1
Occhi del colore del mare, lui le sorride e le sfiora la mano, lei arretra di qualche passo, come un cerbiatto davanti al cacciatore.
«Cosa ci trovi di speciale in me? La mia vita è un casino, quello che amo finisce sempre per ferirmi, sono insicura, cambio umore quattro volte al giorno, mi perdo in una goccia d’acqua» sussurra lei tutto d’un fiato. Lui le stringe la mano più forte, i suoi occhi hanno cambiato ancora colore, il verde acqua è diventato blu tempesta. «Tutto quello che hai detto, e molto altro.»
Prima che lei possa rovinare il momento, lui la stringe a sé in un bacio.
Metto la serie tv in pausa e guardo la strada. È più forte di me, in pullman mi viene sempre la nausea, non posso guardare il cellulare per più di dieci minuti, ma meglio così, capitare per sbaglio in qualche profilo Instagram sbagliato non farebbe altro che peggiorare la mia situazione, già di per sé traumatica.
In un istante mi immagino Leila e Johnny, in una delle affollate spiagge di Riccione a giocare a pallavolo, si schizzano, si rincorrono e quando non hanno più fiato si rilassano sul lettino al sole. Il pullman prende una curva troppo stretta e la mia testa fa quattro capriole, deglutisco di colpo. Aiuto. Mi sento ghiacciare la punta delle dita, stringo forte il cellulare costringendomi a non guardarlo. Pensa a qualcos’altro, pensa a qualsiasi cosa, mi dico. Mi viene in mente, non so perché, una delle immagini più imbarazzanti della mia infanzia. Io che inciampo nella torta di compleanno rovinando il vestito nuovo e la mia reputazione.
Ok, pensare ad altro non funziona. Ma su un pullman non è che ci sia molto da fare, a parte sentire la musica, ma certo, infilo la mano in tasca alla ricerca delle mie preziose cuffiette usate poco prima. La prima cosa che estraggo è il volantino accartocciato di una pasticceria dove io e Johnny abbiamo mangiato una meringata mega, in centro. Ricordo come se fosse ieri lui che mi imboccava con la forchetta sporcandomi il naso di panna, il mio Johnny. No. Proviamo nell’altra tasca. Ed eccola lì, la catenina che mi ha regalato Leila l’ultimo giorno di scuola, ci sono le nostre iniziali, legate insieme come sorelle gemelle. Dio, quanto mi manca. Gli occhi mi si appannano di lacrime, ma le ricaccio indietro guardando il soffitto del pullman.
La signora seduta di fianco a me mi guarda stranita.
«Tutto bene cara?»
«Io? Ah sì, cioè: stavo pensando quanto sarebbe bello se al posto di questo rivestimento color topo ci fosse un vetro e si potesse vedere il cielo!»
Squittisco. La signora mi lancia un’occhiata compassionevole e se ne esce con un «Sì sì certo» per niente convinto. Mi volto a guardare fuori dal finestrino scuotendo la testa, sono un casino, il paesaggio si fa sempre più verdeggiante, la strada è un labirinto in salita di miei “ma” e “forse”, riesco a scorgere un coniglio fare capolino da un cespuglio, ma la montagna è ancora lontana.
Il mio cellulare suona. È Johnny. Rispondo senza pensarci due volte.
«Hey Evy, sei già arrivata?»
«Ciao! Johnny! No, quasi però…»
«Evy non ti sento, ma dove sei? Parla più forte.»
Maledizione, con le cuffiette sarebbe tutta un’altra cosa. Accidenti a me.
«Ho detto che manca poco!» ripeto, a voce più alta. La signora seduta accanto a me mi fulmina con lo sguardo.
«Evy senti, non so in quale parte del mondo tu sia ma non si sente niente, cioè, è come se fossi dentro a un buco nero.»
«Sono sul pullman e credo di essere quasi arrivata!» urlo, tutto d’un fiato. La signora sbuffa e sussurra qualcosa in un dialetto per me incomprensibile, ma intuisco che non si tratta di un complimento alla mia educazione, sicuramente. Ops.
«Ah ok! Ora ti sento. Io e Leila abbiamo fatto una partita pazzesca a pallavolo contro altri ragazzi, pensa che li abbiamo stracciati, avevamo fatto una scommessa prima di iniziare e ora uno di loro deve andare da una sconosciuta e dirle “ti amo fiorellino”.»
Johnny ride, cavolo come mi manca la sua risata.
«Ti passo Leila che ti vuole salutare, ci manchi Evy, mandaci una foto appena arrivi, voglio essere sicuro che ti trovi bene!»
Non faccio in tempo a rispondere che sento la voce energica della mia migliore amica.
«Ciao Honey! Come stai?»
