Mary e il fiore della strega
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Mary e il fiore della strega

Mary Stewart

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  1. 160 pagine
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Mary e il fiore della strega

Mary Stewart

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Informazioni sul libro

Mary Smith non si è mai annoiata così tanto in vita sua. I genitori l'hanno spedita a passare le vacanze in campagna, a casa dalla prozia Charlotte, dove non accade mai niente di divertente. Un giorno più noioso degli altri, Mary si mette a seguire un gattino nero, si inoltra nel bosco e trova un fiore viola mai visto prima, così bello da sembrare magico. La bambina non ci mette molto a scoprire che le basta sfregare i petali del fiore su un manico di scopa per prendere il volo. Da quel momento per Mary la vacanza in campagna si trasforma in un'avventura da brividi, che la porterà in una misteriosa scuola di stregoneria, tra lezioni di incantesimi, laboratori di magia e segreti molto pericolosi.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
ISBN
9788858693377
Immagine 1 1. La povera Mary piange piange…

1

La povera Mary piange piange…

Persino il suo nome era banale: Mary Smith. Niente poteva essere più deprimente. Essere banale, avere dieci anni, starsene da sola con lo sguardo fisso alla finestra della propria camera in una grigia giornata autunnale, e chiamarsi Mary Smith.
Era l’unica persona banale della famiglia: Jenny aveva lunghi capelli color dell’oro, e Jeremy, a detta di tutti, era bello; entrambi erano più grandi di Mary, più intelligenti, più attraenti sotto ogni aspetto. Inoltre erano gemelli e avevano l’uno la compagnia dell’altra; mentre Mary, più piccola di cinque anni, pensava con tristezza che fra lei e una figlia unica non c’era poi grande differenza. Non che provasse rancore nei confronti dei fratelli: le era sempre sembrato naturale che avessero possibilità a lei negate. Proprio come era accaduto quella volta…
Era giunta la notizia che verso la fine delle vacanze estive il papà sarebbe andato in America per un mese, e che la mamma lo avrebbe accompagnato. All’inizio sembrava che tutto dovesse filare liscio. Un amico di Jeremy avrebbe ospitato i gemelli nella sua fattoria e Mary sarebbe andata dalla sorella della mamma, zia Sue, che viveva a un’ora di macchina dal mare e aveva tre figli di undici, otto e quattro anni.
Ma proprio il giorno della partenza di Jenny e Jeremy era arrivata la lettera di zia Sue: lo zio Gil e i due ragazzi più grandi avevano l’influenza, e la zia non se la sentiva di ospitare Mary, con tutto il lavoro in più che doveva sobbarcarsi…
Rieccoci alle solite. Ancora una volta, tutte le fortune erano dei gemelli. Mary non era risentita perché erano toccati a loro il raccolto, i trattori, e persino la possibilità di occuparsi dei due vecchi pony della fattoria, ma pensava che si sarebbe meritata almeno un po’ di influenza. Se non altro, dalla zia Sue, avrebbe avuto compagnia.
Mentre se ne stava tutta sola alla finestra, in quella grigia mattinata autunnale, l’influenza le sembrava davvero desiderabile. Aveva dimenticato la febbre alta, le ossa doloranti, le giornate trascorse a letto; aveva dimenticato persino che Timothy, di quattro anni, a volte era davvero insopportabile – in realtà, lo era quasi sempre. Riusciva a pensare soltanto a quanto si sarebbero divertiti tutti insieme durante la convalescenza, con i libri, i giochi e un sacco di chiacchiere e risate. Continuò a rimuginarci sopra e per la cinquantesima volta immaginò di essere riuscita ad andare dalla zia Sue e di aver preso l’influenza prima dell’arrivo della lettera che aveva fatto correre sua madre al telefono. A seguito di quella telefonata, Mary era stata spedita con tanto di scuse dalla prozia Charlotte, nella sua vecchia casa silenziosa in mezzo alla campagna.
