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L’inizio del nostro viaggio
All’interno della Bolla Locale, nel bel mezzo della Cintura di Gould, sul bordo più interno del Braccio di Orione. Qui inizia la nostra storia.
È una vicenda piuttosto originale e lo è per vari motivi: prima di tutto, il nostro protagonista non possiede una dimensione, non ha una forma e nemmeno una massa. Non ha neanche un padre e una madre, visto che è stato generato da un’esplosione. Il calore che si sprigiona per dargli vita è talmente elevato che deborda dalla sua stella e viene proiettato nello spazio siderale alla velocità massima consentita in questo universo. La maggior parte dei suoi simili si perde nello spazio infinito: alcuni vengono assorbiti da qualche asteroide o pianeta, mentre altri continuano a vagare senza meta, in un viaggio eterno privo di senso.
La sua vicenda, fortunatamente, è diversa: dopo aver percorso 149 milioni di chilometri, riesce a rallentare drasticamente la sua velocità e viene accolto da creature e organismi che sono in grado di trasformarlo e di donargli un sapore dolcissimo – quello dello zucchero.
Da qui in poi, la sua strada non è più lineare, ma assume un andamento circolare e si ramifica in trame talmente complesse da risultare difficili da seguire e capire. Nascosto in questa forma, riesce a far volare le aquile nel cielo, permette ai pesci di sondare le profondità del mare, riesce ad animare una massa brulicante di vita che comprende anche l’andirivieni ansioso di tutti noi: gli esseri umani.
Il nostro protagonista è un raggio di sole, ed è partito per raggiungere la Terra 502 secondi fa.
Prima di accompagnarlo nel suo viaggio terrestre, vale la pena di spendere qualche parola sul luogo nel quale la sua trasformazione è possibile: il pianeta Terra. Rispetto al Sole, esso si trova in terza posizione dopo Mercurio e Venere, ed è avvolto da una membrana sottilissima composta da una miscela di gas. Sono queste le condizioni che permettono alla maggior parte dell’acqua, abbondante sul pianeta, di mantenersi allo stato liquido. Ed è proprio qui, nella massa liquida ricca di sali minerali, che tre miliardi di anni fa si è accesa la prima scintilla dell’avventura che andrò a narrarvi.
All’epoca l’atmosfera era decisamente diversa da quella attuale, perfino il colore del cielo non era azzurro come siamo abituati a vederlo, ma assomigliava a una cappa rossa e lugubre, sotto la quale le trame degli organismi iniziavano a srotolarsi: cellule primigenie trasformate in batteri, che si predavano vicendevolmente in mancanza di altre risorse.
A rompere questa noia sempre uguale a se stessa, a smuovere le acque e spaiare le carte in tavola, ci pensò proprio un raggio di sole – non il nostro, ma un suo antenato. Un raggio arcaico, la cui onda elettromagnetica viene catturata, all’improvviso, da un batterio, unico tra milioni, che per la prima volta riesce a convertire la sua energia in zucchero e a nutrirsene.
Questo batterio – che gli umani hanno chiamato “cianobatterio” – non ha bisogno di cacciare i suoi simili, perché è capace di crescere e proliferare solo grazie all’aria e alla luce. E così il circolo vizioso di predazioni tra batteri si spezza di colpo, liberando talmente tanta energia da rivoluzionare per sempre la vita sulla Terra. Le forme animate diventano via via sempre più complesse e si intrecciano indissolubilmente le une alle altre. L’aquila che sfida i cieli, lo squalo che scende nelle profondità abissali, l’andirivieni inquieto degli umani nel mondo sono la parte visibile di un iceberg profondo milioni di anni, la cui punta si trova proprio qui, oggi, 502 secondi fa, quando il nostro raggio si è staccato dal Sole per illuminare la Terra.
