L'amore capovolto
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L'amore capovolto

  1. 294 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'amore capovolto

Informazioni su questo libro

Un romanzo tenero, malinconico e straordinariamente divertente. Il romanzo dei vent'anni che ci portiamo dentro. Firenze, fine degli anni Novanta. Giacomo ha diciotto anni e si è appena trasferito in città con Marta, la sua fidanzata di sempre, per studiare Scienze Politiche. Giacomo e Marta vengono dalla lontana Basilicata, e subito sono travolti dall'effervescenza degli ambienti studenteschi e di un mondo inaspettato. Un giorno, però, Giacomo scopre che Marta non è la ragazza che aveva tanto idealizzato. Il sogno d'amore che credeva eterno si infrange e lui si consola a suon di bevute e lunghissime confidenze notturne con Momi, il coinquilino egiziano. Sarà proprio Momi a consegnare a Giacomo un vecchio carteggio in cui è racchiusa una storia speciale: cinquant'anni prima, due ragazzi, Tino e Adele, si abbracciano agli angoli delle strade di uno dei quartieri più antifascisti di Firenze, la stessa zona in cui ora vive Giacomo. C'è la guerra, una città occupata dai nazisti. Sembra che gli americani non arrivino mai, così come una vita insieme per loro due: costretti a separarsi, si scrivono lettere mentre partecipano con coraggio alla Resistenza. Giacomo impara presto a conoscere questi due suoi coetanei che appartengono a un'epoca che non aveva mai sentito così vicina prima di allora. Tra quelle righe, cura le proprie ferite e ritrova la bellezza dei vent'anni e dell'amore romantico e senza tempo che solo a quell'età si prova.