“Niente” pensò Mary, “niente potrà mai accadere, in questo posto.” Se solo fosse successo tutto durante l’anno scolastico… Persino la scuola sarebbe stata più divertente di quella sistemazione.
Con le sopracciglia aggrottate, guardò il giardino, dove le foglie secche cadevano frusciando e formando arabeschi sul prato.
La prozia Charlotte, vecchia, gentile e molto sorda, viveva in una grande casa di mattoni rossi nel cuore dello Shropshire. All’incirca un miglio di boschi e piantagioni di ciliegi separava il giardino dalla strada principale. Un tempo le piantagioni facevano parte della casa, ma adesso non ci si poteva mettere piede perché erano state affittate a un’azienda agricola locale che teneva chiusi i cancelli. Anche metà della casa era affittata; le persone che ci vivevano erano andate in vacanza, e vedere le imposte serrate e la porta chiusa col chiavistello – la vecchia porta secondaria della casa padronale – faceva sembrare il luogo ancora più solitario e isolato. Il villaggio di Red Manor, con il suo grappolo di case intorno alla chiesa e all’ufficio postale, distava un miglio buono. Ci si arrivava per una strada stretta, poco più di un sentiero di campagna. Mary qualche volta si era incamminata in quella direzione, ma non aveva mai incontrato anima viva.
La prozia Charlotte viveva nella casa padronale con un’anziana amica e dama di compagnia, la signorina Marjoribanks (che si pronunciava Marshbanks), un’anziana governante scozzese di nome signora McLeod (che si pronunciava Macloud), e un anziano pechinese chiamato K’ung Fu-tsze (che si pronunciava Confucius). A dire il vero, c’erano anche la signora Banks e sua figlia Nancy, che venivano a fare le pulizie, e poi c’era Zebedee, il vecchio che si occupava del giardino, tuttavia un posto del genere non poteva certo offrire prospettive emozionanti a una signorina piuttosto timida di dieci anni come Mary Smith.
La signorina Mary Smith stava esaminando con sguardo severo la propria lingua allo specchio.
Aveva un aspetto sanissimo, e lei si sentiva più che bene.
Chiuse la bocca, sospirò, mostrò di nuovo la lingua allo specchio, e scese in cerca di qualcosa da fare.
La signorina Marjoribanks era in salotto, tutta presa a separare fili di seta da ricamo sull’ampia panca vicino alla finestra. Nel focolare bruciava un misero fuocherello, davanti al quale si era acquattato Confucius, un po’ imbronciato e intento a digerire il pranzo. Anche la prozia Charlotte, sulla sedia a dondolo accanto al fuoco, stava probabilmente digerendo, ma aveva un’aria molto più soddisfatta di Confucius. Dormiva.
Mary si avvicinò in punta di piedi alla panca sotto la finestra e si sedette senza far rumore.
Osservò la signorina Marjoribanks che districava un filo di seta color pulce da una matassa di un morbido rosso ruggine. L’accostamento dei colori era orribile. La signorina Marjoribanks torceva e scuoteva e strattonava, ma alla fine barò, tagliando entrambi i fili con le forbicine da ricamo. Poi cominciò ad avvolgerli su due rotolini di carta di giornale.
Mary aprì la bocca per offrirle il suo aiuto.
Immediatamente la signorina la fissò con occhi di un azzurro pallido e slavato. «Sssh!» sibilò. «Sveglierai Confucius!» E spostò la scatola dei fili un po’ più in là. «E Confucius» aggiunse dopo averci pensato un attimo «sveglierà la tua prozia.»