Quello che vede è un incessante brulichio di vita, che coinvolge ben 8,5 milioni di specie viventi. Alcune sono composte da pochissimi elementi (come, per esempio, l’insetto stecco dell’isola di Lord Howe, che vive su un piccolo scoglio nel mar di Tasman e conta una popolazione complessiva di 30 esemplari); altre invece sono talmente numerose da sfuggire a ogni stima numerica. È il caso delle formiche, che vivono dappertutto e sono tantissime: basta guardare un tronco d’albero per cogliere il loro andirivieni perso in qualche oscura attività. Oppure la gramigna, che ricopre i prati di tutto il mondo. Chi saprebbe dire quanti sono i fili d’erba che compone? E poi ci sono le api, i coleotteri e gli steli del grano, e altre (tantissime!) specie composte da miliardi di miliardi di individui. Da quel piccolo cianobatterio, la vita è esplosa fino a invadere letteralmente la Terra, trovando riparo al di sotto di una pellicola chiamata “biosfera”.
È questo il luogo dove si consuma l’avventura terrestre del nostro raggio di sole, perché è proprio qui che viene accolto per incominciare il lungo viaggio che lo aspetta.
A prima vista, tutto gli appare caotico e confuso; la massa enorme di organismi è pervasa da una sorta di febbre famelica che la porta a dimenarsi per l’intero pianeta. Guardando meglio, però, dalla superficiale confusione si inizia a scorgere un ordine e le trame caotiche si interconnettono, dando vita a un disegno complesso e affascinante.
Questo disegno è quello che comunemente chiamiamo il “cerchio della vita”. Nella nostra traversata lo percorreremo insieme al raggio di sole, e impareremo a osservare le cose da una prospettiva nuova e speciale.
Attenzione però, i fasci luminosi che colpiscono il pianeta sono miliardi di miliardi e ognuno illumina solo una piccola parte del cerchio della vita.
Il raggio di questo libro, tra le molteplici storie che corrono veloci sotto la biosfera, ne ha colpita solo una e ha iniziato a srotolarla per raccontarcela.
E, chissà perché, il filo narrativo non prevede il coinvolgimento dei grandi erbivori e neanche, se non marginalmente, degli animali domestici.
Il frammento di storia della vita rischiarata da questo specifico raggio di sole è minuscolo, apparentemente insignificante ma solo se lo si guarda da una prospettiva unicamente umana.
Ogni organismo vive in un suo ambiente distinto ed è abituato a osservare solo il frammento di natura che gli gira intorno, e che da una parte gli serve e dall’altra ha gli strumenti per codificare.
I raggi del sole sono invece democratici e illuminano tutto il grande popolo degli esseri viventi e questo particolare fascio è partito, 502 secondi fa, per raggiungere un mondo microscopico, che però può aiutarci ad allargare la nostra visione della vita.
2
Tra cielo e terra
Il primo anello del cerchio della vita è abitato da creature verdi, immobili e capaci di far girare come una trottola tutti gli altri: le piante.
Sono loro che afferrano i raggi di sole e li usano come nutrimento. In effetti, sono gli unici organismi che riescono a cibarsi interamente di aria (il piccolo cianobatterio di cui parlavamo nel capitolo 1 non è altro che il loro più illustre antenato) anche se la loro vita è profondamente legata al terreno, in cui affondano le radici. Sono creature speciali, sospese tra cielo e terra come dei messaggeri. Messaggeri di luce.
Una mano lava l’altra
Tra gli scogli dei mari poco profondi e limpidi di tutto il mondo, si aggira una piccola lumaca. A prima vista, sembra un gasteropode simile a tutti gli altri: ha un corpo molliccio, allungato e carnoso, formato da una struttura chiamata “piede” e con degli occhi posti all’estremità di due tentacoli. Questi tentacoli, come in tutte le lumache, sono invaginabili, cioè si possono ritrarre. Anche la sua alimentazione non ha nulla di strano: la Elysia – questo il suo nome – passa la prima parte della sua esistenza a brucare alghe. Il suo colore è, ovviamente, poco originale, un bruno grigiastro identico a quello di qualsiasi lumaca sparsa per il pianeta. Insomma, a prima vista questa Elysia non sembra molto interessante. Eppure, in realtà, è una creatura unica nel suo genere. Come certe persone, che sfoderano il loro fascino soltanto quando le conosci da un po’, la Elysia mostra la sua originalità gradatamente, pasto dopo pasto, quando il colore della sua livrea da bruno si fa sempre più chiaro, fino ad assumere un color verde brillante. E, come spesso accade, con il cambio di look cambia radicalmente anche il suo comportamento: da lumaca bramosa di alghe, la Elysia diventa una nullafacente. Si apposta su uno scoglio leggermente sommerso dalle acque e interrompe, di punto in bianco, qualsiasi movimento. Il suo corpo, nella totale immobilità, inizia a poco a poco a riempirsi di zucchero e a crescere, diventando sempre più grande.