Domande frequenti

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Informazioni

Print ISBN
9788817099455
eBook ISBN
9788858692684

1

Marta quella notte dormiva tranquilla.
Il suo viso addormentato, rilassato, come compiaciuto della sua stessa calma, non tradiva alcuna preoccupazione. Eppure non ci sarebbe stato niente di male. Non aveva pudore ad ammettere le sue paure, semplicemente non ne aveva. O pareva non averne. Era, per tutti quelli che al paese e a scuola la conoscevano, una ragazza imperscrutabile, un po’ misteriosa, affascinante. Non era bella in modo canonico, non era altissima, non aveva grandi seni, ma era magra, proporzionata, aveva un bel naso e belle labbra, gli occhi di un colore indefinibile tra il verde e il nocciola, e attraverso quegli occhi, uno sguardo che poteva fermare il respiro di chi lo incrociava, come una Gòrgone.
Nessuno aveva comunque mai messo in discussione la sua desiderabilità. E non era questo il solo motivo per cui Marta scatenava nel resto dell’umanità una curiosità quasi morbosa, che in molti casi diventava un rifiuto, che la poteva trasformare nel cortile della scuola in quella seria, un po’ snob, con la puzza sotto il naso. Stava antipatica a molti, giù a Bernalda. Perché non palesava mai le sue emozioni e il suo pensiero, o per l’esatto contrario: ammettendoli candidamente, estremamente disinvolta, metteva gli altri a disagio, li spaventava. Marta sembrava fredda, distaccata, e il suo silenzio veniva creduto eternamente giudicante.
Altri invece, per una sorta di timore riverenziale, una specie di paura, volevano a tutti i costi farsela amica, cercavano di far colpo su di lei, in ogni occasione di confronto: dalle assemblee a scuola fino alle discussioni spontanee al baretto, con la birra in mano.
Ma comunque, queste erano le persone che non avevano la fortuna di starle accanto. I pochi che la conoscevano a fondo, che la frequentavano tutti i giorni e che le volevano bene, erano semplicemente pazzi di lei. E pure questi risultavano abbagliati e intimoriti, affascinati e in perenne ansia da prestazione. Anche suo padre, il Professor Dichiò, preside del liceo Scientifico di Matera e insegnante di Storia e Filosofia, oltre che ex politico del Partito comunista italiano, aveva questo strano atteggiamento di sottomissione intellettuale: a tavola le chiedeva sempre la sua opinione sulle cose, dall’attualità al cinema, alla politica, alle questioni di etica, quando tornati dalle rispettive scuole, padre e figlia si raccontavano com’erano andate le loro giornate. Il Professore sentiva nei confronti di Marta quasi una missione di nutrimento culturale. Qualunque naturale declinazione della fantasia e della creatività di Marta da bambina veniva preso dal Professore come una sicura propensione della piccola all’arte, o alla narrativa, o alla danza, e via discorrendo. La bambina pareva disegnar bene? Veniva accompagnata ogni giovedì pomeriggio a Matera, in un laboratorio di disegno per bambini tenuto da una nota fumettista locale. Accennava dei passi di danza davanti allo specchio? Perché non coltivare questo incredibile talento? E quindi ogni estate la piccola Marta veniva spedita in stage di danza classica a Venezia o Parigi per consolidare le basi della pur buona ma provinciale Scuola Lucana di Ballo. Da questi corsi, complice anche la mamma che da Parigi si era trasferita fin laggiù in Basilicata venti anni prima, spesso tornava con il vocabolario arricchito di lingue nuove, non solo il francese, ma anche l’inglese e addirittura qualche parola di russo, rubata alle insegnanti ex ballerine del Bolshoi. E quindi il Professore le aveva preso una tata russa, che lì a Bernalda negli anni Ottanta non erano esattamente a portata di mano. Insomma, così era cresciuta Marta. Nutrita di stimoli come un’oca d’allevamento. Forse per questo sembrava annoiata insieme ai suoi coetanei bernaldesi. E ancora, per questo motivo probabilmente, tutti ne lodavano l’intelligenza, o la cultura, o il gusto nello scegliere i vestiti e quella specie di dono per cui tutto quello che passava per le sue mani sembrava più bello: da un qualunque disegno fatto sul bloc-notes del tavolino del telefono, in corridoio a casa sua, che sempre sembrava brillare di quella luce che differenzia un pezzo d’arte da un qualunque sfogo creativo, fino ai temi a scuola, che avevano l’aria e il tono di piccoli componimenti letterari, o le foto di cui Marta era vagamente appassionata; le scattava prediligendo le macchinette Kodak usa e getta, oppure una vecchia Pentax di sua madre, e anche quelle avevano, o sembravano avere, qualcosa di speciale. Insomma, Marta non sembrava essere superiore ai tormenti e alle paure che il buio della notte prima dell’esame di maturità può scatenare. Marta, semplicemente, superiore, lo era per davvero.
