PARTE TERZA
LO SVILUPPO DEL SENSO DI COMUNITÀ
CAPITOLO 8
IL BULLISMO COME DISAGIO DELLA COMUNITÀ
ALCUNI PRESUPPOSTI
Il nostro modello di intervento si basa sul presupposto, confortato dall’opinione di molti ricercatori,1 che il bullismo non sia un fenomeno riducibile alla dinamica bullo-vittima, ma piuttosto il sintomo di un disagio che investe una intera comunità.
Dal piccolo gruppo dei complici e dei gregari, al grande gruppo dei compagni di scuola e degli abitanti di un paese o di un quartiere, fino alla dimensione planetaria degli accaniti fruitori di social, la dinamica sottesa agli atti di odiosa prevaricazione postula sempre la presenza di un “coro” che assiste, parteggia, applaude alle imprese dei bulli e alla umiliazione delle vittime.
Queste considerazioni ci portano a riflettere sulla natura dei gruppi e dei sistemi sociali.
In quale comunità crescono oggi i nostri giovani? A quali gruppi partecipano? Che cosa vuol dire appartenere a un gruppo? Che peso hanno le emozioni e gli affetti nella vita di un gruppo?
Le considerazioni sulla vita affettiva delle aggregazioni umane ci condurranno a ragionare intorno alle modalità di conduzione di un gruppo e al peso e all’attenzione che i diversi modelli di leadership dedicano alla emotività (spesso inconscia) che condiziona i comportamenti collettivi.
Infine porteremo la nostra attenzione sulle proposte formative, per verificare se sia possibile educare alla cooperazione (e prevenire i comportamenti di prevaricazione) sviluppando in un gruppo il senso di comunità. Nella nostra trattazione faremo frequente riferimento alle storie di casi conosciute e raccolte durante il nostro lavoro formativo.
IL BULLISMO COME DISAGIO DELLA COMUNITÀ
Quale rapporto esiste tra i comportamenti di prevaricazione e lo stato di salute di una collettività? Le ricerche sviluppatesi dagli anni Ottanta a oggi a livello europeo sul fenomeno dei comportamenti aggressivi e del bullismo giovanile2 hanno messo in evidenza i fattori riscontrabili a livello macrosociale e microsociale che si ritiene abbiano influenza sulla dinamica bulli-vittime.
A livello macrosociale
Nella società in cui viviamo si rileva l’incidenza di una cultura dominante che esalta il mito della ricchezza e dell’affermazione personale, che promuove relazioni basate sull’esercizio della forza e del potere, che tende a emarginare e a perseguitare il diverso escludendolo dalla partecipazione alla vita sociale (razzismo, maschilismo, settarismo).
I mass media e la pubblicità esaltano le figure maschili e femminili di successo, propagandando una immagine della società rigorosamente divisa tra “vincenti” e “perdenti”. Inoltre la massiccia presenza di atti di violenza nei vecchi e nuovi media, secondo Oliverio Ferraris,3 può incidere sui ruoli dell’aggressore (aumento dei comportamenti violenti), della vittima (sottomissione per paura di subire atti di violenza) o dello spettatore (desensibilizzazione emotiva e aumento della indifferenza verso le prepotenze subite da altri). Gli eventi collettivi messi in scena dal mondo dello spettacolo (partite di calcio, talk show, reality show, tribune politiche ecc.) rispecchiano una concezione della società come “giungla”, dove ha la meglio chi riesce a sottomettere gli altri con la forza e con l’astuzia, dove ha ragione chi grida più forte e chi usa i colpi più bassi, dove la correttezza e il fair play vengono irrisi come segno di infantile ingenuità.
Le vittime dovrebbero ringraziarci − ci disse durante una assemblea scolastica uno studente di quinta superiore − perché con il nostro “trattamento” gli insegniamo a vivere. La vita è una lotta e se non impari a difenderti sei destinato a soccombere.
La stessa forte personalizzazione della politica che, messi da parte i riferimenti ideali, tende a far coincidere partiti e schieramenti con alcuni personaggi mitizzati ed enfatizzati a dismisura, sembra adombrare la nostalgia di leader autoritari, capaci di risolvere situazioni complesse con un decisionismo deresponsabilizzante.
Già nel 20004 Pietropolli Charmet segnalava come tra i giovani, cresciuti spesso come figli unici in una famiglia «affettiva e non più normativa» e affidati a padri latitanti e a madri che, per salvaguardare la propria libertà d’azione, tendono ad anticipare i tempi della loro socializzazione, si riscontrasse grande precocità sociale, unita però a grande fragilità.