Io e Leila ci chiamiamo “Honey” dalle elementari, e questo soprannome non è più cambiato, come la nostra amicizia, d’altronde. Johnny, all’anagrafe Giovanni, invece è in teoria il mio migliore amico, in pratica ho una cotta per lui da anni, ma non l’ho mai detto a nessuno, nemmeno a Leila, non posso rischiare di rovinare la nostra amicizia, noi tre siamo inseparabili, non riesco a immaginare la vita senza di loro.
«Abbastanza bene, Honey.»
Rispondo, poco convinta.
«Evy, non sento niente. Comunque sei una stronza e ci manchi da morire, non posso credere che non ti abbiano lasciata venire.»
Sospiro. I miei genitori hanno preso le vacanze a luglio, perché ad agosto c’è troppa gente in giro e bla bla bla. Risultato? I miei amici sono al mare con le famiglie ora, e io sto andando in montagna dalla nonna.
La nonna, che poi, chi la conosce? Praticamente non ci siamo mai viste, è impossibile per lei scendere a Milano da così lontano e quindi per me è una mezza sconosciuta, l’unica cosa che so di lei è che ogni cinque mesi ci invia delle buste con un piccolo fiore all’interno. Curioso, vero? Be’, ma a quanto pare la connessione in montagna non funziona così bene, e poi la nonna non può scrivere, ha perso la vista in un incidente da ragazza.
«Comunque Johnny dice di chiamarci appena arrivi, dobbiamo sentirci tutti i giorni! Così è come se tu fossi qui con noi! Ah, a proposito, ho una crush che sono sicura approveresti. Voglio assolutamente le foto dei tipi più fighi lì, hai notato qualcuno sul pullman?»
Do un’occhiata in giro, il ragazzo più giovane avrà almeno cinquant’anni. Ma tanto lo so già che sono destinata a rimanere single a vita, mi comprerò un gatto grasso e sarò felice così.
«Va be’, Evy non ti sento e mi sto rompendo di parlare a vuoto, chiamami quando arrivi così possiamo avere una conversazione normale. Ti amo Honey!»
«No Leila aspetta, volevo chiederti di…»
La signora sbuffa rumorosamente, ora mi sta proprio guardando male. La conversazione finisce così, nel vuoto, e io rimango con il cellulare in mano. Chiederti di portarmi una conchiglia, penso, prima di tornare a guardare fuori dal finestrino, sconfitta. Il pullman si è fermato per far attraversare un gruppo di pecore, una di queste si è messa proprio sotto al mio finestrino e mi fissa con il suo musetto bianco panna. Ciao dea della montagna, penso, non rendere la mia vita più incasinata di quella che è, voglio solo stare tranquilla, chiudere gli occhi e sperare che tutto questo passi più veloce di un lampo. La pecora muove la piccola coda, qualcosa nella sua espressione mi suggerisce un sorriso.
2
Siamo arrivati. Mi infilo il cappotto alzandomi dal sedile e noto, prima di scendere, che le cuffiette erano proprio sotto il mio sedere. Ops, fantastico.
Scendo dal pullman, una ventata d’aria fresca mi abbraccia, finalmente respiro. Attorno al pullman sono raccolte famiglie e bambini, tutti aspettano qualcuno, ma chi aspetta me? Non ricordo bene com’è fatta la nonna, dunque attendo che la folla si diradi. Il sole sta tramontando, i colori del cielo si tingono di rosa cipria e poi, di colpo, di rosso fragola. C’è un’anziana signora con i capelli argentei ferma a pochi metri da me, tiene in mano un mazzolino di fiori, accanto a lei un cane nero con una sola zampa bianca. È la nonna Lea. Mi avvicino timidamente.
«Nonna?» chiedo.
La nonna mi sorride, indossa sottili occhiali da sole con lenti color nocciola, il suo volto è rassicurante.
«Evy, sei tu?» mi domanda con un sorriso, allunga la mano e io le porgo la mia, la stringe, e per un attimo mi sento a casa.
«Sono così felice che tu sia qui!» ammette, lasciandomi nel palmo il mazzolino di fiori. Percorriamo una strada sterrata che costeggia un immenso prato, la nonna dice che la casa si trova al confine del bosco. È incredibile quanto sia assolutamente a proprio agio, sa esattamente come muoversi, quale strada prendere. Se non fosse per gli occhiali da sole nessuno direbbe che sia cieca.
«Ti aspettavi una vecchietta con il bastone bianco? Oppure pensavi che Lucky fosse un cane guida?» Mi legge nel pensiero.
«Be’, in effetti sì, almeno, le poche volte che ho visto un…»
Non so perché ma dire la parola “cieco” mi crea imbarazzo, ma la nonna sorride, tranquilla.
«Insomma, a Milano sono diversi» riesco a dire.
«Lo so, a Milano tutto è diverso da qui. Conosco queste strade come le mie tasche, è rimasto tutto come allora, quando ero giovane e non avevo ancora perso la vista. A destra qui c’è un albero di ciliegie, giusto? E dovrebbero essere già mature.»
