La ragazza del mare
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La ragazza del mare

  1. 476 pagine
  2. Italian
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La ragazza del mare

Informazioni su questo libro

Attraversare a nuoto il Canale della Manica è come scalare l'Everest. In quei trenta chilometri infuria incessante la battaglia tra il Mare del Nord e l'Atlantico, e il nuotatore che voglia rischiare l'impresa deve fare i conti con maree imprevedibili, correnti impetuose, acque gelide e condizioni atmosferiche mutevoli e infide. Trudy Ederle è stata la prima donna a compiere la traversata, nell'agosto del 1926, quando solo cinque uomini erano riusciti a vincere quel tratto di oceano. Lo ha fatto anticipando di oltre due ore il primato maschile e portando definitivamente alla ribalta il crawl americano, oggi lo stile libero conosciuto da tutti; lo ha fatto a poco più di vent'anni dal naufragio del General Slocum, la nave in cui centinaia di donne morirono a pochi metri dalla costa di New York, perché nessuna di loro sapeva nuotare; lo ha fatto a dispetto della sordità che l'accompagnava fin da bambina, e che ha sempre ostacolato il rapporto con gli altri. Lo ha fatto, infine, nonostante le sconfitte e le avversità, dimenticando l'insuccesso alle Olimpiadi di Parigi e il tentativo di avvelenamento subito durante la prima traversata. Trudy Ederle è stata una campionessa, una pioniera, un simbolo, un modello: ha demolito record e pregiudizi, sfidando le onde dell'oceano e i più grandi atleti della sua epoca, superando lo scetticismo di chi pensava che lo sport fosse affare da uomini e regalando alle ragazze di tutto il mondo la consapevolezza che tutto era possibile.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817101936
eBook ISBN
9788858693155

1

In acqua

Era una mattinata perfetta di inizio estate, di quelle che rimangono per sempre incise nella memoria; il cielo era di un vivido azzurro e l’aria fresca e fragrante come un lenzuolo bianco di lino steso fuori ad asciugare. Nel quartiere del Lower East Side conosciuto come Kleindeutschland, o, tra chi veniva da fuori, come Little Germany, quella mattina del 15 giugno 1904 riusciva a far dimenticare agli abitanti le giornate di lavoro da dodici ore e le dure condizioni di vita nei casermoni bui. Finalmente era arrivato il gran giorno.
Nella loro abitazione al numero 404 della Quinta Strada Est la trentunenne Anna Weber, il marito Frank e i loro due figli, Emma di dieci anni e Frank junior di sette, si erano alzati presto. Mentre Anna preparava il pranzo e lo riponeva con cura in un cesto, i bambini ballavano in giro per casa, sporgendo di tanto in tanto la testa fuori dalla finestra, quasi incapaci di trattenersi. Strillavano di gioia nel sentire la brezza e nel vedere il cielo azzurro sopra di loro e chiacchieravano eccitati, parlando dell’avventura che li aspettava.
Da settimane la giovane famigliola attendeva con ansia la gita annuale sponsorizzata dalla St. Mark’s Lutheran Church, che annoverava tra i suoi fedeli la maggioranza degli abitanti di Kleindeutschland. L’escursione segnava l’inizio dell’estate, e quell’anno il reverendo Haas aveva affittato il General Slocum, un enorme piroscafo in grado di accogliere fino a tremila passeggeri, per trasportare il suo gregge lungo l’East River e il Long Island Sound fino a raggiungere un parco. Lì, in una località chiamata Locust Grove, avrebbero trascorso la giornata facendo un picnic, tra svaghi, musica, bagni e giochi nell’acqua fredda del canale. Per qualche ora sarebbero riusciti a dimenticare l’odore di spazzatura marcia che indugiava nell’aria, il fracasso continuo delle strade e la lotta per adattarsi alla vita in un nuovo Paese. Per un giorno avrebbero vissuto la vita che desideravano, fatta di tempo libero e gioia. In casa Weber, Emma e Frank junior trangugiarono rapidi la colazione e poi indossarono in fretta i loro migliori abiti estivi, gridando ai genitori di sbrigarsi.
La famigliola raggiunse in anticipo il molo della Terza Strada, subito a nord della Houston, dove aveva appuntamento con la sorella di Anna, Martha, il fratello, Paul, la moglie di lui e i loro tre bambini. Mentre i ragazzini giocavano insieme sul molo l’aspettativa crebbe e poco prima delle otto, quando finalmente lo Slocum comparve sbuffando fumo lungo il fiume, grida di gioia risuonarono sul pontile. Anche se l’imbarco non sarebbe iniziato prima delle otto e tre quarti e la partenza sarebbe avvenuta solo alle nove e mezzo, la famiglia Weber si mise in fila, ansiosa di trovare un buon posto sul ponte da cui potersi godere il panorama del viaggio lungo l’East River.
