di fare la pipì, la pipì più lunga della mia vita. Lasciai sfilare i miei fratelli ad uno ad uno e quando li vidi scomparire dietro la curva, mi voltai e cominciai a camminare nella direzione opposta.
Camminai tutto il pomeriggio senza mai fermarmi, senza mai guardare indietro. Superai il pozzo, la cisterna, il palmeto e continuai verso territori che conoscevo appena.
Qui ero venuto solo una volta quando ero molto piccolo, con Mzee Kanutè e altri vecchi di Kuombo. A dire il vero non so nemmeno perché mi avessero portato con loro, visto che ero così piccolo e la situazione così pericolosa; davano la caccia alla Simba Wazimu.
La Simba Wazimu era impazzita dopo che un branco di maschi giovani le aveva ucciso i cuccioli. Mzee Kanutè ce l’aveva raccontato tante volte davanti al fuoco. Le altre leonesse si erano lasciate conquistare dai nuovi arrivati e dopo cento giorni avevano dato alla luce altri leoncini. Ma lei no. Lei era scappata da sola sulla montagna, e a volte si spingeva fino a dove mi trovavo io in quel momento.
Ma non avevo paura.
Quel giorno di tanti anni prima, l’avevamo cercata senza risultato fino a che, quando ormai avevamo rinunciato, lei ci aveva attraversato la strada sotto il naso. Mzee Kanutè era scattato in avanti, lancia in pugno, pronto ad ucciderla. Ma alla fine non l’aveva fatto. Quando gli altri vecchi gli chiesero perché, rispose che la Simba Wazimu l’aveva guardato con due occhi così tristi che gli aveva fatto pena. Da quel giorno ebbi ancor più rispetto per lui.
Arrivai ai piedi della grande montagna a notte fonda. Dovevo aver camminato per dodici ore filate. Eppure non sentivo un filo di stanchezza.
Dei miei amici solo Nelson aveva superato questo punto. Se ne era andato a lavorare a Kitale, dopo che l’uragano si era portato via la sua capanna con metà della famiglia dentro. Sapevo che aveva trovato un lavoro fisso e viveva in una baracca con altri bambini. Ma le lettere non erano il suo forte. Da quando era partito mi aveva scritto solo una volta.
Mentre cercavo un sentiero, mi accorsi di un rumore d’acqua che proveniva dal bosco. Seguii quel suono e mi ritrovai sulla riva di un ruscello. Ero stato tanto immerso nei miei pensieri che non mi ero accorto di avere sete. Mi inginocchiai e bevvi con la lingua nell’acqua, come un animale. Poi cominciai a salire seguendo il corso del ruscello.
Arrivai in cima alla montagna poco prima dell’alba. L’aria era fresca, il cielo era rosso e la savana infinita. La mia nuova vita cominciava da qui. Sarei andato da Nelson, mi avrebbe aiutato a trovare un lavoro e avrei mandato il mio stipendio a casa, ogni mese. Basta fame! Erano finiti i giorni della sukuma wiki. D’ora in poi non sarebbe più mancato niente: pane, riso, ugali, samaki, nyama... e una macchina da cucire per mia madre. Sarebbe stata festa tutti i giorni, proprio come nel mio nome, Juma, che in swahili vuol dire sabato: giorno di festa, gioia e riposo.
Cominciai a scendere verso valle, felice per questi propositi, come se li avessi già realizzati. E persino il sole sembrava voler celebrare la mia decisione; io scendevo giù per la montagna e lui saliva su in cielo, stendendo il suo tappeto di luce davanti ad ogni mio passo.
Ma il sole ci mette poco a trasformarsi da amico in nemico. In una manciata di minuti salì così in alto che cominciò a scottare. Allora per proteggermi mi legai la camicia in testa. Ma quando arrivai alla savana mi accorsi che le spalle mi erano diventate nere come il carbone. Visto da lontano dovevo essere un puntino ancora più nero in mezzo al giallo sterminato della savana.
In teoria, se era vero ciò che raccontava Nelson, camminando sempre dritto avrei raggiunto Kitale prima di sera. Ma lui era tre anni più grande di me ed era partito equipaggiato: oltre ad acqua e viveri aveva anche un paio di scarpe. Io invece, a parte la mia suola di calli, non avevo niente. Solo la speranza.
