Realtà e giovinezza
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Realtà e giovinezza

  1. 294 pagine
  2. Italian
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Realtà e giovinezza

Informazioni su questo libro

Realtà e giovinezza. La sfida ripropone dialoghi con i giovani e interventi su di essi, svolti da don Luigi Giussani tra il 1955 e il 1994.A distanza di anni, stupisce la loro pertinenza alla situazione attuale. Anticipando una percezione oggi diffusa, grazie a una quotidiana convivenza con i giovani, don Giussani si era reso conto che il contesto educativo e sociale tendeva a fare tacere le loro esigenze fondamentali (verità, bellezza, giustizia, felicità), mortificando il desiderio che proprio nella giovinezza trova il suo momento più espressivo.Abbandonata la carriera teologica per dedicarsi all'educazione dei giovani, prima nel Liceo classico Berchet di Milano e poi nell'Università Cattolica del Sacro Cuore, don Giussani ha rappresentato per migliaia e migliaia di ragazzi la possibilità di incontrare un adulto capace di ridestare ? con la sua presenza ? quelle esigenze fondamentali così tristemente ridotte dal mondo circostante.Con la sua proposta educativa don Giussani ha mostrato qual è la strada per ritrovare le domande costitutive del cuore: «Imbattersi in persone in cui quelle domande sensibilmente determinino ricerca, aprano a una soluzione, provochino pena o gioia. Allora la montagna di sassi rotola via».Realtà e giovinezza. La sfida è un viaggio affascinante alla riscoperta della persona nella sua irriducibilità a qualunque potere umano; e un inno alla giovinezza come atteggiamento del cuore.Un libro prezioso per i giovani e per gli adulti, perché «solo uomini all'altezza del loro desiderio potranno realizzare il compito che dovrebbe svolgere l'educazione» (J. Carrón).

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2018
Print ISBN
9788817098182