Io l’amavo praticamente da sempre, cioè da diciassette anni, mese più, mese meno. Non esiste una data precisa alla quale far risalire l’inizio della nostra relazione; siamo sempre stati insieme, prima senza farci troppe domande, poi da più grandi, in maniera consapevole, con progetti, sogni, e desideri in comune. Marta era cresciuta nella casa accanto alla mia (anche se la sua era grande più del doppio), e i nostri genitori erano buoni amici. Quando eravamo piccoli, abbiamo scoperto che le finestre delle nostre camere da letto erano separate soltanto da una serie di tegole, leggermente inclinate verso il basso e poggiate sul soffitto del suo salotto che dentro era una specie di grande mansarda. Su quel tetto abbiamo scritto la nostra storia. È stato da subito il nostro rifugio, e da qualche anno, in concomitanza con la nostra adolescenza, avevamo preso l’abitudine di stendere i nostri materassi sui tetti, dalla primavera fino a settembre, e restare lì, di notte, a chiacchierare, o a baciarci, o ad ascoltare il rumore del vento che soffiava giù dal mare di Metaponto.
Si era addormentata lì, mentre mi ascoltava ripetere per l’ennesima volta anche roba che non era nel programma, ma tanto con Marta i programmi servivano a poco, e quando lei decideva che una cosa era importante saperla, bisognava saperla. Alla maturità erano usciti Italiano e Storia agli orali. La svegliai con un bacio sulla tempia, e per fare l’eroe mi stirai la schiena, portandola a letto in braccio.
Fatta la stessa operazione con il mio materasso, rientrai in camera e ovviamente non chiusi occhio per tutta la notte. Nel mio caso niente di strano: rientrava tutto nella norma, quasi nella banalità. Infatti le mie paure e le mie sensazioni ricalcavano tragicamente la canzone di Venditti eletta ormai da un decennio a canzone simbolo dei maturandi di tutto il Paese e probabilmente di tutti i tempi a venire. Il pomeriggio precedente, in una pausa dallo studio, circondati da libri e dispense, da appunti, fotocopie e fogli protocollo, l’avevamo cantata con Marta, Geraldina e Matteo (gli unici due amici bernaldesi che venivano a scuola con noi) mentre Matteo la suonava con la chitarra e, a un certo punto, la malinconia di quelle parole sommata alla muta consapevolezza che avevamo del fatto che in un modo o nell’altro una fase della nostra vita stava per finire prese il sopravvento, mi fece la bocca amara e mi fece commuovere e lacrimare, all’improvviso, come mi succede ogni tanto. Feci in modo che non se ne accorgesse nessuno, e non fu difficile, presi com’erano dalle parole di Venditti, di cui storpiavano l’accento romanesco. Solo Marta mi sembrò accorgersene e mi accennò un sorriso, una specie di sfottò, consapevole com’era di quanto ci possa mettere poco io a piangere per un nonnulla. I maturandi: una categoria sociale piuttosto emotiva. Io ero uno di loro. Che poi, che parola maturando! Un gerundivo che è un’imposizione, che quasi diventa senso di colpa o frustrazione: “Dopo questo esame maturi, che tu voglia o no”, pareva dirmi in continuazione il gigante dai piedi d’argilla, di cui il Professore Dichiò, il padre di Marta, continuava a parlarmi nelle ripetizioni che dava a me e a Matteo, quando faceva cenno all’Unione Sovietica nelle mani di Stalin. Marta non partecipava, non ne aveva bisogno, studiava da sola ed era comunque sempre molto più avanti di noi nel programma.
Quello stesso gigante dai piedi di argilla aveva anche infestato i pochi momenti di sonno in cui ero riuscito a dormire: mi seguiva in una terra che poteva essere la steppa russa della Seconda guerra mondiale, e mentre scappavo, provando a correre nella neve, senza riuscire a muovere un muscolo e urlando senza emettere suono, proprio come succede nei sogni più angosciosi, lui avanzava claudicando, lento e pesante rischiando di schiacciarmi con i suoi enormi e mollicci piedi che arrivando al suolo facevano tremare tutta la terra e schizzavano argilla fresca dovunque. Il tutto urlando a squarciagola, lui sì con una voce terrificante: «MATURA! MATURA!».
Invece nei ben più frequenti periodi della notte in cui ero rimasto sveglio a fissare il soffitto buio, senza quindi nemmeno vederlo, mi si mescolavano in testa le mille e più pagine che quasi avevo imparato a memoria per prepararmi all’esame. Tutti quei concetti uno dopo l’altro e tutti insieme affollavano i miei pensieri fino a diventare un pensiero unico e assordante che mi sembrava riecheggiare e rimbalzare tra le pareti del cranio, come se fosse in realtà vuoto di tutte quelle formule e date, e Rousseau sul pessimismo cosmico di Leopardi, e la crisi di Cuba, e L’Oboe sommerso, e i raggi di sole che trafiggono l’uomo che sta solo sul cuor della terra, e Caporetto, e il Novecento il secolo del male e la guerra del Vietnam. E poi chili e chili di: “Marta, Marta, Marta, quanto mi manchi in questa notte infinita, mi manchi tanto che quasi quasi mi alzo e in pigiama attraverso le tegole che separano le nostre stanze e ti vengo a svegliare di nuovo, cantandoti un po’ di Venditti così tu ridi e mi apri e mi puoi fare addormentare nel tuo letto, sotto il tuo piumone, raccontandomi di quanto è bella la poesia di Montale per la moglie cieca, e domattina all’alba ci beviamo il caffè in cucina come una coppia sposata e prendiamo insieme come sempre l’autobus per Matera, e quando torniamo a casa siamo già maturati e adulti e possiamo vivere insieme sul tetto”.
Ero stato fortunato: Italiano e Storia erano le mie materie preferite e le uniche in cui valevo veramente qualcosa, e siccome erano anche le materie preferite di Marta, abbiamo preparato insieme l’esame. A parte quando io facevo ripetizioni con il padre. Tanto insieme facevamo anche tutto il resto. Era la fine degli anni Novanta e a pensarci oggi, a quella notte di sogni agitati e pensieri che urlavano, mi vengono di nuovo le lacrime agli occhi.