Cominciai a camminare lungo il sentiero più grande e dopo un po’ mi superò uno stormo di fenicotteri volando a V sopra la mia testa. Era settembre. Non potevano andare che a sud, a caccia del caldo. Allora, preso dall’entusiasmo, mi misi a correre come un masai. Non so da dove mi venisse la forza. Non mangiavo da due giorni ma era come se avessi superato la soglia della stanchezza. Correvo così forte che mi sembrava di volare insieme ai fenicotteri che si perdevano all’orizzonte.
Poi cominciarono gli incontri terrestri.
Una giraffa stava facendo colazione con un cespuglio. Si fermò un istante, mi guardò con la coda dell’occhio e tornò a masticare le sue foglie come se niente fosse.
Più avanti incrociai una mandria di zebre. Avevano un’aria minacciosa, ma forse volevano solo giocare. Alla fine si tuffarono dentro una pozzanghera di fango e diventarono tutte marrone.
Poi trovai una famiglia di gnu che riposava all’ombra di un albero. La madre stava allattando i cuccioli e non mi guardò nemmeno.
Infine incontrai un cane. Era così magro che sembrava una lisca di pesce. Aveva anche un’andatura bizzarra: camminava incrociando le zampe davanti a sé, con tutto il corpo storto. Eppure avanzava in linea retta. Io mi giravo e lui mi guardava. Io mi fermavo e lui si fermava. Io ripartivo e lui mi seguiva. Sempre dritto, sempre storto.
Ad un certo punto, mi girai e vidi che si era fermato. Allora mi fermai anch’io. Provai a ripartire un paio di volte per vedere come reagiva. Ma questa volta sembrava inchiodato a terra. Avevo l’impressione che volesse dirmi qualcosa. Ma cosa? Poi indietreggiò di qualche passo, mi abbaiò un paio di volte e se ne andò, in un’altra direzione. Non chiedetemi perché, ma cominciai a seguirlo. I ruoli si erano invertiti. Ora ero io che correvo dietro a lui.
Arrivati su una grande pietra tonda, ci fermammo tutti e due, Lisca di Pesce con la lingua che strisciava per terra e io sdraiato, a riprendere fiato. Guardai all’orizzonte in direzione del cammino che avevamo abbandonato e improvvisamente capii due cose: primo, che la savana non è per niente piatta ma piena di colline, dune, fossi e persino laghetti d’acqua dolce, molto contesi. Secondo, che Lisca di Pesce mi aveva appena salvato la vita; sotto di noi, in lontananza si distinguevano le sagome di un branco di leoni che stavano facendo a pezzi uno gnu. Rimanemmo qualche minuto senza riuscire a staccare gli occhi da quella povera bestia che avremmo potuto essere noi.
Poi ci girammo e proseguimmo in silenzio.
Capitolo 2
Camminammo tutto il giorno, uno di fianco all’altro. A volte trovavamo una pozzanghera e ci fermavamo a bere. L’acqua era torbida e sapeva di terra, ma la sete era talmente tanta che preferivo seguire l’esempio di Lisca di Pesce.
Arrivammo nei pressi di Kitale a notte fonda. Si vedevano fuochi e lanterne luccicare in lontananza. Lisca annusò qualcosa di buono e accelerò. Io invece rallentai. Non ero mai stato in un villaggio così grande. Non mi piaceva l’idea di entrare a Kitale con il buio. Avrei potuto perdermi o cacciarmi in qualche guaio senza nemmeno accorgermene. Così mi arrampicai su un albero di mango e mi preparai un letto, incastrato fra due rami. Lisca di Pesce rimase interdetto. Non sapeva più se continuare da solo o rimanere lì con me. Andò un po’ avanti, tornò indietro, fece un giro attorno all’albero, abbaiò. Infine, quando vide che non c’era niente da fare, sospirò rassegnato, si trascinò fin sotto al mango e si acciambellò, usando come cuscino quella sua coda spelacchiata.
Qualche ora più tardi si udirono i canti lontani delle moschee di Kitale.
«Allaaaah Akbar!»
«Allaaaah Akbar!»
Allora immaginai di essere finito in Arabia e che Lisca di Pesce fosse in realtà un cammello... o un dromedario. Le gobbe non gli mancavano di certo.
Peccato che appena mi vide, cominciò ad abbaiare come un matto.
Un cane con le gobbe può anche starci, ma un cammello che abbaia? L’avete mai visto?
Così abbandonai quella fantasia, saltai giù dall’albero e riprendemmo il cammino.
