Il nido
eBook - ePub

Il nido

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Il fratellino di Steve ha qualcosa che non va. Mentre il terrore del peggio logora in fretta tutta la famiglia, strane creature luminose simili ad angeli iniziano a visitare i sogni del ragazzo, spiegandogli di essere venute per aiutare il piccolo. Steve fa quello che faremmo tutti: accetta il loro aiuto. Ma le creature non sono affatto angeli, e il confine tra incubi e realtà non è così invalicabile come sembra. E Steve è l'unico che può fare qualcosa.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2018
Print ISBN
9788817102896
eBook ISBN
9788858693766
Kenneth Oppel

IL NIDO

Traduzione di
Giordano Aterini
Illustrazioni di
Jon Klassen
Logo grafico BUR Rizzoli ragazzi
A Julia, Nathaniel e Sophia
Immagine 1 IL NIDO
Decorazione
La prima volta che le ho viste, ho creduto che fossero angeli. Cos’altro potevano essere con quelle loro ali chiare, leggere e sottili come garza, la musica che le avvolgeva, e la luce che le ammantava? Ebbi da subito la sensazione che fossero lì in attesa da tempo, ad osservarmi, e che mi conoscessero. Apparvero nei miei sogni dieci notti dopo la nascita del piccolo.
Vedevo tutto leggermente sfuocato. Ero in una specie di caverna meravigliosa, con le pareti che luccicavano quasi fossero di tela bianca; la luce pioveva dentro dall’esterno. Gli angeli si libravano a mezz’aria, e dall’alto mi guardavano. Solo una si avvicinò, luminosa e bianca. Non so dire come, ma sapevo che era una femmina. Traboccava di luce. Non riuscivo a vederla bene, ma non sembrava affatto umana. Aveva questi occhi scuri giganteschi, e una specie di criniera di luce; quando parlò, non riuscii a vedere labbra che si muovevano, ma sentii le sue parole, come una brezza sul viso, e la capii perfettamente.
«Siamo qui per il piccolo» disse. «Siamo qui per aiutare.»
Decorazione
Il piccolo aveva qualcosa che non andava, ma nessuno sapeva dire cosa. Non lo sapevamo noi, e non lo sapevano i dottori. Dopo averlo tenuto in ospedale una settimana, diedero alla mamma e al papà il permesso di portarlo a casa, ma quasi tutti i giorni dovevano tornare là per fare altri esami. E ogni volta che ci andavano, la mamma e il papà raccoglievano nuovi dettagli, e nuove teorie.
Non era una specie di virus, una cosa cioè da cui il piccolo sarebbe semplicemente guarito. Non era una malattia di quel genere. Poteva invece essere il genere di malattia da cui non si guarisce mai. Il piccolo poteva non riuscire a parlare. Poteva non riuscire a camminare. Poteva non riuscire a mangiare da solo. Poteva persino non sopravvivere.
Immagine 2 IL NIDO
Quando il piccolo era nato, il papà era tornato a casa e mi aveva detto delle sue condizioni di salute. Aveva qualcosa che non andava al cuore, agli occhi e al cervello, e probabilmente avrebbero dovuto operarlo. Il piccolo aveva un sacco di cose che non andavano.
E probabilmente la mamma e il papà non mi stavano nemmeno raccontando tutto; a Nicole di sicuro non stavano raccontando proprio niente. Lei era convinta che il piccolo stesse facendo tutte le punture che gli toccavano in una volta sola, e che per un bebè fosse normale andare in ospedale tutti i giorni e fermarsi lì spesso anche la notte.
La sera ogni tanto ascoltavo di nascosto i miei parlare. Erano però solo parole sparse e pezzetti di frasi.
«… molto rara…»
«… prognosi infausta… non sanno…»
«… degenerativa?»
«… nessuno sa per certo…»
«… congenita…»
«… eravamo troppo vecchi, non avremmo dovuto provare a…»
«… non ha niente a che fare con…»
«… i dottori non sanno dire…»
«… di sicuro non si svilupperà normalmente…»
«… non lo sa… nessuno non lo sa…»
Di giorno la mamma e il papà passavano ore sui libri e al computer; leggevano, leggevano sempre. A volte le cose che trovavano sembravano farli felici; altre, più tristi ancora. Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa leggevano e imparavano, ma di quello non parlavano molto.
In testa avevo il mio sogno con gli angeli, ma lo tenevo per me. Sapevo che era un sogno stupido, però mi faceva sentire meglio.
Quell’estate con le vespe era stato davvero un incubo. Lo dicevano tutti. Di solito ce le avevamo solo ad agosto, ma quell’anno erano arrivate prima. Il papà non aveva nemmeno ancora montato i suoi vespai di carta finti. Non che funzionassero granché, in realtà. Un anno avevamo provato con le trappole: avevamo comprato questi strani contenitori e li avevamo riempiti a metà di limonata per attirarci dentro le vespe, che però una volta entrate non riuscivano più a uscire, e morivano. La pila di cadaveri saliva, saliva sempre di più. Odiavo le vespe, ma non era un bello spettacolo nemmeno vederle sepolte in quella tomba molliccia, con le poche sopravvissute che si arrampicavano sui cadaveri, cercando invano una via di fuga. Sembrava quel vecchio quadro dell’Inferno che avevo visto al museo e che non ero più riuscito a togliermi dalla testa. Ad ogni modo, intorno al tavolo era tutto un volare di vespe, soprattutto vicino alla caraffa di tè freddo. E io non riuscivo a smettere di guardarle.