Da dove proviene questo zucchero?
Dall’aria e dalla luce, ecco la risposta. Il processo capace di rendere un raggio di sole un elemento tangibile (e nutriente!) prende il nome di “fotosintesi clorofilliana”, e la lumaca Elysia è l’unico caso al mondo di animale fotosintetico, in grado di utilizzare la luce per ottenere zuccheri dolcissimi. Approfondendo la questione, si può notare che la nostra lumachina applica una sorta di digestione selettiva: nella prima fase della sua vita, quando si ciba ancora di alghe, riesce a conservare all’interno delle cellule un piccolo organello che si trova in tutti i vegetali, chiamato “cloroplasto”. Il cloroplasto, sede della fotosintesi clorofilliana, inizia a svolgere la propria funzione nel corpo dell’animale. Ecco perché la Elysia diventa verde, ed ecco perché rimane ferma. Essa capta i raggi del sole e li trasforma in cibo, proprio come una piantina.
Se la fotosintesi è rarissima nel mondo animale, essa rappresenta la norma in quello vegetale: tutte le piante sono capaci di usare la luce per la propria alimentazione (anche se il cerchio della vita è così ampio che esiste qualche sporadica eccezione). Il suo aspetto rivoluzionario è duplice: consente di trasformare degli elementi inorganici in organici, e nel farlo libera un gas, l’ossigeno, che permette la combustione.
Ossigeno vuol dire vita, vuol dire possibilità. Grazie alla fotosintesi, gli esseri viventi hanno ottenuto due grandi vantaggi: l’aumento repentino della sostanza organica (più cibo per tutti) e la possibilità di accedere a un metabolismo decisamente più efficace. Sappiamo infatti che a un certo punto, nella storia dell’evoluzione, è avvenuto un fenomeno molto simile a quello che succede attualmente con la Elysia. Al posto della lumaca c’erano delle forme unicellulari (delle specie di amebe) e al posto dell’alga gli antenati delle piante: i cianobatteri. Anziché digerirli, le amebe li hanno inglobati all’interno del proprio organismo, unendosi a loro in una nuova forma di vita – questa unione prende il nome scientifico di “endosimbiosi”. Perché lo fanno? È molto semplice: procacciarsi il cibo è un’operazione abbastanza faticosa, oltre che piena di rischi. Spesso dalla predazione si torna a mani vuote, e restare a digiuno dopo tanto sforzo non è certo piacevole. Il sole, invece, è una fonte di sostentamento gratuita e sempre disponibile: per attingerne, non bisogna far altro che stare fermi e lasciare che la fotosintesi faccia il suo corso. Comodo, no? E c’è un altro vantaggio reciproco da considerare: da una parte il cianobatterio si prodiga nel trasformare in cibo la luce e l’aria, dall’altra l’ameba lo protegge dal pericolo dei predatori. Una mano lava l’altra.
Insieme, i due organismi hanno saputo creare colonie di nuove cellule specializzate. Innovazione chiama innovazione, complessità porta a una maggiore complessità. Le singole cellule si sono aggregate, hanno formato dei tessuti e, seguendo tempi molto dilatati (dobbiamo ricordarci che l’orologio della vita non conta le ore, i giorni e gli anni: le sue lancette si spostano solo dopo secoli, millenni e milioni di anni), si sono trasformati nei vegetali che attualmente coprono di verde il nostro mondo. Il luogo in cui, dopo 502 secondi di viaggio, il nostro raggio di sole si ferma per raccontare le mille storie della vita.
