Barnaba il mago
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Barnaba il mago

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Barnaba il mago

Informazioni su questo libro

L'inverno a Bauci non è uguale a quello della Costiera: la pioggia batte forte e dai monti Lattari soffia un vento di tempesta che, se uno non c'è abituato, mette un po' di paura. È in una sera così, mentre le imposte sbattono e le nuvole coprono il cielo, che in paese arriva un misterioso sconosciuto. Capelli e barba bianchissimi, lungo pastrano nero, lo straniero non fa in tempo a presentarsi che già corrono voci su di lui. Chi è? Da dove viene? Cos'è venuto a fare qui, che vuole? La targa appesa alla sua porta recita: "Mago Barnaba, maestro di esoterismo, sacerdote di riti karmici, esperto di sciamanesimo, astrologia, tarocchi, chakra, malocchi, fatture". La curiosità è tanta, ma per le strade di Bauci un mago non s'è mai visto, e ad aumentare la diffidenza ci si mette pure don Balo, il parroco, che durante l'omelia non perde occasione per ricordare che ciarlatani e imbonitori non sono altro che servi del demonio. Resistere alla tentazione però è difficile, anche perché pare che Barnaba, con le sue profezie, non sbagli un colpo. In fondo, a fare domande che male c'è? È così che i baucesi, uno dopo l'altro, aspettano l'ora giusta per consultare il mago in gran segreto e scoprire cosa riserva loro il futuro… Sullo sfondo inconfondibile della "sua" Costiera Amalfitana, Franco Di Mare ci regala un nuovo, intrigante romanzo in cui vizi e virtù dei protagonisti si confondono con i nostri. E ci ricorda che tutti, nella vita, abbiamo bisogno di un pizzico di magia.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817096904
eBook ISBN
9788858692486

