
- 272 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Capriole sotto il temporale
Informazioni su questo libro
Wilhelmina ha una vita libera e felice in Zimbabwe. Con il suo cavallo Shumba e il migliore amico Simon percorre spesso l'immensa distesa del bush. Non va a scuola, mangia con le mani e in tasca ha sempre una fionda. La sua vita cambia all'improvviso quando è costretta a trasferirsi nella fredda Inghilterra: un mondo ostile, dove Will è soltanto una selvaggia da addomesticare. Ma è possibile cambiare se questo significa tradire sé stessi e le proprie radici? Una protagonista forte e fuori dagli schemi per il primo romanzo di Katherine Rundell.
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Informazioni
Print ISBN
9788817098403eBook ISBN
9788858692813
Wilhelmina sapeva che in alcune case c’erano vetri a tutte le finestre e lucchetti alle porte.
La fattoria dove abitava, però, non era fatta così. Se anche esisteva una chiave per la porta d’ingresso, Wilhelmina non l’aveva mai vista: dovevano essersela mangiata le capre che entravano e uscivano dalla cucina. La casa era in fondo a una lunghissima strada di campagna, nell’angolo più caldo dello Zimbabwe. La finestra della sua camera da letto era un’apertura quadrata nel muro. Durante il periodo delle piogge, Wilhelmina cuciva tra loro i sacchetti di plastica formando una protezione da fissare alla cornice della finestra. Nella stagione secca entrava la polvere.
Anni prima un ospite della fattoria aveva chiesto a Will di quella finestra.
«Tuo padre potrà permettersi una lastra di vetro, no?»
«Mi piace essere un po’ impolverata» aveva risposto lei «e anche bagnata.» Polvere e pioggia volevano dire fango. Il fango era pieno di possibilità.
Le strade di campagna erano brulle e rosse di polvere che si posava a terra. Le percorreva ogni giorno a piedi il capitano Browne, proprietario della fattoria; le attraversava in macchina William Silver, il fattore; e ci andava a cavallo Wilhelmina, l’unica figlia di William.
Wilhelmina andava a cavallo meglio di qualsiasi ragazzo della fattoria, perché suo padre pensava che imparare a cavalcare prima di camminare è come bere Coca-Cola da una bottiglia di vetro sott’acqua, o dondolarsi da un baobab appesi a testa in giù per le ginocchia: spiazzante e intenso. Così Wilhelmina era cresciuta correndo appesa alle pance dei cavalli, inciampando nel loro letame e tirandosi le lunghe ciocche di capelli scuri a ogni puntura di tafano. I giovani stallieri che abitavano in case con i tetti di lamiera nel quartiere dei lavoratori non piangevano mai per i tafani – a volte, nel loro modo allegro e senza fretta, imprecavano in shona – Ach, booraguma – e Wilhelmina era certa di essere uguale a loro. Anche quando andava a piedi, era più veloce della maggior parte dei ragazzi della sua età. Ed era tante altre cose; quando gli uomini della fattoria parlavano di lei la sera, usavano un sacco di “e”: Will era esasperante, sha, e testarda e selvaggia e onesta e sincera.
Un luminoso mattino di fine ottobre, Will si era accovacciata sul pavimento a mescolare acqua e alcol denaturato in una pentola. L’alcol denaturato serviva a indurire le piante dei piedi e le trasformava in scarpe. In quell’arioso salotto si trovavano sei sedie assortite, ma Will preferiva il pavimento. C’era più spazio. Lei aveva gli occhi distanti l’uno dall’altro, e anche le dita dei piedi; in generale, Will amava lo spazio. Teneva distanti anche le parole: aveva la parlata lenta dei pomeriggi africani, intercalata da piacevoli silenzi.
Will udì lo scalpiccio degli zoccoli e un nitrito affamato. Significava che William Silver era tornato dalla sua galoppata mattutina in giro per la fattoria. Tutti in quella regione dello Zimbabwe si alzavano presto. La maggior parte del lavoro andava concluso entro l’ora di pranzo, e ottobre era il mese più caldo. Le strade si scioglievano in un brodo di catrame e gli uccelli ci s’impantanavano.
