Mosquitoland
eBook - ePub

Mosquitoland

  1. 416 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Mosquitoland

Informazioni su questo libro

All'indomani dell'inaspettato sfasciarsi della sua famiglia, Mim viene trascinata via dalla cittadina in cui è nata e costretta a trasferirsi dal padre e dalla sua nuova, freschissima moglie, lontano mille chilometri. Prima ancora però che la polvere abbia il tempo di posarsi, Mim scopre che la madre, rimasta a Cleveland, è ricoverata in ospedale, e riempito in fretta uno zaino, scappa di casa e salta su un autobus per correre in soccorso dell'unica persona che abbia mai capito - e adorato - i suoi tanti bordi affilati. È l'inizio di una strana, imprevista odissea, che porterà Mim a sedersi accanto a compagni di viaggio diversi, alcuni luminosi, altri molto, molto oscuri. E attraverso di loro, come in uno specchio Mim ripercorrerà gli ultimi anni, le malinconie che li hanno accompagnati, e i demoni segreti di cui è rimasta imprigionata. Per finalmente affrontare la verità che ha sempre avuto sotto gli occhi, e non ha mai voluto vedere.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817094245
eBook ISBN
9788858693681

INDEPENDENCE, KENTUCKY

(448 chilometri alla meta)

14

Marachelle grammaticali

«Quante palline?»
Osservo le decine di gusti nella vetrinetta. «Quante posso prenderne?»
«Mmm. Quante ne vuoi.»
«Ah, okay. Dunque» guardo il nome sulla targhetta «Glenda. Se ne prendessi quante ne voglio, morirei. Dico in senso letterale. E poi, non me la sento di battere dei record in questa specialità. Quindi... finora quante palline ti hanno chiesto al massimo?»
Glenda sospira. «Sette.»
Jackpot.
Anche se a Cincinnati mancheranno tipo venti minuti, il nostro autista (di cui ho già dimenticato il nome, ma giuro che è l’esatto contrario di Carl) ha insistito per fare una pausa torta. Ha preso il microfono e ha detto che al Jane’s Diner facevano la miglior torta da questa parte del Grande Mississippi e che si sarebbe dato del cretino da solo se fosse passato lì vicino senza mangiarne una fetta; poi ha concluso che, se volevamo farci del bene, avremmo dovuto anche noi mangiarne una fetta e che alla fine l’avremmo di sicuro ringraziato.
Ovviamente io ho deciso che non avrei mai più mangiato torta in vita mia. Per fortuna, di fronte al Jane’s Diner c’era questo negozietto chiamato – non sto scherzando – L’Imperdibile Bancarella delle Mucche da Latte Fenomenali. Non ho saputo resistergli. (E poi, perché mai avrei dovuto resistergli?)
Glenda mette le palline, io pago, e l’istante dopo ho il mio bel cono doppio cioccolato-espresso-scaglie di cioccolato-lampone-menta-caramello-limone e sono la ragazza più felice da questa parte del Pacifico.
Nel parcheggio del Jane’s Diner c’è un’auto della polizia con i lampeggianti accesi. Trambusto particolare non sembra essercene, ma un poliziotto sta facendo una severa ramanzina a qualcuno seduto nel sedile dietro.
Mi appoggio al pullman e osservo i miei compagni di viaggio attraverso le vetrine del Jane’s Diner. Il locale è in realtà una roulotte senza ruote.
Io certe cose proprio non le capisco. Togliere le ruote da un veicolo per trasformarlo in un locale è come comprare un letto e poi usare il legno per farne una sedia. Ma non è questa la cosa che mi infastidisce di più del Jane’s Diner. Mi infastidisce molto di più l’insegna sulla porta.
“ENTRATE”, SIAMO APERTI
Do una leccata al gelato e ridacchio. La gente proprio non riesce a controllarsi in fatto di virgolette. Questo particolare segno di punteggiatura sembra paralizzarla. Capisco che ci sono problemi maggiori, ma ormai è diventato un marchio diffusissimo di stupidità facilmente evitabile.
Cerco Poncho Man, ma non lo vedo. Non importa. Tra meno di un’ora gli dirò comunque adiós.
«Già lo sapevo, Purje. Non mi ascolti.»
Una coppia, con cappelli da cowboy identici, sta uscendo dal Jane’s Diner. Parlano a un volume pazzesco e con un accento quasi incomprensibile.
«Lo so, cara, ma se non ci riusciamo nemmeno qui a Independence, figurati da altre parti...»
L’acido del gelato al limone mi fa tossire.
«Ahhhh, smettila, Purje, chiudi il becco e stammi per un attimo a sentire.»
«Scusate» li interrompo. «Avete detto Independence?»
Mi guardano come se dovessero spararmi da un momento all’altro. Una presa di tabacco vola fuori dalla bocca dell’uomo e passa rasente al mio prezioso cono gelato.
Enchanté, Purje.
«E allora? Anche se l’avessimo detto?»
Oh mio Dio, l’hanno detto. Sono qui. Nella patria di Achab, il nipote di Arlene, il promettente nuotatore diventato magnate delle stazioni di servizio. Dall’altra parte del ponte sull’autostrada ci sono almeno quattro distributori di benzina; potrebbe essere uno di quelli.