PARTE PRIMA

AI GIOVANI

Contro il dubbio, per la ragione

Ho quasi sessantaquattro anni e anch’io sono passato per la vostra età e ho un po’ la presunzione di essermela portata dietro. Per questo è giusto, forse, che abbia accettato questo dialogo.
Ricordo che una volta a una assemblea di gente matura chiesi: «Che cosa vuol dire essere adulti?». Attesi per molti minuti la risposta che non venne, e dissi la mia. Essere adulti vuol dire generare, riprodurre. Certo, riprodurre dal punto di vista biologico, ma soprattutto dal punto di vista del significato del vivere.
Ed essere giovani vuol dire avere fiducia in uno scopo. Senza scopo uno è già vecchio. Infatti la vecchiaia è determinata da questo: che uno non ha più scopo. Mentre chi ha quindici, vent’anni, magari inconsciamente, è tutto teso a uno scopo, ha fiducia in uno scopo. Questo rivela un’altra caratteristica dei giovani. È la razionalità. Essi lo sono molto più degli adulti. Un giovane vuole le ragioni. E lo scopo è la ragione per cui uno cammina. Per dire la parola grossa, che può sapere di romantico, l’ideale. Se uno non l’ha, è vecchio. Nel vecchio il sangue non scorre più bene, comincia l’arteriosclerosi. Il sangue non è più così veloce. E ogni tanto fa grumi. Se uno non ha uno scopo fa grumi, non si protende più. Anche voi potete: potete far grumo sulla moda, sulla ragazza, sul disco, sul panino. I grumi sono lo scetticismo. Pensateci. Uno non ha uno scopo, e davanti alla realtà dice: «Chi me lo fa fare, sta’ calmo». Così, davanti a chi è premuto dentro da una gioia ed è tutto proteso, di fronte a chi è vivo, il vecchio fa: «Eh, poi imparerai, vedrai, vedrai la vita». Nel vecchio non c’è più niente di sicuro, è freddo. Le vene, il sangue non sono più caldi come prima. E il vecchio non ha più presa con la vita. Copre allora questo disinteresse per la vita con la scetticità. Ah, se si potesse farla a pugni con chi introduce i giovani allo scetticismo. Sarebbe l’ideale, è l’unico modo per discutere con chi è scettico. Non si può, ci mancherebbe altro, ma se si potesse…
Perché non bisogna mai essere tranquilli? È vero che lei augura sempre questo?
Se uno nasce in Groenlandia o in Nuova Zelanda tutti capiscono che è un uomo perché ha una grinta, una faccia da uomo. Ma la madre, insieme alla faccia, dà a lui un’altra faccia che lo fa uomo, qualcosa dentro, quel che la Bibbia chiama «cuore». La parola «cuore» sintetizza le urgenze che mettono in moto l’uomo. L’esigenza della felicità. Vi confesso che una tra le prime cose che mi hanno persuaso del cristianesimo è stata la considerazione in cui era tenuta la felicità. È difficilissimo trovare persone che parlino di felicità sul serio. Parla così quasi soltanto il sentimento materno, quando i bambini sono piccoli.
L’esigenza di felicità, di giustizia, di amore, dell’essere soddisfatti nel senso tenero e totale del termine: questo è il cuore. E il cuore è vivo, non è mai fermo, e quando raggiungi qualcosa non si ferma, e sei daccapo. Mai tranquillo. Non nel senso di ansioso, ché sarebbe malattia. C’è una frase, tra quelle attribuite a Cristo negli Agrafa e da qualche critico ritenute autentiche, che dice: «Venni tra loro, e li trovai tutti ubriachi. Nessuno di loro aveva sete». Questa è la tranquillità che non va!
Se vuoi bene a una donna, e ti metti tranquillo, stai attento che la puoi perdere: non la conquisti più, non la capisci più, non la godi più. Invece se le dici «tu», e sei vivo, se non sei tranquillo, e sai che non è una persona qualsiasi (nessuno è qualsiasi), non hai mai finito di incontrarla per anni e anni. Così, di fronte alla società, di fronte alla vita della gente, come si può essere tranquilli?
Per un giovane è normale avere un ideale come un’utopia dinanzi a sé. Poi diventa maturo e… come fa a mantenere il cambiamento?
Comincio con il dirti che ideale e utopia non sono la stessa cosa. L’utopia è una parola che rappresenta negli intellettuali quello che nei ragazzi è il sogno. L’utopia ha lo svantaggio di essere piena di presunzione, il sogno almeno ha in sé qualcosa della malinconia che – lo diceva Dostoevskij – è meglio di tante «soddisfazioni».1 Ma sogno e utopia nascono dalla testa, dalla fantasia. Invece l’ideale è il centro della realtà. L’ideale è quella soddisfazione verso cui ti lancia il cuore, qualcosa di infinito che si realizza in ogni istante. Come una strada che ha una grande meta, e tu camminando, passo dopo passo, già la rendi presente. Così l’ideale cambia la vita di momento in momento. A sessant’anni può cambiarla in modo più suggestivo che a venti, perché l’ideale si fa più evidente, più potente.
Ricordo… Ero in seminario, quinta ginnasio a Venegono. Avevo quindici anni. Ero nella cappella e vicino a me stava un prete, vecchio, tutto gibboso, pelato. Era padre Botta. All’inizio della Messa a quel tempo si diceva: «… al Dio che allieta la mia giovinezza».2 E questo prete, aveva più di settant’anni allora, l’ha detto con una tale vibrazione che ho dovuto guardarlo. Avrei capito dopo…
La parola «Dio» è uguale a Ideale. Scriveva Gratry, quel grande filosofo francese dell’Ottocento, che ogni vero ideale richiama Dio.3 L’ideale si distingue dal sogno perché nasce dalla natura, nasce nel cuore dell’uomo. Perciò non tradisce. Seguilo, non ti tradirà. Sogno e utopia ti portano via dalla vita.
Ideale allora è il mistero di Dio. Ma io non sono ancora credente. Come faccio a sapere di avere incontrato Cristo?
Ragazzo, mi metti proprio kappaò. Mi metti kappaò, perché se io ti dico com’è veramente, che io ho incontrato Cristo e lo incontro tuttora nella compagnia della gente che come me l’ha riconosciuto; se ti dico questo non t’ho ancora detto niente, perché per te non è ancora esperienza, mi capisci? Ma se io ti dico che per me Cristo è l’ideale, capisci che c’è un nesso tra me e questo Cristo. E quest’uomo, nato duemila anni fa, mi fa vivere e mi esalta, mi tiene su, mi cambia. Mi cambia perché è presente. Lo diceva Tommaso d’Aquino: «L’essere è là dove agisce».4 Se io sono cambiato, vuol dire che è presente.
Ma com’è difficile parlare di questo. Perché nessuno capisce più le parole degli altri, si usano parole che non si sanno, si giudicano cose che non sono mai passate attraverso l’esperienza. La questione grave del mondo d’oggi è la sincerità, e il pericolo più grave per i giovani è la doppiezza. La stragrande maggioranza di voi è nata dentro una tradizione cristiana, eppure l’avete abbandonata, giudicata senza averla affrontata. Avete sostituito gli interrogativi, che in greco si chiamano problemi, con il dubbio. E questo è sleale. Perché o il dubbio è conseguenza di una ricerca oppure è un preconcetto vigliacco. Me la sento continuamente proiettata addosso questa slealtà: cioè che le parole non sono accettate per quel che significano. Capita anche a proposito di Dio.