La porta del soggiorno si aprì e un volto barbuto si affacciò alla soglia. Will aveva sentito la porta che si apriva ancora prima di vederlo: che felicità, papà era tornato. Will balzò in piedi, tutta energia e velocità, e si gettò tra le sue braccia, cingendogli i fianchi con le gambe e urlando: «Papà!».
«Buongiorno! Buongiorno, Saltarupe.»
Will affondò il viso nel collo del padre. «Buongiorno, papà» disse con voce soffocata. Davanti alla maggior parte degli uomini Will s’irrigidiva. Per metà la incantavano e per metà la spaventavano, così cercava di mantenersi sempre a qualche passo di distanza. Odiava stringere le mani sconosciute degli estranei; ma papà, con la sua morbidezza muscolosa, era diverso.
«Pensavo che fossi già partita, sai?» disse William.
«Ja, ja, adesso vado. Ma prima volevo vedere la tua faccia, papà. Mi mancavi.» Quella notte Will era rimasta nella casa sull’albero, e quando suo padre era rientrato lei dormiva già, immersa nella vastità dell’aria notturna. Potevano passare giorni senza vedersi, e così, quando si ritrovavano, le sembrava che la felicità fosse ancora più intensa e pungente. «Adesso posso andare, ja» disse scivolando via. «Non ho ancora dato da mangiare a Shumba e Simon mi sta aspettando.» Sulla soglia, si voltò: voleva dire qualcosa come “Ti voglio bene. Accidenti quanto ti voglio bene”.
«Faranuka, papà!» Faranuka. Will parlava bene la lingua shona, e “faranuka” in shona vuol dire “sii felice”.
Simon, in effetti, stava aspettando. Era il migliore amico di Will e tutto il contrario di lei: un ragazzo nero, alto e aggraziato, mentre Will era bianca, spigolosa e mingherlina. Il loro non era stato amore a prima vista. Quando Simon era arrivato alla fattoria per imparare il lavoro, Will gli aveva scoccato una rapida occhiata, e con la sicurezza dei suoi sei anni aveva annunciato che no, non le piaceva. Era così delicato. Forse per colpa dei grandi occhi da galagone, teneri e fiduciosi, due specchi d’acqua con una scorta di lacrime sempre pronte a scivolare fuori dalle buffe ciglia ricurve.
Non ci volle molto, però, perché Will capisse che Simon era la prova vivente, splendida e lampante, di quanto le apparenze ingannino. Scoprì che Simon, in realtà, era una fionda tesa, il flagello delle stalle, con una risata incredibilmente profonda per la sua età, e braccia e gambe che urtavano e rompevano qualsiasi piatto o tazza gli capitasse a tiro. Il fatto che non gli piacesse lavarsi nella tinozza di latta e che invece amasse molto rotolarsi e sguazzare nel fango dello Zimbabwe si traduceva in un odore inconfondibile. Will, quando era piccola, diceva che era odore di polvere, carne salata e linfa degli alberi.
Per Simon, invece, Will odorava di linfa e terra e menta.
Avevano in comune aspetti così essenziali – la linfa, ovviamente, ma anche gli occhi grandi e gli arti scoordinati – che prima dei sette anni si erano quasi-innamorati, e dopo altri sette anni erano ormai amici per sempre, del genere più saldo e indivisibile.
Era stato Simon, nel tratto di strada che separava la casa dalle stalle, a insegnare a Will come portare il cavallo al galoppo, gridando: «Ya, ehi-ya! Dai, pigrone!». Le aveva anche insegnato a cavalcare appesa a testa in giù al collo del cavallo, con i capelli che si ricoprivano di polvere e le guance che le cascavano sugli occhi.
Imparavano ogni giorno qualche parola. Lui studiava l’inglese nasale dello Zimbabwe e lei – con la lingua in fuori per la concentrazione – le basi dello shona chikorekore. Will mostrò a Simon come nuotare sott’acqua per interi minuti. Il trucco era inspirare lentamente: non di colpo, ma piano, tenendo le labbra strette come per succhiare da una cannuccia. Negli anni trascorsi a correre scalza nei campi, i piedi di Will erano diventati marrone scuro e si erano induriti; e le narici erano sempre sporche.