«Senti» dice Purje. «Questa è una delle grandi città di frontiera di tutta l’Ammeriga. Piuttosto di sentire te che denigri Independence, bacerei il culo a una scimmia.»
Per un attimo rifletto sul fatto che quest’uomo non sa pronunciare bene nemmeno la parola “America” però conosce il significato del verbo “denigrare”. La donna infila la mano destra nella tasca del giubbotto e mi si mozza il fiato. Ma invece di una pistola tira fuori una fiaschetta, si fa una lunga sorsata e la passa a Purje.
«Ma certo che no, signore. Non lo farei mai. Independence mi sembra una cittadina molto affascinante. Solo che...»
La Terra della Libertà.
«Solo che...?» dice Purje guardandomi dritto negli occhi.
Seduta nel relativo comfort del mio posto sul pullman, la decisione di mollare tutto non era stata per niente difficile da prendere, e la prospettiva di andare a Cleveland in autostop mi era sembrata soltanto una grande avventura. Ma ora che ho toccato con mano il Kentucky rurale, alcune implicazioni del mio piano mi sprofondano nello stomaco, più pesanti di un mattone.
«Che problemi ha, ’sta tizia?» sussurra la donna.
Purje scuote il capo.
Butto per terra quel che resta del cono e marcio verso la porta del pullman. «Grazie, gentilissimi.»
Salgo i gradini e ripenso ad Arlene, una grande dame d’altri tempi, maestra dell’eleganza geriatrica, amica. Stava aggrappata alla sua scatola di legno come se da quella dipendesse la sua preziosa vita. E la sua era una vita davvero preziosa. Ora ho l’opportunità di consegnare la scatola, di portare a termine il suo lavoro, di rendere onore alla sua preziosa vita.
Ho la possibilità di raggiungere l’Obiettivo di Arlene.
E Dio mi strafulmini se non lo farò.
Prendo lo zaino dalla cappelliera e risalgo il corridoio del pullman. Sto ormai per scendere, quando una voce mi blocca.
«Scappi?»
Mi volto: 17C (cuore mio, calmati) è in ginocchio su un sedile in fondo al pullman. Ha di nuovo la macchina fotografica appoggiata al finestrino: devo averlo interrotto mentre scattava le sue foto.
«Cosa?» sussurro, chiedendomi come mi sia venuto in mente di tagliarmi i capelli.
«Ti chiedevo se stavi scappando.»
Torno indietro e mi scosto la frangia dagli occhi. È una domanda semplice che richiede una risposta altrettanto semplice, ma al momento ho la lingua incollata al palato. Sento il bisogno urgente di una rinoplastica e mi prudono le ascelle, vorrà mica dire che... al diavolo!
Contegno, Malone.
Annuisco e sorrido e lui annuisce e fa un mezzo sorriso, e oh mio Dio, se questo è solo mezzo sorriso, non riesco a immaginarmi come sarà quello completo. Prima non l’avevo notato, ma ha un occhio nero. Ciononostante, il verde dei suoi occhi è caldo, brillante, indimenticabile. Ha le sopracciglia folte. Non cespugliose, solo folte, come se fossero state disegnate con la parte larga del pennarello.
«Be’, buona fortuna, allora.»
L’auto della polizia che ho visto prima è proprio sotto di lui. 17C segue il mio sguardo, arrossisce e rimette il copriobiettivo alla macchina fotografica.
«Già» dico piano. «Buona fortuna anche a te.»
Si siede al suo posto, chiude gli occhi e mormora: «Grazie». Poi, quasi in un sussurro: «Mi sa che ne avrò bisogno.»
Nel film della mia vita ci sono scene e dialoghi, più che esperienze e discussioni. Invece degli amici, c’è un cast; invece dei luoghi, un set. In questo momento, decisamente un momento da film, io batterei le palpebre al rallentatore. La camera zoomerebbe sui miei occhi che stanno divorando l’enigmatico 17C. Gli spettatori seguono la scena in meravigliato silenzio; un misto di speranza, tristezza e malinconico desiderio si agita nelle loro pance. Ahimè, la ragazza se ne va, e il ragazzo resta lì: è da sempre così, e così per sempre sarà. Non è verosimile che le loro strade si incrocino di nuovo, la trama risulterebbe poco credibile. Però credo che dipenda tutto da cosa si intende per “credibile”.
Da mille metaforiche miglia, mi risuona nelle orecchie una voce cara che dice: «Non puoi nemmeno immaginare a quante cose credo, ormai».
Scendo dal pullman sentendomi la reincarnazione di Arlene e della sua fede (e con la sua scatola di legno infilata nello zaino). Più di tutto, vorrei essere con la mamma. Qualsiasi malattia le abbiano trovato, è di me che ha un disperato bisogno, lo so. Ma tutti i miei film preferiti hanno una cosa in comune: un momento preciso in cui si capisce che il regista attraverso i suoi personaggi sta raccontando la sua storia. Sono momenti belli, intensi e purtroppo rari.
Non so che cosa contenga la scatola, ma io faccio parte della sua storia, come lei è parte della mia.
Riattraverso la strada e ripenso al ruolo di 17C nel mio film. Non è facile che i nostri due personaggi si rincontrino. Ma non lo darei ancora per scontato. Perché non c’è niente che mi dia più fastidio di un finale prevedibile.