Mi giro e lo vedo, un maestoso albero con succosi frutti rossi.
«Saresti così gentile da offrirmene una?» chiede la nonna.
«Certo!»
Mi avvicino all’albero e gentilmente ne stacco un paio, estraggo il cellulare e faccio subito una foto da condividere su WhatsApp con Leila e Johnny: “Io e la nonna sconosciuta mangiamo ciliegie al tramonto”. Invia. Ma le doppie v non spuntano, la connessione è troppo debole, accidenti. Lungo la strada verso casa della nonna respiro un silenzio nuovo, non è imbarazzante come mi aspettavo che fosse, mi chiedo se per lei sia lo stesso. Poco prima dell’ingresso la chiamata di mia madre non si fa attendere.
«Come è andato il viaggio? Hai trovato la nonna?»
A volte mi fa sentire una perfetta incapace, che poi il più delle volte è quello che sono, ma comunque. In ogni caso, dopo una serie di domande la cui risposta è ovvia o inutile, mi racconta che a Milano lei e papà stanno lavorando come pazzi, ho fatto bene a partire, mi dice. Questo è tutto da vedere, penso.
La casa della nonna è gigante, decisamente troppo grande per una donna sola. Più che una casa sembra una baita, è interamente fatta in legno scuro, al primo piano ci sono un salotto con un camino gigante, la cucina, il bagno e uno studio con carta da parati giallo ocra, al secondo piano due camere da letto, una della nonna e poi quella di mia mamma di quando era bambina, che ora è la mia. Ah, in teoria c’è anche una soffitta, quella però non la visitiamo.
Osservo la mia stanza, è piccola ma davvero carina, noto delle foto ingiallite di mia mamma da giovane appiccicate al muro, mamma a una festa nel bosco, mamma che fa il bagno nel lago, mamma insieme a un ragazzo che non è papà. Ok, forse non voglio sapere altro.
È strano pensare ai nostri genitori come ragazzi della nostra età, cioè, so benissimo che anche loro sono stati giovani ma… se penso a mia mamma da ragazza mi viene da ridere, non riesco proprio a immaginarla a combinare casini, lei che è una maniaca del controllo.
Tiro fuori il cellulare e controllo WhatsApp, il messaggio non è ancora stato inviato, sapevo che qui la connessione non funziona bene, ma non pensavo fosse una simile tragedia. Guardo fuori dalla finestra, la sera cala lentamente sopra il bosco che fa da confine, di sera mi sento sempre un’altra persona, sono più riflessiva ma anche più malinconica, altre volte invece sono carica e piena di vita, mi sento diversa comunque, è come se ci fossero due Evy, quella del giorno e quella della notte, ma chi delle due è quella vera?
La cena è pronta, sento salire dalla scala un profumo di arrosto e qualcos’altro di dolce che mi ricorda i lamponi. Seguo l’odore e zampetto fino alla cucina.
«La mamma mi ha detto del tuo provino di danza.»
La nonna taglia una fetta di arrosto. La danza. Il mio sogno. L’unica cosa che riesco a fare senza dire “ops” ogni cinque minuti.
«Sì, sarà a settembre, io ci spero tanto.»
La nonna versa il sugo di lamponi nel piatto.
«Non ci devi sperare, ci devi credere.»
È vero.
«È che quando danzo divento un’altra persona, nella vita reale sono super incasinata, nella danza invece tutto ha un senso.»
Ecco, un altro discorso che mette in risalto le due mie metà, le due Evy. La nonna mi porge il piatto, l’odore è sublime.
«E qual è il problema?» mi chiede.
«Il problema è che nella vita reale mi sembra impossibile che io sia in grado di ballare, e quindi mi mette ansia pensare al provino.»
La nonna tocca la tovaglia alla ricerca di una forchetta, vorrei aiutarla ma penso che sia scortese mettere in dubbio il suo senso dell’orientamento.
«Evy, ma non c’è differenza tra la danza e la vita reale, tu sei la stessa persona.»
Afferra la forchetta, ce l’ha fatta. Quanto è vero, io non sono due persone diverse, sono la stessa persona, solo un po’ complicata. Assaggio l’arrosto e subito mi torna in mente un ricordo da bambina, io in montagna con la mamma e la nonna a giocare in riva a un laghetto con una barchetta di carta durante una grigliata, ma non ero sola, c’era anche un’altra bambina bionda, il suo nome mi torna in mente come un lampo a ciel sereno. Alice.
3
Mi sveglio con i primi raggi del sole, assonnata, il cuscino è caduto per terra e la coperta è tutta appallottolata, il letto è un casino, ops, mia mamma dice che ballo anche quando dormo. Guardo l’ora sul display e sono le otto e trenta. Aspetta, le otto e trenta? In un giorno di vacanza? Ma la nonn...