Barbara
| | Eravamo occupate a ordinare certe comode poltrone e un comodo divano rivestito di chintz per sostituire una parte del mobilio italiano che il fratello di Gertrude Stein aveva portato con sé. Impiegammo molto tempo in questo lavoro. Dovevamo distenderci sulle poltrone e sul divano per decidere, e scegliere un chintz che s’intonasse coi quadri, cose tutte che ci riuscirono a meraviglia. |
| | GERTRUDE STEIN |
Pedalava su una cyclette in un angolo del palco, mentre le due ballerine-attrici discutevano delle proprie madri a favore del pubblico, cercandosi e accostandosi in un esercizio di contact. Era una piccola produzione, uno spettacolo commovente il cui senso pareva essere che le madri, per quanto si sforzino, non possono capire le figlie. Un riflettore a occhio di bue era puntato quasi costantemente sulla donna dai capelli corti che pedalava. Portava sulle orecchie un paio di vecchie cuffie da walkman – il cerchietto di metallo brillava – e si allenava in una tuta acquamarina acetata e stazzonata che non faceva capire molto della sua corporatura. Pedalava fino a farsi venire il fiatone, cantando sempre una stessa canzone, un brano italiano che non ricordo, la cui melodia andava in qua e in là come uno di quei pupazzi pieni d’aria dei parcheggi dei centri commerciali: la sua voce, intonata e inesperta allo stesso tempo, seguiva la melodia con uno slancio e una simpatia che mi stavano facendo venire una gran voglia di conoscerla.
La vidi da vicino quando uscì insieme all’autrice e all’interprete principale: in tre a braccetto, l’autrice al centro e le altre due ai fianchi, si diressero verso di noi. Per noi intendo me e i genitori dell’autrice, che ci eravamo messi a parlare nel foyer poco affollato. Mi ero diretto io spontaneamente dagli unici anziani indovinando una parentela. Il mio amico Francesco, che mi aveva portato lì per vedere lo spettacolo perché l’autrice gli aveva proposto di scrivere un soggetto insieme, se n’era andato appena gli avevo detto che volevo conoscere la ragazza della cyclette. Dico ragazza ma era una donna sopra i trent’anni con la faccia da ragazza, liscia, senza una ruga.
Moglie e marito erano alti uguali, sul metro e settanta, di simile corporatura robusta, e li ricordo in due giacchette castane, lui di renna lei sintetica, un po’ calde per la fine della primavera; sembravano molto uniti e scossi dallo spettacolo. «Siete i genitori della sposa…» mi era uscito, per sbaglio, e loro erano scoppiati a ridere e si erano messi a chiacchierare per distrarsi… Che lei non fosse ancora stata mai “la sposa” era uno dei problemi dei genitori, a dare retta alla versione di parte che avevamo appena ascoltato, problema non disgiunto dal fatto che a trentacinque anni ancora prenotava teatri per produrre i suoi spettacoli. Questo lo dissero loro, in un modo simpatico e accettante che persero appena la figlia uscì dai camerini scortata dalle amiche.
«Cia-o» disse lentamente, e le due amiche non le lasciarono i gomiti. La ragazza della tuta, ora in un vestito blu scuro a righe chiare con eccentrica chiusura a doppiopetto, aveva il miele nelle guance, un miele misto al rossore, un viso d’arvicola con la fronte lunga e due zigomi gonfi come se avesse preso dei pugni: un viso alieno, disegnato, con al centro un naso da pugile che sembrava rotto, un naso simile a quello di Owen Wilson, o di Belmondo, ma non una bellezza androgina. Guardava la sua amica con occhi scuri, piccoli e amorevoli. La ragazza della cyclette, l’autrice e i suoi genitori erano alti uguali; la terza amica era alta quasi come me, e conosceva i genitori quindi contribuiva alla conversazione, «allora, vi siete divertiti?», sorniona, mentre l’autrice rideva e non commentava.
I miei genitori mi hanno educato a parlare alla pari con chiunque: l’editore straniero cui voglio vendere un libro, l’amministratore comunale con l’incarico di una manifestazione culturale, il candidato al Nobel. Non si può essere in soggezione se si è calmi e umili e si rispetta lo spazio altrui. I miei genitori non me l’hanno mai detto a parole, ma c’è una combinazione tra la laica e sobria sicurezza di mio padre, che per lavoro investe denaro nei progetti degli imprenditori giovani, e la profonda fede cattolica di mia madre: non esistono persone con cui sentirsi inferiori perché non esistono persone con cui sentirsi superiori.