15

Atteggiamento del cavolo

«Vuoi l’ottava pallina?»
Sorrido, ma a chi la voglio raccontare. «Bella questa, Glenda. Scherzi a parte, tutto bene dall’ultima volta che ci siamo viste?» Tutto bene dall’ultima volta che ci siamo viste? Il mio problema è che non so mai che cosa dire alla gente. Mi schiarisco la voce e continuo: «Mi chiedevo se potevi aiutarmi a trovare una stazione di servizio gestita da un tizio che si chiama Achab».
Glenda si abbassa sotto il bancone e riappare con un cucchiaio in mano.
«So che è una domanda strana» aggiungo. «Ma è importante.»
Affonda il cucchiaio in una vaschetta di gelato al gusto biscotto e ne estrae una pallina bella grande. “Gliene do ancora una” penso che stia pensando. E invece no, scopro, perché comincia a mangiarsi il gelato con trasporto orgasmico.
So che non dovrei, ma non mi trattengo: «Buono, eh?».
Glenda schiocca le labbra. «Non conosco nessuno che si chiami così, tranne che in Moby Dick.»
Con la mente, mi vedo scavalcare la vaschetta di biscotto, per poi afferrare Glenda per le doppie punte e ficcarle la testa dentro il gelato. Potrebbe diventare la mia specialità, il marchio di fabbrica che mi regalerebbe la fama: la “Torsione Mim”. Ma guardando Glenda con la sua aria di superiorità, decido invece di ucciderla con la gentilezza. Traccio nell’aria due virgolette per racchiudervi le due parole che sto per pronunciare: «Grazie, Glenda».
L’Imperdibile Bancarella delle Mucche da Latte Fenomenali non è lontana dalle quattro stazioni di servizio. Sono tutte ammassate dall’altra parte del ponte. Ora bisogna sperare di trovare Achab. Afferro lo zaino e attraverso il ponte. A ogni macchina che gli passa sotto, la struttura ondeggia e immagino il terreno che si apre sotto i miei piedi, il ponte che crolla e mi fa cadere sull’autostrada sottostante, un blocco di cemento che mi spacca la testa, una mostruosa nuvola di detriti come nei filmati dell’Undici Settembre...
Ma smettila, Malone.
Devo tirarmi su di morale, fare tutto quello che le persone felici fanno quando sono felici.
Provo a fischiettare.
Nick Drake.
Ma come si fa a fischiettare Nick Drake? È impossibile. Sarebbe come ballare il tip tap sulla colonna sonora dello Squalo. Ma a pensarci bene, forse è per questo che sono da sempre convinta che io e Nick saremmo andati d’accordo. Scommetto che non sopportava quelli che spargono buonumore dappertutto. (Riposa in pace, Nick. Riposa in pace.) Faccio il ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. JACKSON, MISSISSIPPI. (1524 chilometri alla meta)
  4. YALOBUSHA COUNTY, MISSISSIPPI. (1316 chilometri alla meta)
  5. NASHVILLE, TENNESSEE. (846 chilometri alla meta)
  6. INDEPENDENCE, KENTUCKY. (448 chilometri alla meta)
  7. CINCINNATI, OHIO. (400 chilometri alla meta)
  8. ASHLAND, OHIO. (98 chilometri alla meta)
  9. CLEVELAND, OHIO. (1524 chilometri da Mosquitoland)
  10. Ringraziamenti