1

L’auto si fermò davanti al portone mentre veniva giù che Dio la mandava.
A Bauci l’inverno non era uguale a quello in Costiera. Ad Amalfi – per dire – era diverso. La pioggia sembrava meno pesante quando batteva sul sagrato della Basilica e spazzava il lungomare dell’antica repubblica marinara. Anche se i grandi alberghi erano andati in letargo, quando arrivava il freddo la Costiera manteneva un’aria di sufficienza, una superbia naturale, come l’eleganza che hanno certe donne che girano per casa con il maglione largo e si acciambellano sul divano con un libro tra le mani.
A Bauci invece tutto era più ruvido, paesano: le nuvole si mangiavano le cime nere delle colline e il vento che scendeva dai monti Lattari s’infilava per le stradine del paese con un verso cupo come un lamento, che se uno non c’era abituato, quando scuriva, metteva perfino un po’ paura.
Quella sera Carmelina aveva chiuso il negozio di frutta e verdura prima del solito. Con quel tempo da lupi, di clienti non se ne sarebbero visti. E così, una volta a casa, quando aveva sentito l’aria gonfiarsi, si era alzata da tavola ed era andata ad assicurarsi che gli scuri fossero bloccati, lasciando il suo Venanzio a litigare con un segretario di partito che sproloquiava al telegiornale. L’ultima volta che aveva dimenticato le imposte aperte durante un’arrevotata come quella che stava arrivando, il vento per poco non se l’era portate via tutte.
Fu allora che lo vide.
Dall’auto che si era accostata al portone di fronte, era appena sceso qualcuno con un impermeabile tirato sulla testa. Carmelina strinse gli occhi per vedere meglio. Quello era il portone di casa Fasulo. Due anni prima, la vedova buonanima era stata chiamata da Nostro Signore Gesù Cristo a raggiungere il marito, il cavalier Aristide, sposo amato e onorato per tutta la vita – anche se non le sarebbero mancate né occasioni né possibilità, a detta di chi sapeva le cose – e alla cui memoria aveva fatto dedicare una messa cantata l’ultima domenica di ogni mese e una targa con tanto di nome su una panca della cattedrale di Sant’Eufrasia, patrona del paese.
Che cosa ci faceva quell’uomo davanti al portone della vedova Fasulo?, si chiedeva Carmelina, stringendo ancora di più gli occhi per superare la coltre di pioggia, nel tentativo di dare un volto alla misteriosa sagoma scura.
La faccenda era strana assai. La casa era disabitata da tempo. I figli non vivevano a Bauci ormai da anni. Carmine – il primo – era sparito in Australia, perduto dietro alle gonne (poca stoffa a dire il vero, anzi quasi niente, secondo le donne del paese) di una turista sfacciata e scostumata; Guglielmo invece era stato rapito dal lavoro su al Nord, appena uscito dall’università. Con la scomparsa della madre – pace all’anima sua – le loro visite si erano diradate fino a scomparire del tutto. E così l’appartamento di famiglia era rimasto vuoto. Ma di sicuro quell’ombra che adesso armeggiava intorno alla serratura del portone non poteva appartenere a nessuno dei figli del cavaliere: i fratelli Fasulo erano tutt’e due magri magri e piccoletti, proprio come la mamma. Invece quel tipo che si stava pigliando tutta l’acqua che precipitava nel vicolo, per quanto fosse nascosto dal pastrano, si capiva che era un omaccione grande e grosso.
E allora: chi era quell’uomo? E, soprattutto, che cosa ci faceva lì?
Carmelina non era un tipo pettegolo. Normalmente si faceva i fatti suoi. “Campa e fa’ campa’” le aveva insegnato la buonanima di suo padre. E lei, per quanto la natura l’avesse dotata di una dose di curiosità superiore alla media, aveva sempre cercato di attenersi a quel precetto.
Però bisogna ammettere che le circostanze erano curiose. Insomma, la faccenda assomigliava tanto alle storie che si vedono in quel programma che fanno la sera alla televisione, quello dove il conduttore racconta la vita di persone che, pure a osservarle con attenzione mentre ti sorridono dalle fotografie, mai ti aspetteresti che possano nascondere inciuci così terribili.
E se – Dio non voglia! – si trattava di un malintenzionato? Poteva pure essere, no? Alla sola idea, Carmelina provò un brivido. Non sarebbe stata mica la prima volta, pensò. In paese era già successo tre estati prima, ma ancora se ne parlava al bar Arturo, nel suo negozio e nella merceria di Adelaide Strazzullo, la perpetua, conosciuta come Radio Bauci per la capacità di diffondere voci e notizie in maniera rapida e capillare.
Quella volta un lestofante si era introdotto in casa della famiglia Iaccarino mentre dormivano tutti (padre, madre e tre bambini), e s’era portato via ogni cosa: risparmi e gioielli, perfino le collanine e i braccialetti della prima comunione di Tonino, il più grande dei tre figli. Nessuno si era accorto di niente fino al mattino dopo. Non si era mai scoperto chi fosse l’autore del furto e i carabinieri avevano detto che era andata anche bene, perché chissà che cosa sarebbe potuto succedere se qualcuno della famiglia si fosse svegliato mentre il ladro era ancora in casa, intento a rovistare nei cassetti. Il maresciallo aveva detto che si era trattato di sicuro di un criminale in trasferta, di quelli che d’estate battono le rotte del turismo e attraversano i luoghi di villeggiatura seguendo l’odore dei soldi, come fanno i cani che si piazzano fuori dalle cucine dei ristoranti. Di buono c’era che, così com’era comparso, così era sparito: «Quelli sono tipi da un colpo e via; non restano mai nello stesso posto oltre il necessario per non correre il rischio di essere pizzicati» aveva sentenziato. «Arrivano, controllano la situazione per un giorno o due, fanno il colpo e se ne vanno.»