Anche se fra la folla sul molo c’erano parecchi uomini, il marito di Anna faceva parte delle poche decine di maschi fortunati tra le milletrecento persone in attesa di imbarcarsi sul piroscafo. Era un mercoledì, una giornata lavorativa, e la maggioranza dei padri non poteva permettersi di prendere ferie, neppure per un evento come quello. Quasi tutti si limitarono ad accompagnare le famiglie al molo, salutare e poi recarsi al lavoro, lasciando le mogli e i figli a godersi quella rara vacanza dalla vita di città.
Il General Slocum era uno dei più grandi battelli a ruota per passeggeri di New York. Realizzato prevalentemente in legno di pino e di quercia, era lungo settantadue metri, largo undici, pesava 1180 tonnellate e vantava tre ponti. Al centro di ciascuna fiancata c’era un’enorme ruota dal diametro di dieci metri con trentasei pale.
Mentre la folla aumentava, l’equipaggio di ventuno uomini si affaccendava a bordo, pulendo i ponti, lucidando gli ottoni e caricando le ultime provviste necessarie per il viaggio: ghiaccio, rinfreschi e stoviglie. Nella luce del mattino lo scafo dello Slocum, ricoperto di numerosi strati di densa vernice bianca, scintillava sotto il sole: la nave, varata nel 1891, sembrava quasi nuova.
Alle otto e quarantacinque un membro dell’equipaggio sganciò la catena che impediva l’accesso alla passerella. Il reverendo Haas era lì per salutare personalmente i passeggeri man mano che salivano a bordo. Anna e la sua famiglia arrivarono fino al ponte intermedio, situato verso la prua del battello. Mentre gli adulti li ammonivano a restare a portata d’orecchio, i bambini partirono in esplorazione, chiacchierando, ridendo e appoggiandosi alle ringhiere per guardare il traffico fluviale e il lento risveglio dell’isola di Manhattan. Finalmente, appena dopo le nove e mezzo, quando gli ultimi ritardatari si precipitarono lungo il molo e salirono di corsa la passerella, i motori ribollirono, lo Slocum si staccò dal pontile e si avviò lungo l’East River, con il nero fumo di carbone che fuoriusciva dalle due ciminiere torreggianti sul ponte.
Non c’era fretta. Il battello si mosse lentamente sul fiume, acquistando velocità poco per volta. L’acqua era come vetro, e i passeggeri riuscivano a malapena ad accorgersi dell’avanzare elegante e armonioso dell’imbarcazione, che fendeva le acque a pieno vapore a una velocità di sedici nodi. Su un ponte una banda di musicisti tedeschi suonava canzoni famose: melodie americane come Swanee River, ma anche On the Beautiful Rhine e altri motivi tedeschi, conferendo al viaggio un’atmosfera da luna park in movimento. Era una giornata perfetta: continuavano a ripeterlo tutti.
Ma appena dopo le dieci, mentre la barca si stava avvicinando al Long Island Sound, un bambino che stava esplorando il ponte inferiore situato al centro della nave, proprio di fronte alla plancia, annusò l’aria. Fumo di legna. Dato che abitavano in caseggiati enormi, in cui anche il più piccolo incendio poteva propagarsi rapidamente e mettere in pericolo decine se non addirittura centinaia di residenti, anche i bambini avevano imparato a temere il fuoco. E il ragazzino capì che c’era qualcosa di sbagliato nel sentire odore di fumo proprio lì. Si guardò attorno e notò un piccolo pennacchio che si levava lentamente da una stretta rampa di scale.
Il ragazzino girò sui tacchi, trovò un marinaio e lo condusse in cima alla rampa. L’uomo seguì la puzza e scese le scale, che portavano all’ingresso di un magazzino. Arrivato in fondo scorse qualche debole filo di fumo bianco, a malapena visibile, uscire dalla porta, salire verso il ponte e dissolversi nell’aria.