Il mistero delle piante
L’endosimbiosi ha tracciato un gigantesco solco tra gli organismi viventi: da una parte ha messo i vegetali e dall’altra gli animali. Dai progenitori dell’ameba unita al cianobatterio si sono sviluppate le piante, mentre dai batteri e dalle altre forme unicellulari si sono evoluti gli animali.
Quello delle piante è stato un successo clamoroso: sono stati loro i primi organismi a colonizzare le terre emerse e sono loro che ricoprono il pianeta Terra, con il 99% della biomassa.
Tutto questo grazie alla prima scintilla di vita, quel processo capace di trasformare la luce in glucosio segnando la prima lettera dell’alfabeto della natura: la fotosintesi clorofilliana.
Il meccanismo è piuttosto complesso e di difficile comprensione, tanto che noi esseri umani abbiamo sudato sette camicie solo per scoprirne l’esistenza! Supporre che la maggioranza degli esseri viventi si nutra di aria e di luce è, infatti, decisamente controintuitivo e lontano dalle nostre abitudini e dal nostro modo di pensare. Ma, come abbiamo già detto, la realtà è molto complessa e difficile da comprendere, e alle volte l’uomo è costretto a osservarla da una prospettiva un po’ limitata, non riuscendo a guardare più in là del proprio naso.
Gli uomini dell’antichità erano convinti che le piante si nutrissero di un elemento non proprio digeribile, ma molto più facile da individuare: il terreno.
L’alchimista e chimico belga Jan Baptiste van Helmont non ne era convinto; egli infatti aveva notato che, anche quando le piante crescevano in modo evidente, il livello del terreno non si abbassava. Come facevano a nutrirsene senza consumarlo? Segretamente, van Helmont decise di fare una cosa davvero rivoluzionaria per l’epoca: un esperimento! Era l’inizio del Seicento, un secolo difficile per gli scienziati, che dovevano sempre fare i conti con la rigidità della Chiesa. Eppure, la voglia di scoprire il segreto che spingeva i vegetali a crescere era tanta. Egli prese del terreno e lo pesò; poi fece la stessa cosa con una neonata pianta di salice piangente. Trapiantò quindi il giovane germoglio, che curò per cinque anni, annaffiandolo quando necessario ed evitando il freddo intenso in inverno. Il resto lo fece il tempo, che permise al salice di crescere e di trasformarsi in un albero di medie dimensioni.
Allo scadere dei cinque anni, van Helmont ripesò sia il terreno sia la pianta e scoprì un fatto sorprendente: il terreno era diminuito di soli 57 grammi, mentre la pianta era aumentata di ben 75 chili. Era evidente, a questo punto, che il vegetale non si era nutrito di suolo. Di cosa, allora? Pensare all’aria e alla luce era troppo astruso, anche per un uomo di mentalità aperta come van Helmont il quale, infatti, concluse che le piante sapessero trasformare l’acqua in nutrimento servendosi di processi alchemici oscuri. Per paura di ripercussioni da parte della Chiesa, nascose la sua scoperta: teologi e religiosi accettavano la conversione dell’acqua in vino a opera di un essere umano, ma non avrebbero mai tollerato la trasformazione dell’acqua in cibo da parte delle piante.
Ma la luce della verità non si può fermare – eventualmente trova qualche ostacolo e rallenta, ma sempre riesce a trovare una breccia e farsi strada. A quasi cento anni dall’esperimento di van Helmont, in Inghilterra, la luce delle idee nuove riprese a brillare in un luogo insospettabile: una birreria. Ad accendere lo stoppino della scoperta fu lo scienziato e chimico Joseph Priestley.