2

Non è proprio una balera. Ma visti i tempi ci si può anche accontentare. E poi Adele, una balera vera e propria, una oltre questa qui, non l’ha mai vista. Ché nessuna femmina della sua famiglia si è mai spinta fuori da Firenze. Quindi hanno poco da cianciare quelle due, sempre a lamentarsi, ché nemmeno loro hanno la minima idea di come sia fatto il mondo.
«In Romagna si dovrebbe andare a ballare, cos’è questo tendone, un circo?»
«In effetti dentro c’è tutta una varietà d’animali.»
E giù a ridere, e a confermare che chi disprezza compra. E a lamentarsi, ovviamente. Sempre la stessa battuta, le stesse lamentele. Adele non le sopporta, ma intanto il babbo è stato chiaro: «La Anna e la Pia sono più grandi, sono zitelle e soprattutto sono brutte come la fame, e ci sono meno rischi per tutti. Se il cugino Gianni non fosse partito per il fronte allora ti farei accompagnare da lui. Ma in Italia c’è la guerra, te l’hanno detto?».
Ogni sabato la stessa storia. Anzi ogni sabato-sì: un’altra regola del babbo di Adele. Da casa si esce un sabato sì e uno no, senza un motivo preciso.
«Io capisco tutto, Babbo. Ma quella del sabato-no proprio non la capisco. Se mi fai uscire un sabato che male c’è ad andare anche quello successivo? Così, anche volendo, non si riesce mai a prendere un appuntamento.»
«E con chi dovresti prenderlo quest’appuntamento, che non ho capito. Nossignore, porca mattina. Già che ti mando un sabato-sì, non ti lagnare, Adele.»
«Non mi lagno, Babbo, solo non capisco il motivo.»
«Oh Madonnina, tu e i tuoi motivi. Mica devo darti sempre delle spiegazioni. Vuoi un motivo? Eccolo: di questi tempi tocca abituarsi al no. Lo sai quante volte sentirai questa parola in vita tua con questi fascisti che fanno il bello e il cattivo tempo?»
Il tendone lo hanno tirato su in un pomeriggio: forse per combattere le tristezze e le cattive notizie che porta la guerra, si trova più o meno all’altezza dell’arco di San Pierino. Adele è giunta lì con le cugine, dopo aver fatto a piedi tutta la città partendo da Porta Romana, dove abita. Ha percorso via dei Serragli, superato la piazza di Santo Spirito, si è fatta guardare da un gruppo di soldati che riposava nei pressi di Palazzo Pitti, si è un pochino allarmata al passaggio di una camionetta sul Ponte Vecchio mentre lo attraversava in senso opposto, e poi Santa Croce e qualche vicolo fino a San Pierino, dove finalmente è entrata nella balera.
Ultimamente la ragazza, che è prossima a compiere diciassette anni, ha un nuovo e diabolico interesse, è venuto così: improvviso come un prurito sulla caviglia. Si tratta dei ragazzi, ovviamente. E chissà, forse questa strana malattia che le fa tremare il ventre e le gambe è colpa di Amedeo Nazzari nel Romanzo di un giovane povero, che ha visto di recente, e che per la prima volta le ha fatto sentire questa cosa qui. Questa cosa qui che è una assoluta novità, visto che fino a qualche tempo fa i maschi le suscitavano lo stesso interesse delle lucertole e dei ragnoli. È una novità come d’altronde lo è per le altre sue coetanee più caste. O più ingenue, come le ha detto la Tosca che già si rotola sulla paglia dei campi con tale Bob.
Ma nonostante questo interesse, entrando in balera, Adele si sente parecchio intimorita dagli sguardi dei maschi, dal loro parlottare, dai sorrisi di ragazzi spesso anche più “ingenui” di lei, e gli sguardi, il parlottare e i sorrisi le sembrano ora occhiate lascive, ora commenti maligni, ora ghigni cattivi. Chissà, forse sono questa luce rossastra e questa penombra studiata ad arte sicuramente da altri maschi, che la mettono a disagio e le fanno ora apparire la balera come un girone dell’inferno, e i pochi uomini presenti, gli unici non al fronte perché o muniti di grucce e di ferite o più raramente in licenza, come una specie di diavoli.
La prima tappa, ogni sabato, o per meglio dire ogni sabato-sì, è come sempre per le tre cugine il bagno che nella balera è stato fatto alla bell’e meglio ma con un pezzo di specchio, davanti al quale possono imbellettarsi di nascosto alle mamme chiacchierone e ai babbi borbottanti. La Anna e la Pia, più grandi, addirittura si stendono il rossetto su quelle bocche enormi e grasse.
