
- 140 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Canzoni senza musica
Informazioni su questo libro
Tre amici che anno dopo anno si incontrano nel bar in cui si sono conosciuti il primo giorno di liceo, per scattare una foto che celebri il loro legame nonostante gli inciampi della vita; un ragazzo che come in una vecchia tradizione indiana eredita da un anziano amico appena mortoun eccezionale talento per il liscio; una ragazza che dalla finestra della sua classe sogna il mondo oltre alberi, case e confini... Andrea Valente ritorna contrenta storie sospese tra sogno e realtà, che parlano di amicizia, primi amori ed eterne passioni, senza mai dimenticare i colori caldi del sorriso.
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Informazioni
Print ISBN
9788817099349eBook ISBN
9788858692745La staffetta
Non fui il primo ad arrivare.
Quando entrai, nella stanza c’era già qualcuno di noi, nel silenzio della penombra intorno al letto su cui era disteso il corpo di Ernesto. Non fosse stato per l’abito, non era certo tanto diverso da quando si metteva a dormire su una panchina del parco.
Era il nonno di tutti nel quartiere, Ernesto, forse perché in realtà non era mai stato nonno di nessuno, né padre. Ma questo non lo so, posso solo immaginarlo.
Mi fermai sulla porta. O meglio, rallentai fino quasi a fermarmi e mi parcheggiai appena dentro, senza dire nulla.
Non alzai lo sguardo e i miei occhi si posarono sulle scarpe nuove di vernice nera che qualcuno gli aveva infilato. I suoi piedi se ne stavano lì, immobili e inespressivi, come se sapessero che quel giorno non avrebbero ballato, né l’avrebbero fatto mai più.
A un certo punto mi venne voglia di toccarli, quei piedi, di spingerli... su, dai... slow, slow, quick-quick... come faceva lui nei momenti più impensati. D’un tratto saltava su e... tango! Via col giro a sinistra: quick-quick slow, quick-quick stop. E già che c’era ci infilava pure un diamine!, che era tra le sue parole preferite.
Sapevo tutto del tango, grazie a quei piedi che adesso se ne stavano lì, così fermi che quasi mi facevano rabbia.
Uscii.
Era la prima volta che vedevo un morto.
Un morto dal vero, intendo, un morto amico. Anzi, i piedi di un morto amico, e fu lì, appena fuori dalla stanza, che mi tornarono in mente gli indiani.
Secondo un’antica credenza indiana, un ragazzo diventa uomo il giorno in cui gli muore un nonno, quasi afferrando un simbolico testimone, per correre tutta la propria frazione di quella staffetta che è la vita.
Sarà vero?
E poi, quali indiani? Apache? Cherokee? Sikh? E con me, che i nonni non li ho mai conosciuti, come la mettiamo?
Che sia il mio turno? pensai.
In fondo, come tutti i ragazzi della mia età ero convinto di essere già abbastanza grande da non aver bisogno di crescere ancora, e dato che io non avevo nonni, ed Ernesto non aveva nipoti, forse il suo testimone non poteva che passare a me.
Ti tocca correre, pensai, e cominciai a sentire il corpo mettersi in moto: il cuore pulsare dietro alle orecchie, il sangue circolare più in fretta, scaldandomi la punta delle dita, i piedi accennare uno slow, quick-quick slow, ma, accidenti... dovevo partire con l’altro piede.
Quasi mi scappò un sorriso, che bloccai appena in tempo per non essere visto. Che poi comunque nessuno avrebbe badato a me, come al solito, ma questa volta davvero era normale che fosse così.
Però un sorriso forse non ci sarebbe stato male, anzi, tra tutti quegli sguardi seri, consoni alla circostanza, che dimostravano in maniera lampante che ben pochi tra i presenti conoscevano Ernesto.
Un sorriso, diamine, che ci voleva?
Quel diamine tutto suo adesso si era infilato in un pensiero tutto mio e la cosa mi sembrò degna di un altro sorriso, che questa volta lasciai libero, fregandomene dei presenti che, come previsto, non notarono nulla.
«Andiamo» mi dissero gli altri uscendo dalla casa di Ernesto. E dopo avermi arpionato con un braccio le spalle, mi trascinarono dentro l’estate.