All’interno covava un piccolo incendio. Il pavimento era ingombro di paglia e trucioli utilizzati come materiale da imballaggio. Quella mattina era caduto sul pavimento un tizzone, probabilmente sprigionato da un fiammifero utilizzato per accendere una lampada, oppure dalla cenere di un sigaro o di una sigaretta. Aveva cominciato a covare e forse si era sollevata anche qualche fiamma, ma in quel piccolo ambiente, quasi in assenza di ossigeno, il fuoco non riusciva ad alimentarsi. Se il magazzino fosse rimasto chiuso per il resto della giornata, molto probabilmente l’incendio si sarebbe spento da solo.
Ma il marinaio, inesperto e poco addestrato, compì un errore terribile. Invece di chiamare in aiuto un superiore, aprì d’impulso la porta.
Dopo un attimo di esitazione, come se avesse tirato un profondo respiro, il fuoco assorbì il prezioso ossigeno e prese vita. Le fiamme si sollevarono rombando e incendiarono il truciolato, invadendo quasi completamente il magazzino e sprigionando un’ondata di calore. Il marinaio si rese conto all’improvviso del proprio errore e fu preso dal panico. Invece di chiudere immediatamente la porta e correre a dare l’allarme, la lasciò aperta e cercò di soffocare le fiamme con l’unico oggetto che aveva a portata di mano: un pesante sacco di carbone. Sul momento le fiamme cessarono, lasciando solo il fumo. A quel punto il marinaio corse via in cerca di aiuto, ma di nuovo lasciò la porta aperta.
A ogni passo che faceva l’ossigeno alimentava le fiamme, rendendole sempre più pericolose. L’incendio riprese vigore e di lì a qualche minuto si propagò su per le scale. Il fuoco si espanse rapidamente perché la nave di legno, coperta di vernice altamente infiammabile, era un combustibile quasi perfetto.
Quando il marinaio tornò al ponte inferiore insieme ad altri membri dell’equipaggio, la situazione era grave, ma non ancora incontrollabile. Gli uomini non si lasciarono sopraffare dal terrore. Il battello era dotato di impianti antincendio e idranti, e se fossero riusciti ad azionarli in fretta avrebbero fatto in tempo a domare le fiamme.
Con la massima rapidità possibile srotolarono i tubi e aprirono le valvole. Ma non appena andarono in pressione gli idranti si spaccarono e l’acqua, invece di scorrere fino agli ugelli in un flusso diretto contro l’incendio, si limitò a spargersi innocua e inefficace sul ponte.
Anche se il General Slocum era stato varato nel 1891, i tubi di tela non erano mai stati collaudati e neppure attentamente ispezionati. Quattordici anni di esposizione agli agenti atmosferici li avevano resi fragili, facendoli marcire.
L’equipaggio capì subito il significato di quel fallimento e abbandonò in fretta i propri posti, precipitandosi verso i ponti superiori, dove oltre milletrecento passeggeri erano ancora ignari del pericolo.
Anna Weber e il suo gruppo stavano chiacchierando felici, quando all’improvviso una grossa nuvola di fumo si sprigionò dall’imbocco di una rampa di scale. Per un attimo tutti tacquero, poi qualcuno scherzò: «Non farci caso, è solo la zuppa sul fuoco». Anna si lasciò sfuggire una risata nervosa, ma di lì a qualche istante al fumo seguirono le fiamme, e subito dopo i passeggeri udirono l’equipaggio correre lungo la nave gridando: «Al fuoco!» e diffondendo il panico alla stessa velocità con cui si propagava l’incendio.
Immediatamente tutti reagirono. Anna, come ogni altra madre a bordo, cominciò a urlare e a chiamare i suoi bambini. Il marito si precipitò tra la folla per cercarli e scomparve quasi subito.
Era una situazione pericolosa, ma non tragica, perché decine di moli fiancheggiavano la riva del fiume. Il capitano dello Slocum, Edward Van Schaik, sapeva ormai che il suo battello era in fiamme. Gli sarebbe bastato rallentare e accostarsi alla banchina più vicina, un’azione che avrebbe richiesto solo un paio di minuti e avrebbe dato a quasi tutti i passeggeri la possibilità di sbarcare.
Ma, proprio come il marinaio che aveva scoperto le fiamme, anche Van Schaik commise un errore fatale. Dal suo punto sopraelevato di osservazione sul ponte di comando, pur vedendo il fumo, pensò che l’incendio fosse piccolo e circoscritto. Non valutò correttamente la gravità della situazione e, invece di preoccuparsi dell’incolumità dei passeggeri, temette che se avesse accostato a un pontile le fiamme si sarebbero propagate, dando fuoco al molo e causando forse un incendio ancora più ampio a terra. Van Schaik decise quindi di continuare a navigare lungo il fiume alla massima velocità. Conosceva bene l’East River e aveva intenzione di far arenare la nave su North Brother Island, un isolotto di otto ettari all’ingresso del Long Island Sound.