Questo tipo di educazione torna utile con le donne. In quel momento mi trovavo in quel quadretto famigliare e potei rivolgermi alla ragazza della cyclette, di cui ancora non sapevo il nome né mi sforzavo di cercarlo sulla locandina appesa accanto allo sportello della biglietteria. Le dissi: «Si potrebbe scrivere il punto di vista dei genitori e metterlo in scena sempre qui…».
E lei, che prendeva le parti dell’autrice, ribatté davanti a tutti guardandomi per la prima volta negli occhi, e già con simpatia: «Ma no, ti sbagli, è una commedia, e madre e padre sono archetipi! È praticamente ispirato più alla mia famiglia che alla sua, figurati…».
«I miei clienti non sono affatto convinti» li feci ridere, «ci sembra un attacco personale, ecco insomma è necessario quantomeno un chiarimento!»
E successe quel che speravo con tutto il cuore: la sceneggiata si sfilacciò con naturalezza e io e lei proseguimmo la conversazione da soli: «Che cosa tremenda, poveretti» concesse lei. «Se la meritano tutta, eh, sono tremendi… Però anche dolci, mi hanno fatto pena.»
Quando le altre due ci raggiunsero entrammo nel primo bar a offrire un Campari alla protagonista, che non rideva più e stava dicendo: «Ma tu ti rendi conto, sì?» alle altre due.
Mentre l’autrice insisteva per offrire e si avvicinava alla cassa, io approfittai dell’attimo in cui la quarta uscì fuori ad accendere una sigaretta per avvicinarmi all’orecchio di Barbara, che nel frattempo si era presentata. Le dissi: «Andiamo a cena da soli».
Mi scostai, lei premette le labbra guardando davanti a sé, poi scoppiò a ridere e senza dire di sì tirò fuori il cellulare dalla borsetta bianca laccata e digitò il codice per sbloccarlo.
Sfilai ancora lungo il bancone per lasciarla sola – era uno di quei bar lunghi e stretti che creano facilmente imbarazzo – quindi ci riunimmo tutti e quattro fuori dal locale per i saluti e come feci per andare verso il mio motorino lei si avviò con me senza nessuna cerimonia o battuta autoironica.
Cenammo da un vietnamita molto buono il cui proprietario romano, che pronunciava «vie’namita» regalandoci il primo tormentone da condividere prima ancora di essere stati a letto insieme, ci tenne compagnia per un quarto d’ora spiegandoci, in tale dettaglio da toglierci ogni possibile imbarazzo per il nostro appuntamento improvvisato, le sue battaglie sui social media con quelli che non capivano che la sua era «una cucina vie’namita regionale e non nazionale» perché «parlare di cucina vie’namita nazionale è tecnicamente scorretto».
Ci distraeva, permettendoci di rallentare. Mi piaceva questa donna, com’era vestita, lo sguardo sincero. In pochi minuti si ritrovò a parlarmi del periodo “paludoso” in cui si trovava: un uomo in un’altra città che sicuramente aveva già un’altra donna.
Le dissi: «Non vai a letto con qualcuno da un secolo…».
«Ahah, sì, bravo.»
«E cosa si prova?»
«Eh, be’, è primavera.»
«Quindi idealmente che situazione vorresti per rompere questo brutto incantesimo?»
«Guarda, vorrei la situazione più semplice del mondo.»
«Una persona che non conosci, ma non pericolosa, rintracciabile, non uno stalker, che fa tutto lui, ti prende, ti tratta bene, ti lava e ti asciuga e ti rimette ammorbidita e stirata nel ripiano delle camicie a casa tua.»
«Mamma mia» mi guardò, «sarebbe bellissimo.»
«Va bene. Per farlo, però, devi prima tranquillizzarti.»
«Sono molto tranquillizzata.»
«Sì?»
«Sei molto tranquillizzante.»
«Fantastico. Allora posso tranquillizzarmi anch’io.»