Carmelina faceva la verdummara, aveva studiato poco e mai si sarebbe sognata di mettere in dubbio quello che diceva il maresciallo, che di certe cose di sicuro ne sapeva più di lei. Però per molto tempo, quando chiudeva bottega e rientrava a casa, aveva preso l’abitudine di mettere la sbarra di ferro dietro la porta e passare in rassegna scuri e finestre prima di andare a letto. Perché non si sa mai: magari il maresciallo aveva ragione, ma metti che quello ci ripensava e tornava in paese? Solo a immaginare la scena le mancava l’aria: una povera cristiana sta dormendo ignara e tranquilla dentro casa sua mentre una persona incappucciata si muove nel buio, passando da una stanza all’altra. Una cosa spaventosa. E non doveva essere stata la sola a fare quel pensiero brutto, perché per settimane, quando faceva scuro, per le stradine di Bauci si erano sentite chiavi e chiavistelli tirare giù mandate di metallo a bloccare porte e portoni, in un clangore da corte medievale.
Magari quel mammasantissima là sotto aveva saputo che la casa era disabitata e adesso l’avrebbe svuotata di ogni cosa con comodo e tranquillità, rifletté Carmelina: tu vallo a sapere.
Mentre la verdummara, spaventata ed eccitata, pensava a come avrebbe raccontato quella storia alle prime clienti che avrebbero messo piede nel suo negozio la mattina dopo, l’uomo era riuscito ad aprire il portone. Poi era tornato verso l’auto e, sempre con l’impermeabile sulla testa, aveva aperto il portabagagli e ne aveva estratto due grosse valigie. In un lampo se l’era tirate dietro ed era sparito dentro casa Fasulo, chiudendosi il portone alle spalle.
«Chi è?» chiese Venanzio che intanto, non vedendola arrivare, aveva raggiunto la moglie e si era accostato alla finestra per buttare un occhio pure lui.
«Non lo saccio» rispose lei. «Certo che è proprio strano, perché non assomiglia a nessuno dei figli della signora Fasulo» aggiunse.
«Ah no?»
«Eh no. I fratelli Fasulo sono piccerilli. Non te li ricordi? Questo qua invece lo hai visto pure tu quant’era gruosso…»
«E chi po’ essere, allora?» chiese ancora Venanzio.
«Non tengo proprio idea» alzò le spalle Carmelina.
«Certo è che non si tratta di un delinquente. Questo è poco, ma sicuro» fece il marito.
«Ah no?»
«Eh no» disse lui, con fermezza.
«E a te chi te lo dice?» chiese Carmelina girando la testa verso suo marito e mollando per un attimo il portone di casa Fasulo, che ormai da alcuni minuti non dava più segni di attività.
«Ragiona, Carmeli’: normalmente i delinquenti le valigie se le portano via dalle case. Io non aggio mai visto ’nu mariuolo entrare dentro un appartamento per lasciarci un paio di valigie in regalo» sentenziò Venanzio.
«E se invece gli servono per metterci dentro tutto quello che si arrobba dentro casa?» domandò Carmelina.
«È giusto. Ma se fosse come dici tu, allora le valigie dovevano essere vuote, leggere. E invece – l’hai visto pure tu – quelle erano belle chiene chiene, perché ha faticato a tirarsele appresso» concluse Venanzio, e sorrise, con la soddisfazione che soltanto una spiegazione rotonda e sicura riesce a dare.
Carmelina annuì, convinta. Il ragionamento non faceva una piega, anche se non toglieva niente al mistero. Se non era un ladro, allora chi era quell’uomo? Non c’era contezza dell’esistenza di parenti della famiglia Fasulo. E se non lo sapeva lei, che negli ultimi tempi consegnava la spesa alla vedova fino in casa, allora non lo poteva sapere nessuno.
Però la spiegazione di suo marito l’aveva un po’ tranquillizzata: di sicuro non si trattava di un ladro. Tornò a guardare il suo uomo che, intanto, si passava lo stuzzicadenti da un lato all’altro della bocca, come faceva quando si sentiva a posto. Per Carmelina non c’erano dubbi: suo marito era l’operatore ecologico più bello della Costiera. Alto, magro, coi capelli neri appena un po’ brizzolati sulle tempie. Quando metteva il gel sembrava un ballerino di tango. L’aveva corteggiata come si faceva una volta: con gentilezza, romanticismo e decisione. E lei che – come si dice – era rimasta signorina fino a quel momento, aveva detto il sì più importante della sua vita quando ormai non ci pensava proprio più.
«Andiamo a dormire. Domattina vediamo di capire meglio» le disse lui. E, una volta in piedi, la esortò dandole una piccola pacca sul sedere. Carmelina si avviò dondolando, morbida e sinuosa come la gondola che avevano preso quella volta in viaggio di nozze.
Venanzio la seguì con lo sguardo mentre entrava in camera da letto. Chissà perché, quando fuori pioveva, a lui venivano sempre in mente certi pensieri.