«Ma…» cominciò Mary.
«Sssh!» ripeté la signorina Marjoribanks.
Mary uscì in punta di piedi dal salotto, e impiegò almeno due minuti e mezzo per chiudere la porta senza fare rumore.
In cucina trovò la signora McLeod che preparava una crostata di frutta. In piedi, dietro al tavolo tirato a lucido, mescolava energicamente qualcosa in una scodella gialla. Non si accorse neppure del timido ingresso di Mary; stava parlando da sola, in una lingua che sembrava straniera. O forse ripeteva una formula magica, pensò improvvisamente Mary, spostando lo sguardo dal viso scarno e dalle braccia magre della signora McLeod alla pentola che fumava sulla stufa.
«Un par de once de farina» borbottava la signora McLeod, mescolando energicamente, «un tocchetto de lievito, un pizzico de sale, zuccaro… sì, c’è tutto.»
«Cosa sta preparando?» chiese Mary.
La signora McLeod trasalì, sbattendo il cucchiaio di legno contro la ciotola e facendo tintinnare i barattoli del sale, del lievito e dello zucchero sul tavolo.
«Misericordia!» esclamò. «Mi hai fatto paura, ragazzina! Non ti ho sentito entrare! Cosa vuoi, adesso?»
Riprese a mescolare l’intruglio, mentre con lo sguardo tornava alla pagina di un consunto libro di ricette, appoggiato a un recipiente pieno di uova.
«Una volta» disse, «mi ricordavo tutto senza guardare. Adesso, invece… Du’ once de burro sciolto…»
«Posso aiutarti?» chiese Mary, avvicinandosi timidamente. «Qualche volta aiuto la mamma, a casa, sai? Mi dà un po’ di pasta e io…»
«No, cara» rispose la governante, decisa ma in tono garbato. «Oggi non faccio la pasta. C’è solo questo per cena, e per giunta è una cosa molto complicata. Perché non corri a giocare in giardino? Non fa freddo, anche se il cielo è grigio.»
Scorse la pagina del libro con un dito farinoso e concentrò di nuovo lo sguardo sulla ricetta.
«Burro» disse. «E poi un uovo e mezzo, ben sbattuto. Mezzo uovo… roba da matti!»
«La metà rossa o la metà bianca?» chiese Mary, gettando un’occhiata al libro.
Ma in quel momento qualcosa si mise a crepitare e sfrigolare sulla stufa e la governante, dopo aver mollato il cucchiaio, si precipitò dall’altra parte della cucina a togliere una pentola dal fornello.
«Per poco non brucio le albicocche» disse. «Ora va’ a giocare in giardino, ragazzina. Se rimani qui a chiacchierare rovinerò il dolce! Non riesco a fare due cose in una volta.»
Mary si avviò lentamente verso la porta posteriore attraversando il retrocucina.
Nancy, la figlia della signora Banks, stava staccando la biancheria asciutta dal filo. Era una ragazzona con le braccia rosse e piene, e gli occhi scuri e lucenti. Sorrise a Mary da sopra una bracciata di federe, e la salutò con il suo dolce accento dello Shropshire.
«Posso aiutarti a stendere la biancheria?» chiese Mary, raccogliendo due mollette cadute e infilandogliele in una tasca del grembiule.
Nancy rise. «È quasi tutta asciutta» rispose con voce cantilenante. «Adesso io e la mamma dobbiamo stirare.»
Tolse il puntello e il filo del bucato si abbassò oscillando fino alla sua portata. Staccò le mollette dagli ultimi due lenzuoli e le lasciò cadere nella tasca proprio quando la voce di sua madre, stridula per lo sforzo di gridare, giunse dalla lavanderia.
«Nancy, muoviti con quelle lenzuola, dai!»
«Arrivo, ma’!» gridò Nancy, e rivolgendo un altro sorriso a Mary infilò la porta della lavanderia.