Un esempio. Insegnavo religione al liceo Berchet. Il giorno prima avevano dato a teatro Il diavolo e il buon Dio di Sartre. Ed ecco che i miei avversari vengono in classe armati – perché era sempre una battaglia la scuola di religione – del libretto e leggevano dei passi di Sartre. Hanno letto quel che han voluto. E poi gli ho detto: «Ah, sì? Quello è un Dio così cretino che potrà essere il Dio di Sartre. Non è il mio Dio. Sarei cretino se credessi in un Dio così».
Questo per dire che tutti parlano di Dio, di Chiesa, di Cristo. Non si sa più che cosa questi nomi rappresentino, ma tutti sputano giudizi.
Leggevo sul «Corriere» un articolo di De Crescenzo. Era un elogio del dubbio, e sosteneva che ogni certezza è violenta. Che differenza c’è tra questo dubbio e il non stare mai tranquilli?
Sentite, io giuro che questo è un uomo. Renzo, che mi siede accanto, so che è intelligente, che non è stato tranquillo e per questo corrono da lui. Ne sono certo. Questo non è violenza. Come non è violenza l’esser certo che quella ragazza ti vuol bene, l’hai capito quando hai sorpreso, senza che lei se n’avvedesse, il suo sguardo pieno d’ammirazione su di te. E così puoi salire sulla torre Eiffel se non dubiti a ogni gradino che sia ben fissato sul precedente. Nella vita nulla si svolge se non attraverso una certezza. Non costruirete una bella famiglia, non sarete utili alla società senza certezze.
Anche se non puoi metterla in dubbio, questa certezza non dà nulla per scontato. Uno che ha trovato con certezza il criterio, lì comincia l’avventura, la drammaticità di un’esistenza, ogni istante della quale è tensione a piegare a quel criterio tutto. Abbracciare, giudicare tutto con quel criterio. No, l’ideale davvero non è la ricerca, così come l’ideale dell’innamoramento non è la ricerca…
Dove sta la grandezza dell’essere uomini, che vie ci sono?
Dicevo al Berchet, tanti anni fa, che per me esistono solo due tipi che hanno la grandezza dell’uomo. Uno è l’anarchico, colui che rifiuta l’infinito per affermare se stesso, contro tutto e tutti. L’altro uomo grande è colui che sta tutto nel sentimento religioso, che è amore all’infinito. Lasciatemi raccontare la storia di un giovane. Trent’anni fa in confessionale è venuto un ragazzo. Dalla sponda della porticina ho sentito dirmi: «Guardi, dietro c’è mia madre, che m’ha cacciato a confessarmi. Però io non ci credo». «Se non credi non posso assolverti», gli dico. Abbiamo discusso. E lui: «Il vero tipo umano è il Capaneo dantesco. È lì, legato, incatenato nell’inferno e grida: “Dio, non posso liberarmi perché tu m’incateni, ma non puoi impedirmi di bestemmiarti e io ti bestemmio”. Questa è la statura dell’uomo». Ero lì impacciato, il suo era uno di quei ragionamenti che valgono più di tutte le ragioni del mondo. Ma poi tranquillamente gli ho detto: «Ma non è più grande ancora amare l’infinito?». Ha ridacchiato e se n’è andato. Dopo quattro mesi è tornato, mi disse che faceva la comunione ogni giorno: «Quella frase mi ha roso dentro». Due settimane dopo moriva ammazzato in un incidente. È il primo ricordo del mio cosiddetto movimento. Si chiamava Luigi.5
Perché ho paura di crescere?
Perché non vedete gente cresciuta intorno. L’esempio di una persona che ha passato quel che tu hai passato e si capisce che è contenta e ti dice: «Vieni, non avere paura». Penso ai miei genitori, capivo che avevano un passato, che avevano avuto vent’anni. Occorrono un esempio e una compagnia che educhino il cuore. Se non si educa, il cuore si atrofizza.
Perché mi lascio cadere le braccia, perché rinuncio?
Per rimanere giovani bisogna rimanere fedeli a ciò per cui si è nati, al proprio cuore. Ma il potere ha fissato tutti i tabulati, tutte le tue esigenze e le parole che le richiamano hanno già una risposta nel vocabolario del potere. E tutto allora sembra in funzione di chi ha in mano il potere. Perciò mettiti insieme ad altri che vogliono rimanere fedeli al proprio cuore. Sii fedele al cuore e agli amici, e ti assicuro che vai fino al Polo. Ragazzi, dobbiamo ammettere che è una cosa senza paragone che il cristianesimo dica che Dio è diventato uomo, e permane in mezzo a questa compagnia di amici per far sì che la giovinezza duri per sempre.
Ero lì seduto, e tutto quel che dicevi era già confinato in una mia operazione intellettuale. Come imparare davvero?
Per fortuna non si nasce soli e non si cammina soli verso il destino. Sulla montagna dove non sai il passaggio da fare accetta l’indicazione della guida, accetta l’altro. Vi chiedo: non siate così scettici da rinunciare a essere insieme, e non siate così sordi e ottusi da essere insieme per contenuti immediati. L’immediato o è un passo al destino o è la tomba. Tutto diventa soffocante come le quattro pareti, anche quando sembra grande, e Leopardi chiama «stanza» il mondo.6 Ma l’uomo è un angolo aperto all’infinito. Perciò stiamo insieme per qualcosa di più grande di noi. Ci sia sempre questa lancia sulle costole, che ci spinge: l’amore all’ideale, al destino. Ma di tutto questo vorrei ancora discorrere con voi. Discorrere vuol dire correre da tutte le parti: dobbiamo correre insieme, correre.
1 Cfr. F. Dostoevskij, I demoni, Garzanti, Milano 1993, vol. 1, p. 43: «Ci sono anche certi amatori che hanno più cara questa malinconia della soddisfazione più piena, se questa fosse possibile».
2 La Messa in latino cominciava con le parole: Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat juventutem meam. «Salirò all’altare di Dio, al Dio che allieta la mia giovinezza.»
3 Cfr. A. Gratry, La filosofia del Credo, Cantagalli, Siena 2002, pp. 207-208: «Tutti questi presentimenti del cuore dell’uomo, tutti questi sogni dorati dell’infanzia, tutta questa ebrezza del nettare ideale, sono inspirazioni di Dio».
4 Cfr. Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae, «De veritate», q. 10, art. 8, c.
5 Cfr. A. Savorana, Vita di don Giussani, op. cit., pp. 130ss.
6 G. Leopardi, «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia», vv. 90-98, in Id., Cara beltà…, op. cit., p. 69: «Così meco ragiono: e della stanza / smisurata e superba, / e dell’innumerabile famiglia; / poi di tanto adoprar, di tanti moti / d’ogni celeste, ogni terrena cosa, / girando senza posa, / per tornar sempre là donde son mosse; / uso alcuno, alcun frutto / indovinar non so».

