1986
3 gennaio
Le cadenze che controlliamo parlando nel nostro dialetto (idealmente a persone del nostro gruppo d’età, che sappiano press’a poco ciò che sappiamo noi ecc.) sono forse la parte più ricca e fruttifera del nostro make-up: con esse si dovrebbe poter costruire qualcosa di veramente interessante, ma hanno il difetto di essere elusive, effimere. Nascono e muoiono in aria.
5 gennaio
C’era un sardo, nella città dove abitavamo, mio coetaneo all’incirca, con una minuscola moglie, sarda, calva, brava, la quale era tanto saggia e seria quanto il suo uomo, serissimo nel cipiglio, era di fatto inaffidabile e strambo.
Era impegnato in una terribile faida (“vendetta” in inglese) con le autorità, tutte le autorità e specialmente quelle della motorizzazione. Aveva fatto uno scontro, o più di uno (difficile dire), di quelli che lassù si considerano causati non da “guida poco attenta” ma da “guida pericolosa”, un reato di preoccupante gravità, che comporta pene severe e naturalmente il ritiro della patente. Questa, quest’ultima, pareva al sardo una prepotenza intollerabile, e infatti non la tollerò e continuò a guidare senza patente. Purtroppo a una delle prime uscite fece un altro scontro, ma stavolta di quelli che si considerano causati da “guida pericolosa e temeraria”, lo spaventoso terzo grado dei reati di guida, con conseguenze catastrofiche.
Uscito di prigione, parzialmente ristabilito dalle rotture e ammaccature corporali, passava le giornate seduto nel retrocucina, con una gamba rigida su uno sgabello, scrutando i visitatori con tenebrose occhiate. Sapeva cucinare qualcosa di sardo, e si rianimò tutto quando gli chiesi di cucinarmelo, lì sui due piedi per così dire: e lui per compensarmi del mio interesse, e poi del mio apprezzamento quando il piatto fu pronto e lo mangiammo, mi raccontò la storia delle sue disavventure. Madonna, l’iniquità della motorizzazione inglese, la malignità del governo della regina!
Avevano abitato in una casetta antica, scura, angusta, ma poi sì erano trasferiti in quest’altra molto più piacevole, in un quartiere nuovo. Stavano in riva a un fiumiciattolo, forse un canale, quello che congiunge il mitico Kennet al Tamigi, o una qualche altra piccola acqua, il Loddon per esempio (sto showing off con me stesso): avevano un giardino bislungo e uno stretto orticello che arrivava alla sponda, e un rudimentale attracco e una barchetta già stata azzurra, ora un po’ marcia ma forse ancora agibile.
Stava lì, lontano dalla motorizzazione e lontano dal lavoro: lo avevano scacciato e sbandito non i padroni ma gli altri operai, perché era andato a lavorare quando loro scioperavano: non per sue convinzioni antisindacali, credo, ma per innata contrarietà verso tutto. E stava con lui la paziente piccola moglie, che mi era parsa soltanto miserevole in principio, poi K. mi aveva insegnato ad apprezzarla e ammirarla: forse in parte perché era una brava sarta e K. nella vita ha fatto anche la sarta, e si vede che quando capisci anzitutto la gente sul piano tecnico del lavoro che fa, capisci tanto più facilmente il resto, la parte non tecnica, l’umanità indivisa come avrebbe potuto (dovuto) dire il Croce se avesse conosciuto questa piccola donna.
Li ho solo intravvisti costoro, col loro figlio interamente inglese di lingua e di costumi, un po’ effeminato, pareva a noi: solo intravvisti, ma mi accorgo che campeggiano sullo sfondo degli ultimi nostri anni a R., lei alacre, un po’ breathless, ansiosa di confidarsi, compassionevole verso il marito, coraggiosa, lui tenebroso, rabbioso, sospettoso, ma innamorato delle cose genuine che aveva intorno, dell’orto, della barca, dei cibi, perfino della macchina sfasciata. L’amore di fondo, per lui, era però sempre la Sardegna: impossibile tornarci per ora, ma il proposito era inamovibile. Mi pareva di capire che a suo tempo avesse litigato anche laggiù, si era esposto a terribili soprusi, forse qualcuno aveva cercato di ucciderlo, non ricordo bene… Ma il mondo vero era là, le cose che danno senso, la libertà, le ragioni profonde del vivere. In Sardegna, ci diceva, era praticamente ricco, e soprattutto poteva andare a caccia, non so più che genere di caccia: fatto sta che in Sardegna andava a caccia di qualcosa, dalla mattina alla sera, coi parenti e qualche amico. Sempre spensieratamente a caccia, un party delizioso, naturale, perenne.
20 gennaio
Se siamo stati dati alla luce, appartenevamo ai luoghi senza luce… La luce ha punte amare: abbacina, stanca gli occhi, sveglia crudamente chi dorme.