Ci sorridemmo.
«Allora» ripresi, «Barbara: tu sei fantastica, vorrei essere un regista omosessuale e avere un rapporto molto intimo con te. Essere quello che può entrare nel tuo camerino senza che ti arrabbi.»
«Non mi sembri omosessuale.»
«Però mi hai capito.»
«Sì, sì.»
«Vorrei stare con te non come un avvoltoio… Vorrei solo… Vedo quelle tette sotto il tuo scamiciato e vorrei un rapporto di fiducia.»
Ridevamo.
«Sei fantastico, Marcello. Ho capito tutto quello che vuoi dire. Possiamo lavorarci.»
«Bella questa distrazione, per te, no? Dal tuo punto di vista di povera fidanzata. Vero?»
«Bella anche per te, questa distrazione.»
«Molto bella.»
[Non mi piace tirare i dialoghi per le lunghe (da editor, mi paiono un modo troppo semplice di accumulare pagine), ma se devo fare un’eccezione è per il gioco di carte della seduzione.]
Il sole era tramontato, la cena stava finendo. Le dissi: «In questo periodo vivo in una casa sulla Tiburtina, un amico mi ha lasciato questa casa al nono piano, sono appena tornato a Roma da Milano, prima lavoravo lì ora faccio su e giù. Da casa del mio amico si vedono le montagne. Oggi il cielo è terso, secondo me dovremmo andare lì e far l’amore in terrazzo. Poi c’è una bella doccia comoda, puoi lavarti e ti riporto a casa».
Rise fragorosamente: «È ovvio che c’è la doccia!».
«Be’ ma certe volte anche le cose ovvie possono sembrare incredibili. Volevo farti immaginare l’intera esperienza, come una brochure. Dopo ti riaccompagno a casa: così senza complicarti troppo la vita già complicata fai un po’ l’amore con qualcuno con cui hai un’eccezionale affinità (o lui la sente con te perché il tuo carisma incredibile lo illude) e così almeno ti sei presa un po’ cura di te.»
«Mi sembra una proposta meravigliosa. Davvero faresti tutto ciò? Meraviglioso. Idealmente poi dovremmo non vederci più, così non mi angoscio se ti incontro per strada.» Su questo controsenso chiamò il cameriere per chiedere il conto, poi aggiunse: «Sei l’uomo ideale da vedere una volta sola nella vita».
«È un bellissimo complimento.»
Ridemmo.
«Poveretta chi ti sposa. Come farà a tornare alla normalità dopo la seduzione?»
Poi consegnò la carta di credito direttamente al proprietario, che la accettò serio serio con due mani, alla orientale.
Andò come avevamo stabilito: montammo sulla mia Vespa, ci scambiammo il primo bacio in ascensore dopo esserci accarezzati e stretti lungo il tragitto; in casa del mio amico, talmente amico da prepararsi per uscire di casa con un quarto d’ora di preavviso, le chiesi se si fidava, rispose di sì, allora presi un preservativo in camera, lo misi in tasca, accompagnai Barbara in terrazzo, le dissi di tenersi forte alle ringhiere, le alzai la gonna da dietro e facemmo l’amore così, brilli e sbigottiti per quella fantasia realizzata, entrambi misteriosamente senza provare vertigini. Venne in piedi, con le ginocchia piegate, a X, io venni dentro di lei, poi mi chiese che le indicassi la direzione per quella doccia di cui avevo tanto parlato, tenne il bagno tutto per sé mentre io mi vestivo senza lavarmi per accompagnarla subito a casa e ripensavo al suo corpo lungo e curvo, al seno piccolo appuntito, alla sua risata che aveva comandato ogni passaggio dal teatro fino al terrazzo.
Il giorno dopo mi scrisse che aveva i segni sui palmi delle mani e che le era piaciuto che l’avessi accompagnata a casa, anche se poi era dovuta tornare a piedi a recuperare il motorino fuori dal teatro.
Negli incontri che seguirono le diedi tutto ciò che voleva e nelle prime settimane mi sentii speciale mentre Barbara chiudeva la storia con il fidanzato parlandoci su Skype per tante ore che a volte doveva rinunciare a incontrarmi. Mi sentivo così bene che rinunciavo a uscire con le donne che frequentavo in quel periodo. Ero il suo piacere, la sua consolazione mentre si separava dall’altro: in quel momento aveva due vite, una piena di definizione, con me, perlopiù segreta (ma già rivelata alla coinquilina); e un’altra vita scialba e apatica insieme a un uomo con cui stava da tre anni.