Anche se North Brother Island era a meno di cinque minuti di distanza, per coloro che si trovavano a bordo del battello ogni secondo che passava era un’eternità. Nessuno era al corrente delle intenzioni di Van Schaik: sapevano solo che le fiamme e il fumo si stavano avvicinando rapidamente. Anna Weber udì un uomo urlare: «Prendete i giubbotti di salvataggio!», e insieme a decine di altri passeggeri si arrampicò in cima a tavoli e sedie per raggiungere il soffitto del ponte coperto. Alcuni giubbotti erano legati troppo stretti e altri si sbriciolarono al tocco; tuttavia un certo numero di passeggeri riuscì a liberarne alcuni, a infilarli e a farli indossare ai figli.
In un certo senso, Anna fu fortunata: non riuscì a trovarne uno. Quelli che li avevano si lanciarono fuori bordo, rimasero a galleggiare per qualche istante, convinti di essere in salvo, ma dopo pochi secondi iniziarono ad affondare. Proprio come i tubi dell’acqua, anche i giubbotti a bordo dello Slocum risalivano al 1891. Il rivestimento di tela era marcito e il sughero impiegato per garantire il galleggiamento si era ridotto in polvere, perdendo qualunque spinta idrostatica. Quando la polvere si impregnò d’acqua i giubbotti divennero una zavorra. Sarebbe stata la stessa cosa legarsi addosso un blocco di cemento.
A quel punto alcuni passeggeri e membri dell’equipaggio rivolsero la propria attenzione alle scialuppe che, proprio come i giubbotti, erano presenti in abbondanza, più che sufficienti per portare tutti al sicuro. Ma anche quelle erano inutilizzabili: in passato erano state saldamente assicurate con del fil di ferro ed era impossibile calarle in acqua.
Ormai vaste zone del ponte intermedio avevano preso fuoco, e le fiamme arrivavano fino al soffitto. Anna Weber avvertì il calore sul viso e i capelli che prendevano fuoco. Ogni respiro era come la ventata rovente di una fornace e ogni superficie che toccava le bruciava la pelle. Mentre continuava a urlare, chiamando il marito e i figli, la folla la trascinò verso una fiancata del battello.
Col propagarsi dell’incendio molti si trovarono di fronte a un terribile dilemma. Le madri dovettero scegliere tra bruciare vive insieme ai figli oppure buttarsi con loro nelle acque dell’East River. Per quasi tutti la paura del fuoco si dimostrò più potente di quella di annegare. Mentre la barca continuava a navigare verso North Brother Island, centinaia di passeggeri saltarono o furono spinti in acqua uno dopo l’altro.
La maggior parte di loro non aveva la minima possibilità. Solo pochissimi sapevano nuotare. Ai giorni nostri sembra incredibile, ma circa un secolo fa il nuoto era un’attività quasi completamente sconosciuta, praticata solo da pochi uomini e da quasi nessuna donna, perché in età vittoriana per una donna nuotare era considerato immorale. Imparare a farlo era tabù.
Quando finalmente la barca si arrestò tra le secche di North Brother Island, centinaia di passeggeri si erano gettati fuori bordo ed erano già annegati, e altrettanti erano morti bruciati quando i ponti avevano cominciato a crollare. Eppure altre centinaia si trovavano ancora a bordo, e ora la prua del battello era sepolta nel fondale sabbioso sotto poco più di due metri d’acqua e a soli sei metri di distanza dalla costa, mentre la poppa si trovava a quindici metri dalla riva in un punto in cui l’acqua era profonda nove metri. Per coloro che ancora si ammassavano lungo le ringhiere la salvezza era a poche, potenti bracciate di distanza.
Eppure per quasi tutti riuscire ad arrivare a terra era improbabile quanto attraversare a nuoto la Manica. Anche quei pochi che sapevano nuotare erano intralciati dai pesanti abiti di lana, paragonabili a una camicia di forza.
Ma madri, figli e figlie ci provarono ugualmente. Un fiume di esseri umani si riversò fuori dal battello: saltarono, si tuffarono, a volte vennero buttati giù, e per un attimo l’acqua attorno all’imbarcazione brulicò di gente. Come quasi tutte le donne, Anna Weber non sapeva nuotare e non aveva il coraggio di saltare. Trovò una cima che pendeva dalla fiancata e si calò in acqua, ma poi rimase lì aggrappata, mentre il battello continuava ad ardere e il calore iniziava di nuovo a bruciarle i capelli. Guardò gli altri lottare per restare a galla, i bambini in preda al terrore aggrappati alle madri, ma a ogni attimo che passava tutti, uno dopo l’altro, finivano sott’acqua. I pochi che sapevano nuotare e che riuscirono a non affondare nonostante il peso dei vestiti dovettero lottare contro la stretta disperata di quelli che non ne erano capaci.