Si dice “siamo stati messi al mondo” come se prima fossimo altrove, in un diverso assetto dello spazio e del tempo. Le stanze nude, i mattoni del pavimento, i muri imbiancati, coi modesti fregi (lieve panico), la stufa a segatura, l’alto letto… Le pie donne, i dolori pudichi… Non potersi offrire di sopportarli in vece altrui…
9 febbraio
“The frugal nature of physics” (Hoyle). Livelli degli interessi: le parole (frugal, sfumature storiche e sociali inglesi); la fisica, o in generale il pensiero scientifico; la storia delle altre discipline, e delle altre virtù.
Ogni volta che Hoyle comincia “Quando ero a scuola” o “Quando studiavo a Cambridge”, drizzo le orecchie, pronto a dire anticipando: ah, questa è la linea giusta! questo è pensare! Strano, visto che da anni ho alcune riserve su Hoyle scienziato e divulgatore: non è sempre un modello interamente affidabile. Ma a sprazzi è ancora un oracolo.
Alcune schegge di pensiero, in ogni tipo di contesto, colpiscono in modo innaturale. Quando il grande J. dice: «Vico sapeva questo, Vico non sapeva quello…», sono suggestioni semplici e potenti.
Frank ha sentito da amici italiani, che la prosa di E. non vale molto, e la cosa gli ha fatto impressione. A me fa impressione che non se ne fosse accorto, anche solo dalle traduzioni inglesi.
15 febbraio
– Un fotogramma (una riga?) per ciascun giorno, una pagina per un mese, una dozzina di pagine ogni anno, per quarant’anni diciamo 400 pagine… No, non avrebbe senso.
– Un fotogramma al mese (10 righe?), 3 mesi per pagina, in un anno 4 pagine, dunque per 10 anni 40 pagine, dal 1945 al 1985 = 160 pp.
Mah!
«Cerco di reagire al nuovo…» (Fellini): non è proprio l’up-to-date di Angus W., ma c’è una parentela: a parte il fatto che la frase dell’italiano è tanto più simpatica, e sensata. A me piace dire che il mio motto è stato ed è quasi il rovescio di questi: ma è poi vero?
Tema del “tempo”, rapporto tra ciò che è stato e ciò che è, e in via secondaria tra ciò che è fuori moda e la moda corrente. Pregio delle scritture: c’entra davvero il criterio che piacciano o non piacciano alla gente e a quale gente, e in che grado? Come nasce il nuovo? Può nascere se non in rapporto col non-nuovo?
17 febbraio
Pupille
Le mie pupille, le ragazze che ho avuto per le mani come educatore. Certo non le ho amate abbastanza, me l’ha detto un giorno una di loro, Sharon. Lei veramente non ho mancato del tutto di amarla, nei modi dovuti s’intende: trovavo molto attraente l’impianto del suo corpo, delle gambe, somigliava tutta a Julie Christie, e aveva una mente vispa, una sensibilità originale. Quel giorno mi disse: «Ciò che voi volete da me è che diventi uguale a voi… Volete un altro voi stesso…» e a me queste parole piacquero: capivo che era vero, ero io visto dall’altra parte. Ma allora, al mio paese certo no, ma è possibile che a Padova (forse già a Vicenza) mi abbiano infuso, con tutto il resto, anche questa forma di mania demiurgica? O sarà stato un tratto congenito, una delle molle segrete del carattere?
Era difficile da trattare, Sharon, sempre in oscillazione tra i trasporti di gioia e le crisi. Ma inizialmente ciò che risaltava erano i trasporti. Quando venne la prima volta al colloquio per iscriversi da noi ci parve un’allieva desiderabilissima. Spigliata in italiano (virtù che alzava il tono di tutte le altre, una vernice squillante), aperta, ingenua, festosa: era un piacere “intervistarla”, come dire farle l’esame di ammissione, il provino piuttosto, perché lei ne approfittò per fare una serie di numeri… Era una ragazza naturaliter entusiastica, e avrà certo avuto in seguito altri momenti di eccitazione: ma è ben possibile che questo (a casa nostra dopo il colloquio, sherry, mobili quasi astratti, luminosi, K. e John ed io: e lei, grande, ridente, eccitata) sia stato uno dei più vividi, forse il più vivido. È curioso, quanto acuta era la nostra voglia di studenti bravi, bravi come noi, avrei forse detto allora: più di noi, penso adesso…
Ogni tanto ricorre lo scrupolo di aver gettato, con l’acqua del bagno, anche il bebè (nel rifiutare il conformismo).
Analogo tema ricorrente: centralità. Dov’è il mainstream? Esperienza negli anni del fascismo: qual era allora il mainstream? Goffa inversione delle nostre posizioni personali nel 1941-42.