Se tutto era più bello, però, non era solo per via del mio ruolo di fantasia per una donna disamorata o per il fatto che mi pareva di aver trovato una persona affine con una visione ispirata della vita; c’era una terza componente fondamentale: la sua casa, l’ultima di un vicolo senza uscita in un quartiere felice.
Era una costruzione bianca e squadrata a un piano, ricavata da un edificio di incerta origine, attribuito prima a dei ferrovieri, forse un magazzino, quindi, si dice, occupato da tossicodipendenti, e infine comprato da un architetto che l’aveva scrostato e rivestito di materiali isolanti di ultima generazione. Oggi l’edificio era diviso in tre appartamenti, ciascuno aveva la sua parte di tetto per terrazzo: si saliva con la scala a chiocciola dallo stretto cortile d’ingresso.
Barbara ci era arrivata dopo aver vissuto in vari quartieri di Roma, e ne aveva sempre gestito l’affitto subaffittando a diverse amiche di un giro che ultimamente si era disperso perché erano andate quasi tutte a vivere con degli uomini, in certi casi riproducendosi. Barbara, che non voleva avere figli, aveva trovato la casa quando era stata appena ristrutturata; quel quartiere sulla Casilina, ancora privo di locali a eccezione di un bar di compagni all’entrata della zona, molto tranquilla, l’aveva puntato da parecchio prima di trovare l’occasione. Erano ormai anni che ci viveva, ultimamente con una sola amica.
Mi innamorai del quartiere come mi innamorai di lei. In piazza, le solite cinque dieci persone sedevano ai tavolini di plastica e qualcuna sulle sedie davanti al tabaccaio. Due persone circolavano in strada sulle carrozzine elettriche. C’era chi non lavorava perché ricco, chi perché povero. Il miscuglio sociale che poco più in basso, a Torpignattara, produceva tensione e paure di infiltrazione terroristica islamica, da noi, nel cuneo fra la via consolare e i treni ad alta velocità, non generava che un incanto soporifero in mezzo al vento che correva lungo la via dorsale tagliata da viuzze senza uscita come tacche su un termometro.
Io ero cresciuto nella Roma densa delle palazzine, dei grandi supermercati, non concepivo casa e vicinato come luoghi sereni. Qui, invece, a cento metri dalle stecche popolari di via Casilina si sparpagliavano cortili e case a uno o due piani. L’unico disturbo erano le automobili che tagliavano il quartiere per aggirare il traffico di Torpignattara.
Per i rapporti fra vastità del cielo e edilizia di fortuna – ex baracche punteggiate da palazzi di epoca fascista – la zona infondeva calma e non c’è modo di descriverla senza perdersi nella sua ipnotica perfezione, che ci permetteva di ignorare i tre quattro metri di spazzatura non raccolta dietro ai cassonetti o la scarsità di parcheggio.
Appena Barbara ebbe spiegato alla coinquilina che si stava lasciando col fidanzato e che frequentava un altro uomo, presi l’abitudine di arrivare da lei poco prima di cena passando per via Casilina lungo i binari del trenino e l’acquedotto romano. Se non c’era traffico, il battito del cuore rallentava già. I vagoni gialli e grigi, i pini, la rovina di archi con le baracche costruite dentro; sullo sfondo, i castelli romani che sembravano lontani se il cielo era una debole ragnatela rosa grigio, oppure vicinissimi quando l’aria era tersa, ma poteva anche essere appiccicoso di uno zucchero filato di nuvole. Se era intasato sul tratto iniziale, in quei casi il cuore mi rallentava solo come svoltavo a destra all’altezza della falegnameria, che addolciva l’aria di polvere di legno. Quella strada costeggiava la ferrovia dell’alta velocità e nella sua desolazione c’era sempre un materasso abbandonato a terra, provato dagli elementi. Dopo cento metri si entrava nella piccola comunità del quartiere, radicata, romana, dove tutti si conoscevano da sempre...