La sera non tardò ad arrivare, con le sue ventate di aria fresca soffiate dal buio.
Con gli altri ci trovammo per strada. Ognuno, come sempre, senza un piano preciso, così mi incamminai, lasciandomi seguire.
«Eccoci» dissi d’un tratto davanti a un manifesto con la scritta inequivocabile Serata Tango.
Gli altri mi guardarono perplessi, ma non ci volle granché per convincerli ad accompagnarmi dentro. In fondo eravamo piuttosto abituati ad assecondare di volta in volta le stranezze di questo o di quello, e quindi, data una rapida aggiustata alla maglietta, con fare serio andammo verso la musica.
Com’era prevedibile, un tipo col papillon si informò sulle nostre intenzioni. In jeans, senza giacca e con quattro peli al posto dei baffi certo nessuno si sognava di passare inosservato, quindi risposi sicuro:
«Ci manda Ernesto» dissi, e marciai avanti, lasciando il tipo lì, appeso al suo farfallino.
Anzi no. Fece in tempo ad acchiapparmi da dietro e a porgere, a me e agli altri, una serie di cravatte.
«Senza queste non si entra» borbottò e, nonostante il tono tutt’altro che perentorio, ci lasciammo convincere senza troppe storie e afferrammo ognuno una a caso di quelle cose.
A me ne capitò una rossa a pallini, una specie di amanita muscaria di seta che se l’avessi vista intorno al collo di qualcuno, avrei stretto il nodo per strozzarlo.
Invece me l’annodai con un groppo storto e cercai di stare alla larga dagli specchi. Era la mia prima cravatta, perbacco, e potevo senz’altro scegliere di meglio. Tanto più che probabilmente sarebbe stata anche l’ultima, dunque l’attenzione doveva essere doppia.
Comunque, ormai quella avevo, e quella dovevo tenermi.
Scostai la tenda e misi il naso in sala, seguito a ruota dai nasi degli altri.
L’orchestra là in fondo gracchiava annoiata e una mezza dozzina di coppie scivolavano sulla pista, in senso rigorosamente orario, alternando gli slow ai quick, che se non ci si prestava troppa attenzione potevano persino dare l’impressione di saperci fare.
Sarà stata anche la prima volta che mettevo piede in una balera, ma con tutte le volte che Ernesto me ne aveva parlato avevo l’impressione di riconoscere una per una le piastrelle, e le facce concentrate dei ballerini mi sembrava di conoscerle da quel dì.
Tutto sommato, pensai, al tipo del papillon non avevo affatto mentito e se adesso ero lì era senz’altro su una sorta di invito del nonno.
Ci sedemmo in un angolo sghignazzando e – diamine – ci godemmo un quarto d’ora di anni Cinquanta.
Tempo del quinto pezzo, e il sinistro cominciò a seguire il ritmo, subito assecondato dal piede destro, in un’alternanza di tacchi e punte o strisciate di pianta. Certo, le scarpe da tennis poco si addicevano a quei passi ma non fosse stato per il sedere ancorato alla seggiola, sarei finito in mezzo alla pista ostaggio delle mie gambe e della musica.
Comunque non durò molto.
Fu un vortice a travolgermi: una tipa enorme mi caricò nel mezzo di un giro rapendomi ai miei compari che, scampato il pericolo, se la ridevano.
Quel quintale di ballerina mi incastrò tra le sue tette e proseguì nei giri, con l’orchestra che non voleva saperne di fermarsi per la pausa caffè.
Non avevo mai ballato con qualcuno... inteso ballato ballato. Anche Ernesto, quando mi insegnava la bandiera non ne voleva sapere di fare da dama e mi ficcava in mano un manico di scopa. Una volta pure una vecchia sedia, che fino a quella sera era quanto di più sexy mi fosse capitato come ballerina.
Non mi restava che stare al gioco e lasciarmi trasportare dalla fisarmonica e da quel paio di tette.
Una sola cosa pensavo: eravamo fuori tempo.
Provai ad artigliare la situazione, perché se c’è una legge incontrovertibile è che ballando è l’uomo che guida, non il contrario.
A prescindere dalla cravatta che indossa.