Se Mary non si fosse messa a cercare il vecchio Zebedee, probabilmente non l’avrebbe mai notato. Perché, come tutti i giardinieri, non sembrava una persona ma semplicemente una parte del paesaggio. Con la sua giacchetta scolorita, il vecchio cappellaccio sdrucito, e due pezzi di spago legati intorno alle ginocchia per tenere su i pantaloni, Zebedee ricordava un oggetto dimenticato nel capanno degli attrezzi; all’ombra dell’orribile vecchio cappellaccio gli zigomi avevano il colore dei vasi di terracotta e il dorso delle mani nodose, tutto un groviglio di vene e ossa, somigliava alle matasse di rafia gialla con cui era solito legare i crisantemi. Attività in cui era occupato proprio in quel momento, quando finalmente Mary lo trovò.
Uno sprazzo di sole autunnale aveva squarciato la grigia coperta del cielo, indorando gli alberi e le foglie cadute che le scricchiolavano sotto i piedi mentre attraversava il prato. Davanti a un alto filare di cipressi, le corolle color bronzo, rame e giallo zolfo dei crisantemi emanavano, insieme alla terra, alle foglie cadute e all’intrico di vivaci nasturzi ai loro piedi, il triste e magnifico profumo dell’autunno.
Interrompendo il lavoro per un attimo, Zebedee la guardò da dietro i fiori con i suoi vivaci occhi da pettirosso, ma non disse nulla. Le corolle scompigliate dei crisantemi ciondolarono mentre lui tirava la rafia attorno allo stelo e la legava. Si piegò nuovamente in avanti e svanì dietro i fiori. Mary, rimasta al margine del prato, chiese con voce esitante:
«Posso aiutarti?»
I crisantemi ondeggiarono di nuovo e una matassa di rafia volò nella sua direzione.
Lei la raccolse e fece un passo in avanti, esitante. Il vecchio cappellaccio riapparve improvvisamente tre macchie più avanti, dietro un enorme cespuglio di dalie rosse; Zebedee le dava le spalle e le sue mani si muovevano indaffarate tra le foglie fruscianti.
Mary gettò nuovamente un’occhiata alla matassa di rafia, decise che doveva essere un invito ad aiutarlo e, spostando gli astri e le grandi dalie sgargianti, si fece strada fino alla parte posteriore dell’aiuola, dove si trovavano i crisantemi.
Iniziò lentamente e con cura a legare la rafia ai picchetti, per poi farla passare attorno ai gambi delle piante in modo da non schiacciare le foglie. Il vecchio Zebedee era scomparso di nuovo, ma un pettirosso — quasi si fosse trattato di un suo spirito familiare — volò via dalla barriera di cipressi e si appollaiò su un gambo di dalia, osservandola con gli stessi occhi vivaci.
Lo sprazzo di sole si muoveva lentamente attraverso il colorato groviglio di fiori e di foglie appassite. La vite canadese sui muri della casa padronale pareva una tappezzeria di seta e sullo sfondo del cielo color peltro gli alti camini, afferrando gli ultimi raggi di sole, brillavano di un colore caldo.
Fu allora che Mary, stringendo troppo la rafia, ruppe il gambo di un crisantemo.
Era una pianta alta, forse la più alta e bella di tutte, e si spezzò con uno schiocco che quasi riecheggiò nell’aria ferma. L’enorme zazzera fiorita, color oro e ambra, pendeva tristemente sul terreno e sulle foglie marce.
Mary rimase a fissarla, sgomenta.
E, improvvisamente, così come era svanito, il vecchio Zebedee ricomparve al suo fianco fissando quel che restava del suo gioiello con un misto di disgusto e ira.
«Avrei dovuto saperlo» disse amaramente. Anche la sua voce, come ogni cosa in lui, sembrava parte del giardino: sottile e sibilante ma stranamente musicale, simile al vento che soffia nelle gronde. «Avrei dovuto saperlo. Bambini e cani sono la rovina di un giardino. Lascia stare, va’.»
«Mi dispiace» disse Mary tristemente e, porgendogli la matassa di rafia, si voltò per andarsene, sconsolata.
Trovò un’apertura nella barriera ...

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