1
Le mie Langhe
A volte viaggiamo per scoprire qualcosa di nuovo e altre volte perché abbiamo solo bisogno di protezione. Ognuno ha la sua «Macondo», e spesso una neanche basta.
Una delle mie Macondo sono le Langhe. Più che un luogo, è una forma di ossigeno.
Non sono mai stato astemio, in Langa. Senz’altro è colpa mia.
Non ci sono mai stato male, in Langa. Senz’altro è merito suo.
In Langa si rinasce un sacco di volte. Ci sono stato, e quindi ci sono rinato, universitario. Da solo, in coppia. Con amici. Da solo, in coppia (però un’altra, e un’altra ancora). E con altri amici.
La mia Langa è quella che si allarga senza confini e senza che quei ventitré giorni ad Alba abbiano mai avuto fine, perché la Langa è libera e non può avere fine.
La mia Langa sa di nocciola nell’aria. È la Langa dimenticata del Monregalese, come pure quella che sale su fino a Mombarcaro e a puntellare il cammino ci sono le steli a memoria di chi è nato libero e morto partigiano. Ancora più libero.
La mia Langa sono i vini concupiscenti di Ezio Cerruti, il Barolo di «Citrico» Rinaldi, il Barbaresco di Paolo Veglio. E il Dolcetto lento e silenzioso di Flavio Roddolo. Il quale, va da sé, è anche più lento e silenzioso dei suoi vini.
La mia Langa sono le note di Mark Knopfler nella piazza di Barolo, e io e lei arrivammo tardi perché prima avevamo bevuto e riso troppo. Sono le zolle magiche che donano – solo loro – quel vino. Sono il Tanaro che controlla tutto, sono l’Hotel Brezza e le Collisioni letterarie con le piazze sempre piene. Anche per me. Persino per me, a conferma dell’infinita misericordia di questi posti che conosco così bene da non riuscire a perdermici neanche se voglio.
E a volte voglio.
Le mie Langhe sono i ristoranti provati: quasi tutti. Sono i vini bevuti: quasi tutti. Sono le nottate a Cravanzana, a Mango e Valdivilla. Sono quell’agriturismo in cui c’era un bovaro del bernese che mi parve ambire al lusso d’essere immortale. Sono le viuzze che diventano vigne, le vigne che diventano viuzze.
Le mie Langhe sono una sospensione deliberata. Resistenza, tempo che passa e Bicerin dei golosi.
Le mie Langhe sono Beppe Fenoglio, ultimo passero sul ramo, col suo nasone a strapiombo sulla collina e le parole scortecciate finché se ne scorga unicamente il cuore.
Le mie Langhe sono questi grissini, sopra un tavolino apparentemente anonimo nel centro di Alba, che cercano un abbinamento perfetto con questo bicchiere di rosso e questo nostro presente.
E lo trovano.
Solo qui, ma lo trovano.
2
La follia del lago
«Vidi uno spacco cuneiforme tra le montagne sull’altra sponda e pensai che doveva essere Luino.» Così scrive Ernest Hemingway in Addio alle armi.
Molto meno poeticamente, io associo Luino a un flop e a una strana signora.
Ivano Fossati mi raccontò una volta come delle tournée si ricordasse anzitutto la data meno fortunata. «C’è sempre una data, anche nel tour perfetto, in cui non solo non fai il tutto esaurito ma neanche arrivi a metà sala. Paradossalmente, col passare dei giorni, quella data diviene la più amata. E non per masochismo: perché vorrai sempre particolarmente bene a quei pochi che quella sera c’erano.» Ivano aveva in mente una data di Modena, nella seconda metà degli Ottanta. Io, nel mio piccolo, penso a Luino.
Durante una tournée in teatro in cui feci tutti sold out, a Luino non funzionò quasi nulla. Qualcuno addusse motivazioni politiche: «Ci son troppi leghisti, figurati se vengono a sentire un comunista grillino come te». Non saprei dirvi. Di sicuro, a Luino, non feci neanche metà sala. Accadde solo lì e me lo ricorderò per sempre. Come per sempre mi ricorderò chi quella sera mi plaudì, sfidando la concorrenza che mi sparò contro il centrodestra: una sorta di galà berlusconiano con Adriano Galliani ospite d’onore. Capite bene che essere superati da Galliani un po’ di male lo fa.