Anche con le sedie.
Anche nel tango.
Soprattutto nel tango.
Anche con cinquanta chili di differenza.
Cinquanta chili in meno, intendo.
Con la mano destra mi aggrappai alla sua schiena. Lei sussultò. Cosa vuoi, te la sei cercata...
Strinsi con la sinistra la sua destra, quindi, cercando di prendere fiato tra una tetta e l’altra, ci piazzai un medio corté che certo non si aspettava, ma che le cavò un sorriso di sorpresa gratitudine.
Tiè!
Bastarono un paio di giri per riportarci alla pari con la musica… che però proprio sul più bello finì.
Peccato. Proprio adesso che ci stavo prendendo gusto.
Lei mi diede un bacio in piena fronte, invitandomi a continuare con il prossimo ballo, ma no: la polka te la fai con qualcun altro.
Così mi lasciai scaricare sulla seggiola dove quella mi aveva agganciato, alla mercé degli altri.
Però nessuno fiatò. Sarà stato per il tango o per il giro gratis su una giostra con le tette, ma nessuno, davvero, fiatò.
Uscimmo, ognuno per la sua strada e buona notte.
Dopo quella sera l’estate accelerò e fu presto settembre, col suo bel gruzzolo di novità, a cominciare dalla nuova scuola.
Meglio così: nuove aule, nuove finestre, nuovi compagni, nuovi insegnanti.
Meglio così davvero. Tanto che ci andai quasi volentieri, a scuola, e accelerai la pedalata fino a mollare la bici davanti alla porta dell’istituto.
In corridoio mi guardai intorno per vedere dove e con chi fossi finito. Sono tutte strane le facce nuove e strana sentivo anche la mia, che nuova doveva essere agli occhi degli altri che in quel momento mi scrutavano di rimando con la mia stessa espressione indefinita.
Il primo giorno in una scuola nuova ti fa sentire grande, anche se praticamente chiunque là dentro lo è più di te. Però è un passo importante. Mi sta più simpatico dell’ultimo, che ti lascia sempre lì in balia del nulla.
Il problema, è ovvio, sono tutti i giorni in mezzo, ma per il momento non era il caso di pensarci.
Non sapevo se voltarmi indietro o guardare avanti e alla fine non feci né l’una né l’altra cosa. Accade sempre così.
Finché la campanella suonò e ognuno al suo posto. Sì, ma qual era il mio posto? Ne occupai uno a caso, come fecero tutti gli altri, e sempre come tutti gli altri mi misi a fissare la porta in attesa di scoprire che faccia avesse la nostra prof.
Quando entrò mi scappò una risata, che per fortuna deglutii in qualche modo e nessuno se ne accorse.
Lei salutò sorridendo un po’ sbadata, si accomodò dietro la cattedra e ci lanciò un’occhiata panoramica tanto per vedere cosa le fosse toccato in sorte. Quando incrociò il mio sguardo, mi salutò:
«Ciao, Fred Astaire!» E proseguì col giro d’ispezione.
Era la giostra con le tette!
Nulla da dire, l’autunno si stava trascinando appresso un pezzo della mia estate, e la cosa non mi dispiaceva affatto. E forse avrebbe portato anche qualche voto in più. Chissà, magari c’era sotto lo zampino di nonno Ernesto...
Da quel giorno tutti mi chiamano Fred, che poi non è neanche un nome così brutto. Del resto il nome è come il colore dei capelli: mica si può sceglierselo...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Il muro
- L’inizio
- Il cinema al cinema
- Il giro del mondo
- Parole
- Una scritta sul muro
- Altro
- Bikini d’America
- La staffetta
- Ci vuole un tavolo
- Il nonno nel cassetto
- Essere o non più
- Con quel sorriso un po’ così
- Compagni di scuola
- L’albero
- Guarda che Luna
- I tre della foto
- Il messaggio nella bottiglia
- Eugenia sulla Luna
- Il centro
- Il giorno dopo
- La pecora nera
- Educazione sessuale
- Il guardiano del faro
- Le fidanzate
- Effetto domino
- Al di qua dell’al di là
- Le quattro del mattino
- L’orchestra in letargo
- L’ultima volta
- Indice