L’io e la grande occasione

LA DISTRAZIONE DELLA NATURA UMANA

Senza l’impegno della nostra libertà, nulla può comunicarsi a noi in modo tale da farci crescere, maturare, e perciò sapere e godere di più dell’essere e della vita. C’è un’osservazione malinconica da cui siamo costretti a partire: è possibile che l’uomo abbia facilmente a dimenticare se stesso. Nel suo Peer Gynt, Ibsen dice: «O sole adorabile [il sole della verità e del piacere vero, il sole dell’essere e del vivere], hai versato i tuoi raggi in una stanza vuota; il padrone dell’alloggio era sempre fuori».1 Il padrone dell’alloggio siamo noi, che siamo sempre fuori da questo alloggio, salvo che un dolore lancinante o una paura terribile, anormale, per un istante ci faccia tornare dentro. Ma è incosciente anche questo ritorno. Siamo fuori di noi, perciò non ci comprendiamo, e perdiamo contatto con quanto di mirabile è in noi. Kierkegaard, nel suo diario, a un certo punto dice: «Morte, inferno, da tutto io mi posso astrarre, posso infischiarmi di tutto, ma non di me stesso, non so dimenticare me stesso, nemmeno quando dormo».2 Sono vere tutt’e due le cose; che si è attaccati a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione di Julián Carrón
  4. Premessa di Luigi Giussani
  5. INTRODUZIONE
  6. PARTE PRIMA. Ai giovani
  7. PARTE SECONDA. Sui giovani
  8. APPENDICE
  9. INDICE