Il secondo ricordo immediato che associo a Luino è quello di una strana signora. Disse di chiamarsi Maria. Ero appena arrivato in città e guidava Amanda, amica e tour manager. All’altezza della stazione – eravamo in cerca dell’albergo –, la signora Maria si sbracciò in mezzo alla strada. Amanda inchiodò. La donna, assai bizzarra e sulla settantina, ci disse di non sentirsi bene e ci chiese di portarla in farmacia. Così facemmo. Lei si sedette dietro di noi e, per l’intero tragitto, ci ricordò che saremmo morti tutti ma che Dio – ciò nonostante – ci voleva bene. Avrei voluto risponderle: «Mò me lo segno», come Massimo Troisi in Non ci resta che piangere, ma preferii glissare. Poi la signora scese, e ieri come oggi penso che stesse benissimo. Derive mistiche a parte, intendo dire.
Ci fu un altro strano evento, a dire il vero. Accadde poco dopo. Un ragazzo mi portò a teatro e, prima di fermarsi, fece una sosta. Lo accompagnai. Quando tornammo al parcheggio, una signora – no, non la stessa di prima – cominciò a inveire a caso. Sosteneva che il ragazzo, parcheggiando, avesse urtato la sua macchina, danneggiandola. Posso giurarvi che non era vero niente, ma la signora recitava molto bene ed era mossa da una pazzia calcolatissima.
Chiesi al ragazzo se gli fosse mai capitato. Lui mi rispose in maniera sibillina: «A Luino siamo tutti un po’ strani. Sa, è il lago».
Mentre pensavo di essere su Scherzi a parte, rimasi poi travolto da uno strale che mi recitò il barista quarantenne durante l’aperitivo prespettacolo. Ce l’aveva con Enzo Iacchetti, nato in provincia di Cremona ma di casa a Luino. Iacchetti, secondo lui, aveva denigrato la città tratteggiandola come il luogo più triste del mondo o giù di lì. Cercai subito in rete quell’intervista. Il barista alludeva a un servizio video pubblicato sul sito di «Repubblica» nel 2017. Iacchetti aveva sostenuto questo: «Il lago? Luogo di depressione, e forse è per questo che la risposta è andare via, qui non c’è tanto da ridere». Massimo Boldi era stato ancora più duro: «Luino? Piove sempre, è un po’ il pisciatoio d’Italia, forse è per questo che sono nate le barzellette». Per la cronaca, Boldi era stato premiato Ambasciatore di Luino nel mondo nel dicembre precedente. Al coro aveva partecipato anche Francesco Salvi, pure lui luinese, che aveva parlato dei «tanti confini» di Luino, delle Brigate Rosse e dei suoi passaggi più o meno segreti. Per poi dire: «Quello che ci accomuna tutti è la follia del lago. Luino non offre niente, anche per questo ci sono mille pulsioni che ti spingono ad andare via».
Il risentimento del barista, più che giustificato, era condiviso da molti suoi concittadini. Mi posi la più ovvia delle domande: avevano ragione tutti quei comici famosi? Certo, dalla mia breve e non proprio fortunatissima esperienza luinese potevo desumere una certa stranezza del contesto. Forse dipendeva dal lago, dall’esser terra di confine e da quel senso inevitabile di isolamento che ti viene se nasci e vivi in una città da cui non passi mai per caso, ma che devi voler attraversare. La mia, però, era un’esperienza oltremodo superficiale.
La domanda era tuttavia un’altra: erano davvero critiche le parole di quei comici? O forse suggerivano, una volta superata la prima chiave di lettura (e dunque la sgradevolezza che ne conseguiva), qualcos’altro?