Era domenica, ed eravamo seduti in terrazza, sul retro. Eravamo tutti stanchissimi. Nessuno parlava molto. Il piccolo era in camera sua a fare il pisolino, e il baby monitor era sul tavolo, con il volume al massimo; aveva sempre quel respiro pesante, come se avesse il naso chiuso. Noi stavamo sotto l’ombrellone, a bere tè freddo. Nicole era sul prato, seduta su una grande coperta che le aveva steso la mamma. Stava lanciando dei pupazzetti all’assalto di un castello di LEGO. Insieme ai cavalieri e alla grossa scatola dei LEGO, sulla coperta si era portata dietro anche il suo telefono giocattolo. Nicole adorava quel telefono. Era di plastica, fatto come quelli di una volta, in cui per chiamare un numero dovevi girare una ghiera trasparente. Era del papà, di quando era piccolo, ma sembrava nuovo. Il papà diceva che era sempre stato attentissimo con i suoi giocattoli.
All’improvviso Nicole piantò lì l’assalto al castello e alzò la cornetta come se il telefono avesse squillato. Disse un paio di cose veloci, rise e poi aggrottò le sopracciglia come un dottore che deve dare una brutta notizia. «Okay» disse e riappese.
«Come sta il Signor Nessuno?» le gridai.
«Bene» rispose lei.
Era un gioco che ci eravamo inventati io e lei. Più o meno un anno prima, giusto poco dopo che la mamma era rimasta incinta, ricevevamo almeno una telefonata muta al giorno. Ogni volta che rispondevamo, dall’altro capo non si sentiva niente. Chi era a chiamare? Nessuno. Il papà aveva sentito la compagnia telefonica per lamentarsi; alla fine avevamo cambiato persino numero, e per un po’ le telefonate avevano smesso di arrivare. Ma tempo un paio di settimane ed erano riniziate.
E così Nicole aveva cominciato a chiamarlo Signor Nessuno. Il Signor Nessuno si divertiva a chiamarci e a stare zitto. Il Signor Nessuno soffriva un po’ di solitudine, tutto qui. Era un mattacchione. Cercava amici. Nicole iniziò a ricordarlo nelle sue preghierine della sera. “E proteggi il Signor Nessuno” diceva.
«Qualche bella barzelletta nuova, oggi, Nicole?» chiesi dalla terrazza. «Nessuna novità interessante?»
Nicole alzò gli occhi come se fossi un’idiota.
Due vespe volavano intorno al bordo del mio bicchiere. Lo spostai un po’ più in là, ma quelle lo seguirono; andavano matte per le bibite dolci. Non ero mai stato punto dalle vespe, eppure mi terrorizzavano lo stesso; era così da sempre. Sapevo che era una cosa irrazionale, da rammolliti, ma quando mi volavano vicine perdevo la testa e mi mettevo ad agitare le mani per scacciarle.
Una volta – il piccolo a quei tempi non c’era ancora – eravamo andati a fare un’escursione sul Mount Maxwell; stavamo guardando il panorama quando una vespa si mise a girarmi intorno alla testa ronzando, e non voleva andare via, e io partii di corsa, dritto verso lo strapiombo. Papà mi afferrò, gridando che avrei potuto ammazzarmi. «Datti una calmata!» urlò. Ogni volta che vedo una vespa mi ritorna in mente quella sua frase. Datti una calmata. C’erano un sacco di cose rispetto a cui avrei dovuto darmi una calmata. Purtroppo, non ero tanto bravo a farlo.
Si avvicinò una terza vespa, che aveva striature diverse. Invece che nera e gialla, era più che altro bianca, con appena un paio di strisce grigio-argento. Di forma era tale e quale alle altre, solo un po’ più grossa. Le altre due vespe volarono via, e quella bianca e argento si posò sul bordo del mio bicchiere.
Quando tentai di scacciarla, virò dritta verso la mia faccia: mi tirai indietro così di scatto che feci cadere la sedia.
«Steve, lasciala in pace» disse mio padre. «Se ti agiti, è solo più facile che ti punga.»
Io però non ci riuscivo, a non agitarmi. Odiavo soprattutto quando mi venivano vicino alla faccia.
«Dov’è?» chiesi.
«Se n’è andata» disse la mamma.
Ma non era così. Me la sentii camminare sulla testa, tra i capelli.
Urlai e cercai di schiacciarla, e subito dopo sentii una forte fitta al palmo. Tirai indietro la mano. Nella parte più carnosa vicino al pollice c’era un puntino rossissimo, e la pelle lì intorno già bruciava.
«Ti ha punto?» chiese mia madre.
Non riuscii a risponderle. L’unica cosa che riuscivo a fare era fissarmi la mano.
«Insomma!» brontolò il papà avvicinandosi per guardare. «Vieni dentro, dai, che te la sciacquiamo.»
Mi sentivo la mano gigantesca, come quando d’inverno fuori fa freddissimo ed entri in casa e ti riscaldi tutto di colpo.
«Si è gonfiata un po’, mi sembra» disse il papà.
Mi guardai le mani, stordito. «È molto più rossa dell’altra.»
«Passerà.»
Ma a me non sembrava proprio che passasse. Mi sentii travolgere da una grande ondata calda. Partì dal centro esatto della schiena, si allargò alle spalle, e poi scese giù per le braccia. Il cuore prese a battermi velocissimo.
«Non mi sento tanto bene.» Mi sedetti.
«E se ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio