DOPO
21
In ogni storia c’è un prima e un dopo. Prima le cose sono fatte in un certo modo e poi arriva qualcosa che le trasforma e dopo non sono più le stesse. È una legge della natura così semplice, eppure così potente. Ogni metamorfosi ha la sua grazia, ogni metamorfosi è una benedizione.
C’è l’aeroporto tutto buio, stiamo partendo di notte, e io improvvisamente scoppio a piangere perché non ho mai volato, ho paura di volare, che cosa succede se voliamo e fuori non si vede il sole? Ho uno zainetto celeste sulla schiena e cerco di togliermelo, ma la cinghia mi si impiglia nel braccio, e resto a dimenarmi a scatti, mi scuoto come se mi stessero mangiando viva le formiche. Sento che gli sconosciuti si fermano a osservarmi, nessuno capisce perché sto piangendo, guardano i miei genitori con riprovazione. Chi sono questi due che fanno piangere una bambina, con che diritto possono dire che è loro se la stanno facendo soffrire?
Mamma si volta verso di me, stasera è più mamma-la-bambina che mai. Si è lavata i capelli prima di uscire, e ha asciugato i ricci a testa in giù, le si sono gonfiati come una nuvola intorno al viso. «Sembro una pecora, vero?» mi ha detto ridendo, li ha scossi tutti e io avrei voluto toccarli per vedere se facevano le scintille.
Si è messa dei jeans che le stanno enormi, li ha stretti in vita con una cintura chiusa fino all’ultimo buco. Non l’ho mai vista vestita così, lei ama le gonne; ogni tanto fa la ruota davanti a mio padre, gira su se stessa con l’orlo che sale a scoprirle le gambe quasi fino alle mutandine, e poi a me e a Jill sussurra, complice: «Ho caldo, prendo aria».
Mi abbraccia forte, mia madre, in ginocchio sul pavimento delle partenze dell’aeroporto di New Orleans, e riesco a sentirle le costole sotto la maglietta. Per la prima volta dopo tanti mesi, profuma di vaniglia. Mi aggiusta la cinghia dello zaino, e dentro al mio orecchio mormora: «Basta, Mia. Ora ci siamo solo noi».
E io smetto all’istante di piangere, perché ha detto le parole magiche: solo noi.
C’è la casa-piscina di Roma, nella quale ho finalmente una stanza tutta per me e però ancora non mi ci sono abituata. A volte mi lancio contro i muri per misurare tutto quello spazio, ho le braccia sempre piene di lividi. La voce di mio padre mi arriva attraverso la porta, bassa e fredda di rabbia trattenuta.
«Non ha senso nemmeno discuterne» dice, e sento un tonfo. Un pugno sul tavolo, qualcosa che è caduto, chissà. La voce di mamma invece non la distinguo, parla troppo in fretta e troppo sottovoce. Forse piange.
«Ascoltami» dice lui. Una pausa, poi, più dolce: «Ascoltami, zucchero, ti prego». Lo immagino che le prende le mani, le stritola in una morsa d’amore. Le dice che è inutile, che tanto la verità non la sapranno mai, le indagini sono a un punto morto. Dobbiamo andare avanti, e per farlo dimenticare è la cosa migliore. «Vuoi che Mia abbia una vita normale o vuoi che diventi quella a cui hanno ucciso la sorella?»
A questo punto mamma piange davvero, stavolta sento i suoi singhiozzi e poi papà che la calma, papà che la culla. La starà abbracciando, dondolandola sulla poltrona grigia che hanno comperato pochi giorni fa a Porta Portese, con mamma che contrattava sul prezzo con una luce selvaggia negli occhi.
«Da adesso non ne parliamo più. Mai più. È meglio così, fidati di me» dice mio padre. E a me si drizzano i peli sulle braccia, cerco di pensare a mia sorella, ma non mi ricordo la sua faccia, per un attimo non mi viene in mente nemmeno il suo nome.
C’è la casa di questa nuova compagna della scuola americana, G. Sono arrivata a Roma da poco e mi ha invitata per una merenda, un gesto che poi non si ripeterà più. È una casa tutta tappezzerie e poltrone dorate, non ho mai visto niente di simile e cammino in punta di piedi. La sua camera è il doppio della mia, piena di giocattoli sul pavimento e sulla scrivania, c’è il bambolotto uguale a quello che i miei non mi hanno mai voluto regalare, c’è persino una coroncina da principessa che penzola da un comodino. Siamo sedute per terra, nel poco spazio a disposizione, e lei mi sta raccontando i pettegolezzi della scuola, mi spiega di chi posso essere amica e a chi posso dare confidenza. A un paio di ragazze, dice, non devo nemmeno rivolgere la parola. Ha dei boccoli biondi da bambola e uno spazio tra gli incisivi nel quale ogni tanto infila la lingua. La trovo carina, e di nascosto cerco di imitare il modo in cui arriccia il naso quando pensa di aver detto qualcosa di divertente.
All’improvviso la porta si apre ed entra un bambino. Cammina traballando, non avrà neanche due anni. Ha i capelli radi e fini fini, e penso che anche io da piccola li avevo così. Il pannolone umido gli è sceso quasi alle ginocchia, ma lui sorride lo stesso e fa dei versi, sembra contento di vederci: si muove deciso in direzione di un orso di peluche buttato in un angolo. La mia nuova amica si alza in piedi di scatto, il viso contratto, e gli dà uno spintone. Il bambino atterra di schianto sul pannolone, solleva il faccino stupito e mi fissa. Respira con la bocca, non riesce nemmeno a piangere.
«Che palle, mio fratello» dice G. Si gira verso di me, sospettosa. «Tu hai fratelli? Sorelle?»
«No» rispondo. «Sono figlia unica.» E intanto sento le guance che mi si fanno rosse, come se mi avesse chiesto se ho mai baciato un ragazzo, se mi sono già venute le mie cose.
Adesso so che dimenticarmi di Jill è stato un processo graduale e involontario, eppure anche qualcosa che ho scelto in un momento. Ho preso una decisione, irrevocabile e improvvisa come il colpo di pistola dello starter: da adesso in poi, ci sono solo io.
22
15 giugno 1997
Per piacere a Dio, non c’è bisogno di essere belle: così mi disse mia madre quando avevo sei anni. Piangevo perché Jill era stata eletta di nuovo più carina della classe, e a me invece non era mai capitato. Io ero quella invisibile. Ho smesso con il tempo di soffrirne, ma allora volevo ancora essere come mia sorella.
Mamma aveva un dono: sapeva sempre trovare un lato positivo alle cose brutte, e pazienza se di solito aveva a che fare con la religione. Ero contenta che cercasse comunque di consolarmi, che avesse ogni volta una soluzione pronta per le mie lacrime. Era un po’ come il fazzoletto che portava in borsa, e che era misteriosamente pulito ogni volta che doveva servire ad asciugarmi le guance.
«La bellezza porta solo guai. È meglio non averne tanta» mi ripeteva.
Volevo crederle con tutta me stessa.
Volevo credere agli sguardi di disapprovazione che lanciava alla mia adorabile sorella da lontano, quando faceva la ruota sul prato o cantava stringendo in mano una spazzola.
Volevo crederle quando la rimproverava perché si ostinava a sedersi con le gambe aperte, anche se indossava la gonna.
Purtroppo sapevo anche che, per ogni volta che mia madre la osservava preoccupata, ce n’erano altre cento in cui si compiaceva dei complimenti che le riservavano gli estranei o le pizzicava le guance per renderle più rosse. Forse essere belle portava davvero guai, e in fondo ne avrei avuto l’ovvia conferma a tempo debito, ma mi sembrava che avesse anche dei vantaggi, di quelli che a noi mediocri sarebbero stati per sempre preclusi.
«Mia, vai a chiamare tua sorella. La cena è pronta.»
Mia madre aveva cucinato il polpettone, la sera che Jill scomparve. Era una delle sue specialità, e uno dei piatti preferiti di mio padre. Credo che avessero litigato quel giorno, perché mettersi ai fornelli era uno di quei due-tre modi sicuri che conosceva per fare la pace con lui, percentuale di successo garantita.
Io lo detestavo, non riuscivo mai a capire se dentro ci nascondesse qualche verdura disgustosa, di quelle che mi rifiutavo sempre di mangiare. Però non mi piaceva neanche l’aria da trincea che si respirava in casa nostra le rare volte che i miei genitori discutevano. Era una guerra fredda fatta dei silenzi e degli sguardi rannuvolati di mio padre, dei rimproveri che lanciava a mia madre incespicando sulle parole (ogni tanto, papà balbettava, ma era una cosa che in famiglia sceglievamo di ignorare). A quello, preferivo mille volte ripulire il piatto fino all’ultima briciola e sentire poi i sospiri del loro rappacificarsi infilarsi nei muri della mia camera.
Come può una serata che inizia con un polpettone finire in tragedia? Sembra un colpo di scena poco credibile, nella storia della famiglia Stent: una sorella che abbandona qualsiasi cosa stesse facendo – un libro, la televisione, i compiti – e si alza per andare a cercare l’altra che però è sparita, magia!
“Ti cerco sotto al letto, ti cerco nell’armadio, ma tu non ci sei. Lo so già prima di sollevare la coperta, prima di aprire l’anta, so con un sesto senso che mi fa drizzare i peli sulla nuca, con un terzo occhio non voluto, che sei scomparsa. Oh, Jill, tu e i tuoi numeri da prestigiatore.”
Mi arrabbiai, sì, mi arrabbiai con mia sorella, convinta che volesse farmi l’ennesimo scherzo, anzi, no: che se ne fosse andata in giro con il suo misterioso fidanzato e si fosse semplicemente dimenticata di noi. Mi sforzai di non pensare a chi avrebbe potuto essere quel fidanzato. La immaginavo aprire la porta in ritardo, il collo appena colorato di rosa là dove una bocca insistente l’aveva baciata per ore, per sfidare imperterrita la rabbia e le punizioni di papà. Potevo sentire le sue giustificazioni ridicole, e poi gli strilli che avrebbe lanciato, a cercare di avere ragione con i decibel se non riusciva ad averne con gli argomenti. Diedi uno sguardo seccato all’orologio: non ce l’avrei mai fatta a vedere il mio programma preferito, dovevo rassegnarmi. Mia sorella aveva deciso di rovinare l’intera serata.
Scesi di sotto, saltando un gradino alla volta con un tonfo. «Non c’è.»
Mia madre si stava slacciando il grembiule. «Che cosa?»
«Jill non è in casa. Non so dove sia.»
Mi guardò preoccupata. «Tuo padre tornerà a momenti.»
Feci spallucce. Non era affar mio tenere traccia di dove fosse Jill. Era lei, la maggiore. Mamma prese il telefono e fece un giro delle amiche di mia sorella, per sapere se era da loro e se potevano dirle che l’aspettavamo per cena. Nessuna, però, l’aveva vista. Era in ritardo di almeno un’ora sul nostro coprifuoco.
Decidemmo di aspettarla in salotto. Cominciai a grattare con l’unghia il cuscino del divano, cercando una melodia in accordo con quello che mi si agitava dentro, finché mamma non mi disse di smetterla. Teneva il dito tra due pagine del romanzo che stava leggendo in quel periodo, ma lo sguardo scappava via e correva sempre all’orologio. Sapevo che stava pensando a come evitare che mio padre se la prendesse con Jill.
Si alzò di scatto quando lo sentì girare la chiave nella serratura, e corse a spiegargli che cos’era successo. Sentivo le loro voci agitate nell’ingresso, ma non riuscivo a cogliere le parole. Papà entrò in salotto e mi puntò contro un dito, come se fosse tutta colpa mia: «Tua sorella è nei guai». Mi rannicchiai sul divano.
«Forse le è successo qualcosa» provò a dire mia madre.
Una risata fu l’unica risposta che ottenne. «Mettiamoci a tavola.»
Passarono le ore. Prima una, poi due, poi improvvisamente si fece notte. Nessuno venne a dirmi di andare a letto. I miei si alternavano tra il telefono e la veranda, sperando di vedere Jill che arrivava da lontano. Papà aveva anche fatto un giro con la macchina per il quartiere, senza risultato. Ogni tanto, mamma si chiudeva in bagno: avevo appoggiato l’orecchio alla porta, e l’avevo sentita singhiozzare così forte che temevo che il petto le si sarebbe spaccato in due.
Il panico era un uccello che svolazzava per casa nostra sbattendo le ali contro le pareti. Non riuscivamo a catturarlo. Doveva essersi infilato attraverso qualche finestra, e ci stava soffocando. Nessuno di noi ne era immune, nemmeno mio padre. Lo vedevo torturarsi un dente con le dita, affondare la punta di un canino nel pollice: era la prima volta che non sapeva che cosa fare, e mi fece paura.
La polizia non venne subito: dicevano che servivano almeno ventiquattr’ore perché si potesse ufficializzare la scomparsa di mia sorella. Nemmeno le urla di papà attraverso la cornetta servirono a qualcosa. Pensavano che Jill avesse avuto un litigio in famiglia, e che fosse scappata per vendicarsi: le sarebbe passata in fretta. Oppure la credevano una banale adolescente in preda agli ormoni, rimasta fuori tutta la notte per la prima volta con il suo ragazzo. Anche in quel caso, sarebbe tornata, dovevamo solo stare tranquilli. Immaginavamo i poliziotti, su di giri per i troppi caffè del turno di notte, che sghignazzavano tra loro, facendo battute sconce su mia sorella e sull’adolescente brufoloso che sicuramente l’aveva convinta a restare con lui. Non avevano idea di quanto si stessero sbagliando.
«Non è una poco di buono» sussurrò mia madre, rivolta a nessuno in particolare.
Mio padre le strinse la mano con quel suo modo speciale che le riservava, stritolandole le dita fino a che lei non le abbandonava tra le sue, inerti.
Venne l’alba: tornò il sole, ma Jill no.
I miei aspettarono pazientemente fino all’ora di pranzo e poi richiamarono in centrale. Questa volta gli agenti arrivarono subito.
23
Ad aspettarmi al museo c’era un piccolo capannello di colleghi, saltellavano da un piede all’altro come tante gru nervose in attesa del temporale. Quando mi sono chiusa il portone alle spalle, si sono girati tutti a guardarmi, pronti a volarsene via.
«Che succede? Oggi si sciopera?» ho chiesto.
Qualcuno ha lanciato un risolino, nessuno mi ha risposto. Si è fatta avanti solo la stagista, quella con gli occhiali a fondo di bottiglia che arriva dall’università e speriamo tutti se ne vada il prima possibile. Aveva il volto stravolto dall’eccitazione, come se fosse il giorno più bello della sua vita. «La polizia! C’è la polizia!» ha gracchiato.
«Che cosa hai detto?» Non volevo aggredirla, ma la voce mi è uscita con la forza di un ruggito, e le gru hanno tremato. Per un attimo, ho pensato che fossero venuti per me, per dirmi che avevano finalmente scoperto l’assassino di mia sorella. O forse, come in una premonizione, per punirmi (“di che cosa? Perché mai dovrebbero farlo?”). Sono sbiancata, ho sentito ogni goccia di sangue venire risucchiata di colpo verso i piedi. La stagista ha chiuso la bocca e ha fatto un passo indietro, timorosa.
Però c’era S. Sempre sollecito e ansioso di compiacermi, si è affrettato a rassicurarmi. «Non è successo niente, Mia. Sono solo venuti a farci qualche domanda, adesso stanno parlando con il direttore.»
«A noi? E come mai?»
«Per via di quella ragazzina che hanno ucciso qui di fronte. Vogliono interrogare chi era di turno domenica, sperano che possa aver visto qualcosa.» Mi ha fatto un sorriso mesto, come se si sentisse in colpa. «C’eravamo anche noi, ti ricordi? Gli altri li hanno già sentiti, credo che tra poco ci verranno a chiamare.»
«Ma io non ho visto niente» ho sbottato, sulla difensiva. I palmi delle mani mi si sono bagnati all’improvviso: al centro di ognuno, si era aperta una fontanella di sudore.
«Io nemmeno, figurati. Però ci tocca lo stesso.» S. ha sollevato lo sguardo oltre la mia spalla. «Eccolo che arriva.»
Il direttore a...