Anna fu una dei fortunati. Un uomo (non scoprì mai chi fosse) la afferrò, la convinse a mollare la fune e in qualche modo riuscì a trascinarla a riva. Ma in centinaia annegarono a pochi metri di distanza dalla spiaggia, alcuni in un fondale così basso che se solo fosse venuto loro in mente di posarvi i piedi sarebbero sopravvissuti. Ma avevano una tale paura dell’acqua che non appena la toccarono si lasciarono immediatamente prendere dal panico, cercarono di respirare sotto la superficie e annegarono.
Presto le urla si trasformarono in deboli gemiti e poi cadde il silenzio, rotto solo dal rombo dell’enorme battello completamente avvolto dalle fiamme. In soli quindici minuti lo Slocum bruciò fino alla linea di galleggiamento e cominciò a oscillare sulla superficie dell’acqua, mentre il fumo e il vapore si levavano nell’aria.
Sulla spiaggia di North Brother Island lo spettacolo era terrificante. Ogni onda depositava a riva altri cadaveri, e centinaia di corpi affioravano a faccia in giù nell’acqua. I sopravvissuti non gridavano e non piangevano, ma restavano immobili, in piedi o seduti sulla sabbia, immersi in un silenzio stordito dovuto allo shock. Anna ritrovò il marito, vivo e quasi nudo, con gli abiti bruciati. Ma i loro due bambini erano scomparsi, così come la sorella e il fratello di lei, la cognata e i nipotini, tranne il minore, un neonato sopravvissuto per miracolo.
Con il relitto del battello così vicino alla riva, non sembrava possibile che ci fossero state così tante vittime. Il capitano Van Schaik, che dopo aver fatto arenare la nave era riuscito a raggiungere la costa, rimase incredulo di fronte a una tale carneficina. «Non capisco come possa essersi verificato un così gran numero di perdite» dichiarò poco tempo dopo. A sopravvivere furono circa trecento passeggeri, ma in totale 1021 cadaveri furono recuperati dal battello, dov’erano rimasti intrappolati dopo il crollo dei ponti, e dalle acque dell’East River. Molti degli annegati erano ancora abbracciati gli uni agli altri.
Quel disastro fu l’evento in cui si registrò la più grave perdita di vite umane nella storia di New York, e lo rimase fino all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Anche se la stragrande maggioranza delle vittime abitava a Kleindeutschland, tutta la città pianse quei morti. Le descrizioni del panico a bordo del battello pubblicate sui giornali e le foto dei cadaveri di donne e bambini che giacevano sulla spiaggia di ciottoli di North Brother Island erano quasi insopportabili.
Le donne erano le più sconvolte, perché nel corpo di qualunque madre, figlio o figlia rivedevano se stesse, e capivano quanto casuale, assurda e inutile fosse stata ciascuna di quelle morti. Mentre il governo si affrettava a reagire alla tragedia e decideva di imputare la strage all’avidità della compagnia di navigazione a cui apparteneva il battello, alla pessima decisione di Van Schaik, alla vigliaccheria di molti membri dell’equipaggio e alla corruzione dei funzionari di Tammany Hall, i cui controlli di sicurezza a bordo erano avvenuti solo sulla carta, le donne di New York e altre componen...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La ragazza del mare
  4. Prologo
  5. 1. In acqua
  6. 2. La sfida
  7. 3. Atlantic Highlands
  8. 4. Il pittore
  9. 5. La Women’s Swimming Association
  10. 6. La traversata
  11. 7. L’insegnante
  12. 8. La Manica
  13. 9. La ragazza migliore
  14. 10. Il secondo uomo
  15. 11. Traguardi
  16. 12. Rivali
  17. 13. Record
  18. 14. Donna in acqua
  19. 15. Gare
  20. 16. Tormento
  21. 17. Ritorno
  22. 18. Wolffe
  23. 19. Toccata
  24. 20. Veleno
  25. 21. Cap Gris-Nez
  26. 22. E perché?
  27. 23. Kingsdown
  28. 24. Terra
  29. 25. Spazzata via
  30. Ringraziamenti
  31. Note e fonti