Certo, anch’io quando sento parlare «male» di Arezzo nel mio piccolo mi incazzo. Proviamo però ad andare oltre: come può plasmarci la realtà in cui cresciamo? Può donarci palesemente tutte le sue caratteristiche, belle o brutte che siano. Oppure – o magari contemporaneamente – può spingerci a superare quelli che ci paiono limiti contingenti fino addirittura a rovesciarli. In questo senso, la vera o presunta «depressione» di Luino ha indotto molti ragazzi a reinventarsi comici per supplire a quell’assenza di ilarità dettata – dicono loro – dal lago e dai tanti confini. Se Luino è la città dei comici, ed è un dato di fatto, è perché ha spinto quei comici a divenire tali. Quindi non è colpa, bensì merito di Luino.
Vista così, Luino assurge a madre severa che nulla o poco concede ai suoi figli, ma che così facendo li induce a migliorarsi. A trarre il meglio da se stessi. Magari, chi lo sa, se Luino avesse coccolato troppo i suoi figli, avrebbe finito col non aiutarli. Magari, se Luino non fosse così, il luinesissimo Piero Chiara non avrebbe mai scritto quel che ha scritto. Per esempio questo, in Vedrò Singapore: «Cosa aspetta lei? La felicità? Allora, della vita non ne capisce nulla».
Evidentemente, a Luino, la felicità esiste. Solo che devi fingere che non esista. Così, quando arriva, appare ancora più bella.
3
Borghi d’altri tempi
Le grandi terre, i pochi centri. Il Gran Sasso. La Maiella. L’Aquila. La «signora bionda dei ciliegi», una delle molte muse di Ivan Graziani. Corvara, paese abbandonato e riscoperto poi da Maccio Capatonda. Il Trebbiano di Valentini ed Emidio Pepe. Le grotte di Stiffe. Teramo e poi Chieti. Sulmona, che mi ricorda anche quel locale etnico-abruzzese e il tipo che lo ha chiamato BioNico, perché lui si chiama Nico e perché conosce il senso autentico della parola «bio».
L’Abruzzo in cui mi rifugio spesso ha per me il sapore delle vaste distese, poche parole e vecchi che ti dicono cosa pensano senza dirtelo. L’ho scoperto, in molte sue parti, con una donna fiera e dolce, Federica. Una delle tante che mi ha dato molto più di quanto io abbia dato a lei. Ricordo la sua Giulianova. L’enoteca degli zii a Mosciano Sant’Angelo, letteralmente dentro una torre. La Tenuta Testarossa di Pescosansonesco, dove ci rifugiammo qualche notte.
E poi Castiglione a Casauria. Uno di quei luoghi dove mai ti porterebbero i tour operator. Sbagliando, perché il viaggio è anzitutto là dove non sembra poter esserci. Provincia di Pescara. Credo faccia parte della Comunità montana Vestina. Neanche mille abitanti. Quel non so che di abbandonato: quel misto para-dannunziano di problema sociale e propensione estetico-pittoresca. Ci capitava di passarci e ogni volta notavamo un bar-ristorante che pareva d’altri tempi. Il nome, Giacomino, era anch’esso e a suo modo un salto temporale.
Ci dicemmo, Federica e io, che sarebbe stato divertente un giorno berci qualcosa. Lo facemmo, una sera. Ordinammo il vino che volevano loro. Il signore, forse Giacomino e forse no, versò due bicchieri generosi. Non era buono, non era cattivo. Era una madeleine.
4
L’isola che non c’è
Occorre staccarsi dalle arterie automobilistiche, altrimenti non vedi nulla. Men che meno la Ciociaria. Microcosmo sconosciuto e assai cangiante nei confini. Gli storici non hanno mai capito dove dovesse cominciare e casomai finire. Certo è terra fiera, se è vero che la cosiddetta «Ciocerìa della Croce» fu centro di una strenua resistenza all’occupazione francese. Si racconta addirittura che tale opera di indomito brigantaggio andò dall’inizio della Repubblica romana fino al 1815. I ribelli, che è parola preferibile e credo ben più calzante alla volutamente equivoca «briganti», sottrassero al controllo militare straniero parte dei monti Ausoni, quelli tra Roccasecca dei Volsci e Priverno.
Tutto questo, ovviamente, non lo so e nemmeno lo immagino, mentre riscopro Veroli una volta di più. Ci sono già stato, due o tre vite fa, e anche allora quel suo stare appollaiata sui monti Ernici mi piacque molto. Non guido io, ma il direttore della compagnia teatrale, Simone. È stanco quanto e più di me, ma non lo dà troppo a vedere.