In altre parole, l’anticipazione delle esperienze sociali, non sufficientemente supportata e accompagnata, esponeva già i ragazzi all’alba del secondo millennio a esperienze frustranti e fallimentari. In una indagine svolta sempre nel 2000 per conto dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia5 sottolineavamo come l’educazione ricevuta in famiglia, se aveva saturato il loro bisogno di conferme affettive, non li aveva però addestrati al senso del limite, alla necessità di conciliare la ricerca del piacere con i vincoli della realtà. Si parlava, a proposito degli adolescenti di quegli anni, di «incapacità di stabilire relazioni oggettuali vere», cioè di riconoscere l’altro come soggetto altro da sé, dotato di propri diritti, bisogni, aspettative. Non per nulla appariva già così difficile, per i giovani di quella generazione, costruire rapporti di amicizia e legami affettivi duraturi, là dove prevalevano i legami deboli e i rapporti “usa e getta”.
Recentemente Matteo Lancini ha parlato dei “ritirati sociali”6 cioè di quei ragazzi che, intorno alla preadolescenza o all’adolescenza, si ritirano da scuola e da tutti i contesti sociali, rifugiandosi in internet.
Che cosa spinge questi ragazzi a ritirarsi dalla scena sociale trincerandosi dietro a uno schermo? Secondo Lancini, in base ai risultati di un lavoro clinico trentennale, sono la difficoltà ad affrontare i compiti evolutivi tipici di questa età, il crollo degli ideali e le sofferenze psicologiche a spingere questi ragazzi a sentirsi inadeguati, non all’altezza delle aspettative. Non è dunque internet, in sé, la causa della situazione. Una riflessione va fatta piuttosto sul modello sociale imperante, basato molto sull’estetica e sulla popolarità e poco sui meriti e sulla competenza. Sicuramente, i ragazzi socialmente ritirati esprimono una contestazione, in qualche modo, rispetto a questo modello di società competitiva.
Oggi, come non mai, avere successo tra i coetanei è un’esigenza esasperata. Il concetto di popolarità si è ampliato, perché non basta più essere popolari a scuola, ma si cerca la popolarità attraverso la rete, ossia la popolarità generazionale in tutto il mondo. In questo senso, internet c’entra col fenomeno del ritiro sociale, nel senso che c’entra con questo concetto di popolarità esteso.
Questa “fragilità” che ripropone la difficoltà nella costruzione delle relazioni sociali, affligge tanto la potenziale vittima, quanto il potenziale bullo e tutto il suo entourage.
Torna alla mente quanto emergeva dalle storie di vita narrate nella prima parte di questo volume: l’assoluta assenza di empatia che caratterizza il comportamento di tanti “bulli”, del tutto incapaci di riconoscere nelle loro vittime dei ragazzi come loro, dotati di sensibilità e dignità personale.
In una intervista a un bullo ormai ventenne, che chiameremo Marco, ricordiamo che ci aveva colpito il tono orgoglioso e spavaldo con cui parlava delle imprese compiute quando andava a scuola. La sua vittima preferita era Michael, un ragazzo di colore: all’inizio gli faceva scherzi leggeri, come per esempio bersagliarlo con palline di carta; successivamente, dopo aver capito che Michael non si sarebbe ribellato, era passato a scherzi più pesanti, come spalmare la colla sulla sua sedia. Scoperto, Marco venne espulso dalla scuola, ma anche quel provvedimento sembra oggi rappresentare per lui un motivo di vanto. Dai suoi discorsi traspariva che neppure conosceva Michael: non sapeva quali fossero i suoi interessi, né cosa facessero i suoi genitori. Come i suoi compagni si era fermato all’apparenza: era bastato vedere il colore della pelle e intuire la fragilità del compagno per designarlo come vittima.
Possiamo infine aggiungere che il ragazzo che prevarica può trovare legittimazione al proprio comportamento in alcune convinzioni, imparate dagli adulti e legate al disimpegno morale, che chiamiamo stereotipi rinforzanti (ovvero gli otto meccanismi psicologici, indicati da Bandura7 attraverso i quali sarebbe possibile allentare i controlli interni). Essi sono:
•giustificazione morale: è bene mentire per evitare guai ai propri amici;
•etichettamento eufemistico: dare pacche e spinte non è altro che fare giochi un po’ agitati;
•confronto vantaggioso: rovinare le cose degli altri non è molto grave in confronto a quello che fanno le persone che picchiano la gente;
•diffusione di responsabilità: non è giusto rimproverare un ragazzo che ha contribuito solo in piccola pa...