Da lontano le vetture assomigliavano alle macchinine che fabbricavo a Kuombo con gli scarti di lattine. Erano tutte rattoppate e piene di colori. Ma queste erano macchine vere, andavano da sole e ogni volta che due camion s’incrociavano, esplodevano in un concerto di clacson:
Bi, bii, biffi...
Pèreperepèreperepèe...
Popi, popi, popi...
Tutti i rimorchi erano carichi di gente e gli autisti guidavano come pazzi. Ad ogni curva sembrava dovessero perdere la metà dei passeggeri. Invece alla fine tutti riuscivano miracolosamente a restare a bordo, riacciuffandosi a vicenda e ridendo come matti per il pericolo scampato.
Più avanzavamo verso il centro di Kitale, più i bordi della strada si riempivano di piccole capanne o bancarelle che vendevano di tutto: carne, pesce, scarpe, camicie, banane, insalata, ananas, verdura... Di fianco a una di queste bancarelle, c’era una bella cabina telefonica rossa e fu in quel momento che mi ricordai di mia madre. Non le avevo ancora dato notizie.
Feci per entrare, ma una donna mi fermò. «Dove vai?» mi domandò con fare burbero.
Era una donna grassa, molto grassa; così grassa che non so nemmeno come avesse fatto ad entrare nella bancarella.
Le spiegai la mia storia: da dove venivo, perché ero partito, dove ero diretto... Infine le chiesi di telefonare alla signora Mugabe affinché avvisasse mia madre che stavo bene e che presto le avrei mandato molti soldi e una macchina da cucire.
«Così hai molti soldi, eh?» disse la signora.
«Qui no, ma presto li avrò» risposi.
Lei si fece una gran risata.
«Fammi capire bene. Io adesso ti faccio fare la telefonata gratis e tu, quando avrai tutti questi bei soldi, tornerai indietro e mi pagherai? È così?»
«Esatto» risposi.
Ero appena arrivato dalla campagna e non mi rendevo conto di quanto fosse ridicolo, agli occhi smaliziati dei cittadini, quel mio ottimismo. Forse se avessi avuto un altro po’ di tempo, l’avrei convinta. Invece, arrivò il marito.
«Che vuoi?» domandò con voce da gigante.
A lui interessava poco la mia storia. Gli bastò sapere che non avevo soldi con cui pagare la telefonata per decidere in quattro e quattr’otto che andavo preso per la collottola e scaraventato via, il più lontano possibile.
Attraversai la strada a mezz’aria, schivando per miracolo macchine e passanti, e atterrando infine su una carriola carica di patate. Il ragazzo che le trasportava cominciò a gridare come un pazzo:
«Guarda cos’hai combinato. Hai fatto un bel purè, hai fatto. Complimenti! E adesso chi mi ripaga?»
La tirò per mezz’ora finché non lo riconobbi.
«Nelson!»
Non ci potevo credere.
Eravamo così felici di rivederci che ci rotolammo fra le patate come due matti per un’altra mezz’ora. La gente rideva e si fermava a guardarci come se fossimo uno spettacolo di strada. I più furbi ne approfittarono per intascarsi le patate che rotolavano fuori dalla carriola. Poi si allontanavano in fretta, facendo finta di niente. Nelson riuscì ad acciuffarne uno per la camicia e provò a farsi restituire le patate. Ma questo non ne voleva sapere.
«Cosa vuoi da me? Queste sono le mie patate. Le ho comprate stamattina al mercato con i soldi guadagnati col sudore di questa qua. La vedi questa qua?» diceva battendosi la mano sulla fronte. La batteva così veloce che sembrava un applauso.
Lo guardammo allontanarsi. Aveva le tasche dei pantaloni talmente piene che faceva fatica a camminare. Ma che potevamo farci? Era il doppio di noi due messi insieme e anche se Nelson sapeva fare a bo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Capitolo 1
- Capitolo 2
- Capitolo 3
- Capitolo 4
- Capitolo 5
- Capitolo 6
- Capitolo 7
- Capitolo 8
- Capitolo 9
- Capitolo 10
- Capitolo 11
- Capitolo 12
- Capitolo 13
- Capitolo 14
- Capitolo 15
- Capitolo 16
- Capitolo 17
- Capitolo 18
- Capitolo 19
- Capitolo 20
- Nota dell’autore
- Ringraziamenti