Da dicembre Simon viveva con suo fratello Tedias nel quartiere dei lavoratori, un gruppo di capanne di fango e focolari ai confini con la Fattoria Due Alberi. Il nome, aveva detto il capitano Browne mentre si rollava una sigaretta con le dita verdi di tabacco, sembrava una battuta, perché c’erano centinaia di alberi sulla collina dove sorgeva la fattoria, abbastanza da nascondere la collina stessa. In realtà, diceva, il nome giusto sarebbe stato Fattoria Solo Alberi. O magari Fattoria Alberi Alberi Alberi Alberi. Molto divertente, capitano Browne.
Naturalmente c’erano anche spiazzi di erba marrone, calura luccicante e formicai, ed era proprio lì che stava correndo Will quel giorno, saltellando e dandosi dei calcetti sul sedere con i piedi. Non appena fu a tiro di voce dalla casa di mattoni d’argilla in cui abitava Simon, gridò il migliore richiamo shona di cui era capace.
«Ee-Weh!» A tiro di voce, da quelle parti, voleva dire almeno un campo più in là che in qualsiasi altro posto del mondo, perché l’aria era immobile e non passavano macchine, tranne qualche furgone; un piccolo rumore poteva superare gloriose distanze. «Simon! Simon! Ci sei, Si?»
Simon si rovistava nel naso con le dita in maniera quasi deliberata. Era seduto fuori dalla baracca, appena sotto l’ombra del tetto di paglia marrone, a bere una Coca-Cola da una bottiglia di vetro. Tedias gli diede un colpetto con la punta del piede per attirare la sua attenzione. Parlò in shona: «Uchaenda. Sveglia, ragazzo. Va’ con la tua piccola madama».
“Piccola madama” era un vecchio scherzo. L’altezzoso e petulante “madama”, che si addiceva alle mogli dei fattori, non poteva essere più estraneo ai modi dorati di Will.
Simon lanciò un sasso frustrato ai piedi dell’amica. «Will!» esclamò, imbronciato. «Dov’eri finita? Pensavo che non saresti più arrivata. Sei proprio una pigrona, sai?» Non era vero, ma lo disse lo stesso. «Sembri un bruco senza zampe. Stavo per andarmene senza di te, mattana.» “Mattana” era la variante inventata da Simon per “madama”. Trovavano tutti e due che fosse più vicino alla realtà.
«Oh, mi dispiace; mi dispiace. Dico davvero, Si. Scusa-scusa.» Will non offrì spiegazioni.
Guardò invece Tedias a cui voleva molto bene. Era un eroe: grande, pieno di cicatrici e spesso chiuso in un riposante silenzio. Will strizzò gli occhi per la luce del sole, che a quell’ora picchiava forte nell’azzurro sconfinato del cielo.
«Mangwanani, Tedias.» Fece la riverenza, di solito riservata agli ospiti del capitano. “Mangwanani” voleva dire “buongiorno”. Il suo Simon non aveva bisogno di saluti ufficiali, ma Tedias, così grande e lento, a petto nudo, sempre gentile con i cani, meritava rispetto.
«Mangwanani, Will-che-salta.» Gli uomini della fattoria, a volte, la chiamavano così. Suo padre, prendendo spunto da quel soprannome, aveva cominciato a chiamarla Saltarupe, come le piccole antilopi delle zone rocciose. «Marara sei, Will-che-salta? Hai dormito?»
C’era una risposta formale a quella domanda, ma Will, con suo enorme fastidio, si rese conto di averla dimenticata. La lingua shona era piena di formalità che non aveva ancora imparato, e al pensiero fremette; c’era così tanto da sapere, infinite sfumature nascoste, dettagli che lei non sapeva nemmeno di non sapere, e ne era consapevole. Rispose: «Ndarara… ah… ndarara kana mararawo». Ho dormito bene se hai dormito bene anche tu.
Tedias annuì, forse in segno di approvazione (ma era difficile dirlo con assoluta certezza, pensò Will, fissando il sorriso lento e malinconico dell’uomo: l’incertezza era un fondamento della vita, l’unico di cui si poteva essere sicuri). «Ndarara, Will, certo» disse Tedias. «Ho dormito.»
Will si accorse che Simon cominciava a stancarsi delle formalità. Finì la sua Coca-Cola, ruttò, si pulì la bocca con il retro della mano e gettò via la bottiglia. Poi, prendendola a calci, si avviò sul sentiero. «Datti una mossa, mattana saltamatta di una Will.» Balzava all’indietro, toccando terra ogni volta che ripeteva la parola “mossa”. «Datti una mossa, datti una mossa.»