La Anna, quando si mette il rossetto e spalanca la bocca davanti lo specchio, pare uguale uguale la balena di Pinocchio.
Mentre Adele si passa solo un po’ del belletto rosa della Pia e solo con la sua supervisione.
«Vacci piano! Altrimenti sembri una poco di buono. E poi quel belletto mi costa un occhio della testa e mi deve durare fino al prossimo Natale.»
«Eh sì, perché a Natale c’avrai l’omo e te lo regala lui. Di sicuro, guarda!»
È venuta proprio male, o almeno di questo Adele è convinta. Prova come tutte le volte a immaginarsi liscia, rimirando nello specchio del bagno quei suoi capelli castani come gli occhi, ma ricci come una nera africana che ha visto su un numero del Bertoldo, che quel vecchio antifascista del suo babbo Vasco ha tenuto in barba alla censura. Sempre il babbo, per i suoi diciotto anni le ha promesso i soldi per una piega da Cesare il parrucchiere e lei ha deciso che li spenderà provando per una volta a essere liscia, come quella Adriana Benetti che ha visto in Teresa Venerdì di Vittorio De Sica, al cinematografo dove il babbo, si sarà intuìto, la porta regolarmente insieme a sua mamma perché «bisogna vedere i film visto che non si può vedere il mondo». E queste lentiggini, da dove saltano fuori? Nessuno a casa sua ha avuto il dispiacere di crescere con il viso deturpato di puntini rosa. Il petto poi non se ne parli, non offre niente di meglio, anzi non offre niente punto e basta, mica come il seno di Pia, che è trionfale, forse pure un po’ troppo. Così anche stavolta Adele fissa con uno sguardo malinconico i suoi stessi occhioni riflessi allo specchio, e si domanda qual è il suo posto nel mondo. E soprattutto se è un posto che si può condividere in due, o invece è uno di quei posti come quelli delle cugine dove si rimane sole, zitelle, maligne e cattive.
Quello di cui però Adele non si accorge, è l’intelligenza che emana il suo sguardo. E anche se non vede nessuna bellezza in quegli occhi grandi e curiosi, quelli invece le danno un’aria profonda e viva. Pur conservando la sua aria da ragazza, ha il viso e l’espressione di una donna matura, senza però quei segni profondi che di solito sono eredità di scelte e difficoltà che la vita ancora non le ha riservato. Quando sorride, forse perché lo fa di rado, tutto il viso sembra illuminarsi di gioia contagiosa. Adele, insomma, è un essere meraviglioso e affascinante, come è affascinante ogni cosa nel momento della sua trasformazione. Come le crisalidi, come il serpente che sta cambiando la pelle, come il giorno quando diventa notte, come il suono e la vibrazione di una corda di chitarra nel momento in cui viene accordata. Assistere al cambiamento di cui Adele è testimonianza concreta è un privilegio e uno spettacolo.
Il suo carattere invece è ben definito e tutto questo cambiamento scorre come su un binario che proprio il carattere, quella cosa che ha a che fare con l’indole e non con l’educazione o con la società, e che non è in nessun modo diciamo così empirica, aveva formato già da molti anni. Adele, per farla breve, è una persona. Sin da quando era solo una bambina.
Terminate le operazioni di imbellettamento, eccola adesso seduta con la borsetta stretta sulle gambe e le due zitelle disposte accanto a lei, una per lato come due sfingi. Adele si guarda intorno: un lampadario, che un tempo lontano doveva aver avuto una sua bellezza, sovrasta la sala appeso al centro del tendone. Un’orchestrina da una parte esegue un liscio e poi due schieramenti opposti, ai lati, che si guardano ma fanno finta di non guardarsi: i pochi maschi da una parte e le tante femmine dall’altra. Ogni tanto la sala vuota si anima di un maschio che invita una femmina venendo quasi sempre rifiutato. Adele si diverte a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’amore capovolto
  4. Prologo
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33
  38. 34
  39. 35
  40. 36
  41. 37
  42. 38
  43. 39
  44. 40
  45. 41
  46. Ringraziamenti