In Inghilterra, il rispetto che pareva congenito e endemico per i ruoli, i titoli… Potenza della società, la stretta di un sistema non contestato e non contestabile: quasi un guanto, una mucosa, un budello. Fare i gesti che ti sono richiesti, le processioni accademiche, gli interventi e i non-interventi in Facoltà o in Senato.
In Italia, primato della protesta verbale. Veemenza del sentimento da cui nasceva, forse non profondo, ma ad altissimo potenziale in superficie: bruciava tutto… L’amico a Roma (al lunch a casa sua, primi anni Settanta) che si alzò indignato dal suo posto, si mise a girare concitatamente attorno alla tavola. Perché? Fu perché avevo detto che arrivando in Italia mi era parso che le cose andassero un po’ meglio, che qualcosa funzionasse.
Il pensiero di questo autore, noto interprete dei movimenti collettivi e dei sentimenti umani, tradotto in 12 lingue, letto e studiato da milioni di persone, ha l’autorità e il mordente di quello di Biancaneve, her dei Sette Nani.
Come vivo erompe, leggendo questo libro sull’erotismo, l’impulso di metterlo in chiaro!
Due modi di vedere “la cultura del proprio tempo”: (a) nel suo complesso è un malanno da cui bisogna guardarsi; (b) ciascuno ha in sé delle componenti oneste che c’entrano con la cultura del suo tempo.
Nell’uno e nell’altro modo affiora qualcosa di impreciso e di sgradevole.
Ho avuto (in gioventù) un esempio di ciò che poi si sono messi a chiamare compuntamente “egemonia”, cioè di un predominio culturale effettivo di qualcuno o qualcosa, fondato su un’autorità praticamente incontrastata: fu allora l’insieme di idee e di convinzioni che chiamavamo “il Croce”. Era però un’egemonia colta, tanto più sobria e più vitale di quelle che sono venute dopo.
25 febbraio
Agatha, delicata, intensa, affettuosa, permalosa: e brava. È lei che mi ha additato gli aspetti letterari della moda dell’anti, antieroe, antiromanzo… [cfr. Dispatrio, 1993]. Era del resto il momento dell’antielettrone, dell’antimateria, dell’antiuniverso. Concetti che la gente non si può certo dire che capisse (è oscuro se sono veramente cose da capire), ma che piacevano un mondo alla gente, e anche a me.
Un giorno, parlando con me, Agatha accennò all’idea che le cose “contro” hanno un costrutto, sono vive: ne parlò con riserbo, un sussurro, ma toccò un nervo… Fu in un tutorial nella mia stanza, le spiegavo (spiegavo sempre) il lato pacchiano e quello pregiato dell’Innamorato del Berni; stavamo davanti alla modernistica lavagna bianca infissa così pulitamente al muro. Divagai sul contemporaneo, polemizzai con qualche pseudonarratore italiano o francese. E lei mi suggerì quell’idea quasi scusandosi, per rimettermi gentilmente sulla strada giusta. Era sempre così, si scusava di dovermi segnalare che “Principe azzurro” non si dice Blue Prince, o di venire eternamente in ritardo ai tutorials, o di non aver scritto il suo essay perché aveva dovuto assistere una compagna a fuggire dal collegio, o a ritornarvi a metà della notte, o a lasciare il ragazzo, o ad abortire o a partorire (forse esagero un po’). Era dolcemente indisciplinata.
Quando la espulsero dall’Università (io la difesi in Facoltà, la elogiai, dissi cose smodate sulla sua bravura, ma il Dean dalla voce metallica fu irremovibile, e la temibile Philippa, illustre psicoioga sperimentale, quando esposi il mio eccessivo elogio fece un «Oh!» soffocato, di scombussolamento) se ne andò senza far drammi. Qualcuno la vide una volta a Londra, faceva la cameriera in un bar.
Ricomparve vent’anni dopo. Aveva letto il mio primo libro, mi disse che era «un libro a colori». Venne a trovarci, nella città rossa. Era più magra, più ambigua. Andammo a cena a Wokingham. Raccontava la storia della sua vita per scorci, cose avventurose, vagamente equivoche almeno in potenza, strambe e umane, romanzesche. È uno di quei momenti speciali, pensavo, quando la natura imita Mario Soldati…
Ma i decenni non la smettono di girare (come le scatole, direbbe mio zio), e un giorno in Cornovaglia, avanzando in macchina, a passo d’uomo, cercando un indirizzo, lungo una strada incerta tra la città e la campagna, sulla destra un pendio risalito da vialetti fino alle modeste case in alto, ci viene incontro una donna bionda, dalla personcina aggraziata, quasi di ragazza: è lei…
È venuta l’età degli abbracci, at long last, delle confidenze veramente amichevoli, l’effetto lisciva degli anni antichi non c’è più… Saliamo alla sua piccola casa. Sappiamo che sullo sfondo c’è un marito, dei figli, ma sono fuori, non è chi...