Stiamo andando verso l’isola che non c’è, e che a pensarci bene nemmeno è un’isola.
Prima però ripenso a Fumone. L’ho scoperto anni fa, carambolando tra Fiuggi e Alatri. Me ne parlò Sergio, un caro amico. Fu lui a raccontarmi di quel luogo fermo nel tempo. Ancora provincia di Frosinone, ancora monti Ernici e Lepini. Se ne sta in cima a una sorta di cono gigante, lo vedi da lontano e, se hai il coraggio di entrarci dentro, è un piacere esserne inghiottiti.
Fumone è uno di quei posti che ti danno l’illusione di sentirti Benigni e Troisi in quel vecchio film. Io lo chiamo «effetto Frittole», ed è un effetto che mi piace molto. È come un isolarsi dal contingente. Uno straniarsi lecito dal mondo. Niente alcol né droga: per sbronzarsi, a volte, ti basta un paesaggio.
A Fumone relegarono papa Celestino V, quando non ebbe più voglia di pontificato. A Ratzinger è forse andata meglio. O magari no. Vai a sapere. Si dice che anche Tarquinio il Superbo riparò a Fumone quando lo cacciarono da Roma. Ebbe senz’altro buon gusto nell’elaborare il piano di fuga.
L’isola che non c’è, nel frattempo, si avvicina. Attorno a noi, quel paesaggio che da greggi reiterati diviene «silenzio greve», per dirla con Guido Piovene, larghi vuoti, verde spaziato e una «solennità e dignità che respinge il particolare e il minimo». Nella classifica delle bellezze spigolose e sottaciute, la Ciociaria sta con agio nella top ten italiana.
L’isola che non c’è è l’unica cittadina ad avere una cascata in pieno centro storico. Le cascate, anzi, sono due. Il signore che ci accoglie ci dice che quella principale, la cascata Grande o cascata Verticale come la chiamano loro, andrebbe vista più che altro al tramonto. E sia. È proprio nel centro abitato, accanto al castello Boncompagni Viscogliosi. Il signore, che si chiama Pino o almeno io mi ricordo così e quindi chiamiamolo Pino, ci dice che la fortezza sorge su un masso. Ed è tutta colpa di quel masso, che sbarrando il corso del fiume Liri lo costringe a ramificarsi. Di più: a formare due cascate. Una è la cascata Grande, l’altra la cascata del Valcatoio.
Sono alte ventisette metri, ci spiega. La cascata del Valcatoio è meno spettacolare, ma solo perché il salto dell’acqua è meno inclinato. Come dire: non c’è il necessario strapiombo. Non c’è la necessaria vertigine. Quasi che la natura, conscia di aver già esagerato una volta, non avesse voluto esagerare ulteriormente. La natura, si sa, a differenza di noi umani detesta la ridondanza.
L’isola che non c’è, e che neanche è isola appieno, si chiama Isola del Liri. Nel frattempo è davvero tramonto, che si addice eccome alle cascate. Pino aveva ragione.
È un prodigio così magnificente che chiedo il bis a tarda notte, dopo lo spettacolo e dopo la cena.
Ci fermiamo poco distanti, mentre l’acqua trafigge a scroscio le feritoie della notte. Cerco nello zaino una delle mie Polaroid. Scatto, ma quel che ne esce non è esattamente quel che vedo. Spesso la bellezza impressiona ma non si fa impressionare. Ed è una fortuna.
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Autogrill
Autostrada A14, ore due di notte o giù di lì. Ho tre ore di viaggio alle spalle e, prima, due di spettacolo a Sant’Elpidio a Mare. Non ho cenato e neanche ne ho voglia, ma forse è il caso di prendere qualcosa. L’hotel è a Cesena Nord, per spezzare il viaggio che al mattino mi condurrà a Merano.
Area di servizio Rubicone Est. Gli autogrill mi sono sempre piaciuti. Soprattutto senza le fiumane di gente, quindi all’alba o di notte. È u...