Ma Will, ferma al sole, non sorrideva per niente. Perché lei non prendeva ordini da nessuno. Si accucciò a terra, con l’espressione più offesa e orgogliosa di cui era capace, e cominciò a tracciare una W nella terra con un lungo rametto. Uno scarabeo risalì il bastoncino e si arrampicò sul braccio di Will, che rimase immobile a godersi il solletico delle zampe filiformi sulla pelle. L’insetto era di un verde intenso con riflessi blu e turchesi e zampe nere come la pece. Lo baciò con delicatezza. “Se la felicità avesse un colore, sarebbe il colore di questo scarabeo” pensò Will.
Will udì un fischio e sorrise: i fischi di Simon erano così perfetti che potevano esprimere un’intera gamma di emozioni: stupore, felicità, sincera ammirazione oppure “attento!”. In questo caso, voleva dire “Sto aspettando”. Con un pizzico di “Ho fame!”. Avevano in programma un rapido assalto all’albero di mango e un picnic alla pozza tra le rocce: era il momento di andare, Will lo sapeva.
Ma era difficile imporsi a se stessa perché le cose piccole – le libellule, le forbicine, i pezzi di corteccia caduti dai bastoni, la pioggia tiepida, quei meravigliosi riccioli dietro le orecchie dei cani – avevano uno strano modo di cancellare il tempo. Si era chiesta spesso se capitava anche agli altri, ma non era mai riuscita a spiegare a nessuno quell’intensa sensazione di pienezza.
Simon fischiò di nuovo. Questa volta faceva sul serio, Will lo capì subito. Si alzò, montò su un cavallo immaginario – gridando un rauco «Yagh! Yah!» – e superò Simon di corsa. Will era veloce, e ne era orgogliosa. Sfrecciava piegata in avanti, con la pelle abbronzata che si stagliava contro l’azzurro-bianco del cielo e il verde-giallo dell’erba. «Ti sfido, Si!» gridò; ma non disse qual era il traguardo.
Simon si lanciò dietro di lei. Era impossibile raggiungerla quando era di quell’umore, come un incendio nei boschi, contagiosa e allo stesso tempo esasperante. Poteva correre per chilometri e chilometri e chilometri.
Mentre spingeva le sue lunghe gambe all’inseguimento, Simon gridava: «Guardate la mattana! Guardate la polvere che solleva! Oh, povero il nostro fattore: la sua bambina è impazzita!».

Simon camminava nel vlei, trascinando un bastone nella polvere. Will era scomparsa il giorno prima senza avvisare. Nel bel mezzo di una corsa a cavallo particolarmente esaltante, aveva cambiato direzione, era saltata oltre una catasta di legna per il fuoco, e via lontano. Essere suo amico comportava questo rischio: poteva abbandonarti per ore, giorni – una volta, persino una settimana – e dovevi attendere il suo ritorno, mentre lei vagava per il bush, cantando sottovoce, mangiando frutta, raccontando storie alle piante di aloe e agli uccelli. Era strana, non c’era nulla da fare. Ma Simon si stava annoiando, si annoiava a morte. Esercitarsi a fare le rondate senza di lei non era divertente, e nemmeno pedinare i lavoratori nei campi; e non c’era nessun altro con cui rubare le banane dal giardino dietro la cucina. Simon diede un calcio a uno scarabeo stercorario lungo il sentiero. Sospirò, diede un altro calcio, e sospirò di nuovo.
Fu in quel momento che la giornata andò in pezzi. Un grido risuonò per il vlei; gli uccelli si levarono dagli alberi con un frastuono spaventato di strepiti e ali che sbattono. Il grido si udì ancora una volta; era un suono agonizzante e inumano, che martellò l’aria immobile e colpì Simon facendogli venire la pelle d’oca; eppure non era un codardo. Scattò verso il suono, correndo forte con lunghe falcate, scavalcò le macchie d’erba, sentì una spina entrargli nel piede, s...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- 1
- 2
- 3
- 4
- 5
- 6
- 7
- 8
- 9
- 10
- 11
- 12
- 13
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- Glossario