2

«Ma voi l’avete letto bene? Voglio dire: l’avete letto attentamente, oppure gli avete dato solo un’occhiata di sfuggita, così, senza attenzione?»
Se a fare una domanda di questo tipo era il professor Gaspare Mangiafico, c’era da stare molto attenti prima di azzardare una risposta. Perché se mai qualcuno si fosse preso la briga di rispondere che sì, la questione era stata vagliata a dovere, allora il vecchio titolare di cattedra di latino e greco del Giulio Cesare, terrore di sei o sette generazioni di studenti, dopo aver preso gli occhiali da lettura dal taschino della giacca – secondo un rituale noto e collaudato – avrebbe provveduto a spiegare all’incauto interlocutore, a colpi di citazioni, che affidare il proprio giudizio alle prime impressioni è un’ingenuità che commettono quelli destinati a non cogliere mai il vero senso delle cose. E poi, in una mezz’oretta di dissertazioni piene di Virgilio, Omero e Cicerone, avrebbe chiarito il come e il perché, spolpando il malaugurato come una coscetta di coniglio al coccio.
Ma a Bauci ormai erano rimasti solo i turisti a cadere in quel tranello. E in certe discussioni estive davanti a una granita di caffè se n’erano viste di teste cadere, anche di gente qualificata. Difficile scamparla col professor Mangiafico! Era un indiscutibile portento.
Ma a novembre, di primo mattino, al bar Arturo c’erano solo gli avventori abituali, gente esperta, vecchi marpioni da bancone che sapevano bene come vanno certe cose.
E infatti nessuno abboccò.
«Il demonio si manifesta nei dettagli, come sempre» disse con sussiego il professore, quasi fra sé e sé, dal momento che nessuno mangiava l’esca. E scuotendo il capo aggiunse: «“Latet anguis in herba”, tra l’erba si nasconde un serpente, diceva Virgilio…».
«Non ci lasciate appesi, prufesso’» esortò Michele, il titolare del bar, nel timore non infondato che Mangiafico si lasciasse trascinare dalla foga didattica lungo sentieri inaccessibili ai più.
«L’abbiamo vista tutti la targa sul portone ma, a dicere ’a verità, quello che abbiamo capito è giusto l’intestazione, diciamo così…»
«E proprio qui sta l’errore» disse il professore, che non aspettava che il “la” per dare vita al concerto. «Allora… ecco qua… me lo sono segnato per non lasciare spazio all’improvvisazione» fece Mangiafico affondando la mano nella cartellina di cuoio che, con gli anni, aveva preso il colore e la consistenza del cartone bagnato. E, tirato fuori un foglietto, lo dispiegò sul tavolino inforcando gli occhiali da presbite.
«Dunque, lasciamo da parte solo per un attimo il titolo che si attribuisce il nostro, e cominciamo dall’appellativo: Barnaba. Si tratta di un nome di origine greca, Barnabas, che a sua volta ha radici nell’aramaico che, come sapete, è la lingua del Nazareno. I testi non sono concordi su questo punto: potrebbe derivare da bar navija’, che significa “figlio del Profeta”, o più probabilmente da bar nabha, che vuol dire “figlio della Profezia”. Ma c’è anche una terza ipotesi, che vede un collegamento con l’aramaico bar nÍb)’ah, cioè “figlio della consolazione”. Nel Nuovo Testamento si racconta di Giuseppe che, venduti tutti i suoi averi, depose il ricavato ai piedi degli apostoli e, per questo, fu chiamato Barnaba, “figlio della consolazione” appunto. Secondo le Sacre Scritture si tratterebbe di un apostolo che, pur non essendo tra i dodici che sedettero al fianco del Figlio dell’Uomo nell’ultima cena, faceva parte dei settantadue discepoli dei quali si trova traccia nel Vangelo. Queste le ipotesi. Tuttavia, bisogna dire che l’attribuzione più attendibile, o almeno quella più condivisa e diffusa, resta quella di “figlio della Profezia”…»
Nessuno nel bar Arturo poteva permettersi di aggiungere una qualunque osservazione davanti a quel po’ po’ di erudizione. Michele, il proprietario, era uno che aveva girato il mondo, per anni aveva lavorato in un hotel a cinque stelle di Berlino, ma non era andato oltre gli studi alberghieri, peraltro – va detto – tirati pure con i denti. La sua riconosciuta propensione alla divulgazione di racconti e storie mirabolanti (le sue, ma anche quelle che raccoglieva ai tavolini del bar) gli aveva guadagnato il soprannome di Michele iPhone. Ma, occorreva ammettere, non si trattava di una qualità sufficiente per muovere appunti culturali.
Totonno o Purpo – all’anagrafe Antonio Amato – era, secondo alcuni, il miglior pescatore della Costiera amalfitana. Gli si poteva chiedere qualunque cosa su pezzogne, scorfani e calamari. Era considerato un professore per la sua capacità maieutica di attrarre i gamberetti rossi nelle nasse ma, per quanto fosse un uomo devoto e ogni domenica andasse a messa nella cattedrale di Sant’Eufrasia, sulle Sacre Scritture non poteva essere considerato un esperto.
Neppure Oreste Lo Cicero era in grado di controbattere: di mestiere faceva il rappresentante di latticini. È vero che comprava regolarmente «La Settimana Enigmistica» ed era un avido lettore della rubrica “Forse non tutti sanno che” – cosa che gli consentiva poi di fare spesso un figurone ai tavolini di Michele – ma il vero expertise che gli veniva unanimemente riconosciuto da Amalfi a Positano riguardava la sua innata capacità di valutare le turiste straniere con una sola occhiata: in una manciata di secondi Oreste era in grado di stabilire e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Barnaba il mago
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24