In realtà, Priestley non era particolarmente interessato alle piante. La sua vera passione erano gli odori, non sempre gradevoli, che si formavano durante la fermentazione dell’orzo nella birreria accanto a casa. Per studiare questi olezzi, che lo scienziato chiamava elegantemente “arie”, egli inventò degli speciali macchinari capaci di intrappolare i gas all’interno di una campana di vetro.
Per prima cosa lo scienziato investigò l’effetto di queste arie sulla combustione e “immerse” una candela accesa nei gas imprigionati nel marchingegno. Il risultato non tardò ad arrivare: la fiamma si spense dopo pochissimo tempo. Quindi il gas prodotto dalla fermentazione poteva far morire una fiammella… Poteva anche fermare la vita degli organismi?, si chiese Priestley. Per scoprirlo, progettò un piccolo (ma assai comodo) divano capace di accogliere dei topolini di campagna, vittime sacrificali che raccoglieva nei prati, all’interno del suo macchinario “intrappola-aria”.
I roditori, nella campana satura di gas, iniziarono a stare davvero male: la respirazione si faceva difficile e si contorcevano dal dolore. Solo l’intervento provvidenziale dello scienziato li salvava da morte certa. Quando, infatti, la sofferenza diventava evidente, egli apriva la campana di vetro per far entrare aria fresca e per far uscire il topo.
Quindi, le sue “arie” spegnevano sia le fiamme sia le vite degli animali. Come si sarebbero comportate con le piante? Priestley mise alcuni vegetali dentro delle campane e si accorse di un piccolo prodigio: contrariamente a quanto succedeva con i topolini e con le candele, i vegetali in mezzo a quel gas puzzolente se la passavano piuttosto bene.
Per complicare le cose, lo scienziato decise di mettere insieme, nel suo macchinario, sia un topolino sia delle piante verdi. E notò con sorpresa che il roditore, dopo un primo momento di debolezza, cominciava presto a riprendersi e riusciva a vivere discretamente.
Priestley concluse che le piante erano capaci di mitigare gli effetti letali delle “arie” grazie all’emissione di altri gas. Ora sappiamo che Priestley aveva colpito nel segno, almeno parzialmente. Il gas sprigionato durante la fermentazione, quello che tormentava Priestley dalla birreria, è l’anidride carbonica, sostanza che effettivamente non permette la combustione e nemmeno la respirazione. I vegetali catturano l’anidride carbonica e, mentre lo fanno, liberano l’ossigeno: per questo i topolini, in compagnia delle piante, riuscivano a sopravvivere!
Ma i passi per scoprire il meccanismo della fotosintesi, che incapsula i raggi del sole per far partire il cerchio della vita, non erano ancora finiti. Un altro pezzetto di strada lo percorse lo scienziato olandese Jan Ingenhousz, che prese delle provette, le riempì d’acqua e di piante e ne posizionò una parte al sole, mentre le altre restarono all’ombra. Ed ecco una nuova sorpresa: dalle foglie in piena luce iniziarono a sgorgare delle piccole bolle di gas, d’altro canto non succedeva niente in quelle poste al buio. Provò quindi a spostarle vicino al focolare, per verificare se era stato il calore a produrre le bollicine. Anche in questo caso le piante non produssero un bel niente. A quel punto, risultava evidente che era la luce a svolgere un ruolo essenziale.
Un ulteriore tassello venne posizionato dallo svizzero Jean Senebier, il quale scoprì che l’anidride carbonica era indispensabile per azionare la fotosintesi. Poi arrivò il tedesco Julius Robert von Mayer che, a metà dell’Ottocento, intuì che l’energia del sole si trasformava in energia chimica.
L’equazione finale della fotosintesi (6 CO2 + 6 H2O + energia solare —> C6H12O6 + 6 O2) venne scritta nel 1962 da Julius Sachs, e a Berkeley, negli Stati Uniti, gli scienziati Calvin e Benson compresero come funzionava a livello chimico (elaborando il famoso “ciclo di Calvin-Benson”).
La strada verso la piena comprensione di questo processo, però, non si è ancora conclusa. Sono centinaia gli scienziati che ancora oggi si spremono le meningi per guadagnare ...