Capitolo ventisei
Florida, Miami, Mercy Hospital, stanza di Luca
Lena si concentrò sulla domanda del dottor Martens. Qual era? Ah, sì! «È sicura di essere pronta?»
«Non sono sicura che ci sarà un momento in cui sarò più forte per questa decisione. Quindi, facciamolo, dottore.»
«Bene... Le spiego come procederemo: un’infermiera ci raggiungerà... Aumenteremo le dosi di morfina per il dolore e aggiungeremo un’iniezione di benzodiazepina. Poi spegneremo la ventilazione meccanica.»
Lena si era sempre rifiutata di immaginare quel momento. Non poteva più evitarlo. Avvertì tutto il peso dell’assenza di Evan e si sentì più sola che mai. Strinse forte la mano di Luca nella sua.
«Continuerà ad avere il tubo in bocca?»
Il medico le posò la mano sulla spalla.
«Possiamo scegliere di stubarlo, ma... spesso è traumatico, soprattutto per i parenti. In compenso, il processo di fine è più rapido. L’altra soluzione sarebbe di diminuire progressivamente l’ossigeno...»
«Mi sta dicendo che morirà soffocato?»
«Oggi si trova in uno stato di incoscienza che non gli permetterà di... sentire veramente.»
«Quindi non è possibile fargli un’iniezione che... lo faccia addormentare definitivamente?»
«L’iniezione di curaro non sarà necessaria, signorina Troyd. Luca se ne andrà naturalmente.»
«Naturalmente...» Lena si chiese se l’avverbio fosse davvero adatto.
«Bene...»
«Se non ha altre domande, la lascio sola con suo fratello. Sono con l’équipe, quando si sentirà pronta venga a chiamarmi. Abbiamo tutto il tempo e quello che conta è che lei si prenda quello necessario per salutarlo.»
Le rivolse un gesto di compassione che le fece bene. La mano di Luca era ancora nella sua, calda ma inerte.
«Un’ultima cosa: si ricordi che non è lei che prende questa decisione. Sono i medici che le consigliano di liberarlo. Forse non fa una grande differenza per lei, ma è importante tenerne conto.»
Lena annuì tristemente. Il medico richiuse piano la porta, abbandonandola nel silenzio ritmato dal rumore del respiratore.
Evan aveva ragione nel ritenere che Luca potesse sentirla da dove si trovava? Se piangeva davanti a lui, non si sarebbe spaventato capendo cosa stava per succedere?
Avrebbe voluto urlargli tutto il suo amore e quanto quella decisione la faceva soffrire. Avrebbe desiderato abbracciarlo, baciarlo, coccolarlo... Aveva così tante cose da confidargli.
Posò la mano sul suo cuore: batteva con regolarità perfetta. Mio Dio! Ma cosa stava per fare? I suoi occhi seguirono il tubo della sonda gastrica. Liberarlo, aveva detto Martens.
Improvvisò un discorso senza capo né coda, come se stessero davvero parlando, gli confidò tutto il suo amore e la sua paura di continuare il cammino da sola. Si permise anche di stuzzicarlo un po’, come se stessero bevendo un caffè insieme.
«Be’, ecco, credo che sia arrivato il momento di salutarti, fratellino. Non so bene come fare... Ho paura, sai...»
Per la prima volta dall’incidente, scoppiò in singhiozzi senza provare a mascherare il suo dolore. Non voleva nascondere più niente. Voleva che quegli ultimi momenti passati vicino a lui fossero autentici come quelli che avevano sempre condiviso.
* * *
Florida, Miami, Jackson Memorial Hospital,
blocco operatorio
Evan si sedette sulla panca appoggiata contro il muro, davanti agli armadietti nello spogliatoio maschile. Non c’era nessuno. Dopo tanta agitazione, si ritrovava di nuovo in mezzo alla calma.
Al blocco 4, diversi organi di Kelsie erano in corso di prelevamento. I polmoni e un primo rene sarebbero restati lì. La ricerca di un ricevente per il secondo era in corso. Il cuore era atteso a Orlando.
Tutto crollava attorno a lui. Kelsie era deceduta. Lena sarebbe partita non appena suo fratello fosse stato definitivamente liberato. Quanto a Casper... Non sapeva né in che condizioni si trovasse in quel momento, né se l’avrebbe mai rivisto!
Immaginò di riprendere la sua vita da dove l’aveva lasciata ormai nove giorni prima, ritmata dalla monotonia rassicurante dei momenti di solitudine e dai rush in sala operatoria. Gli sembrava impossibile. Non si usciva indenni da una simile avventura. Il dolore legato alla dipartita di Kelsie, dopo una ricerca durata quasi trent’anni, e il suo incontro con Casper erano stati un vero ciclone nella sua esistenza.
Evan pensò che, in quel preciso istante, tre avvenimenti di importanza capitale si stavano svolgendo per le tre persone alle quali teneva di più: Kelsie era in corso di ricostruzione tegumentale, Lena stava dicendo addio a suo fratello e Casper lottava probabilmente tra la vita e la morte.
Amare coincidenze...
Cercò il numero dell’UMH, chiamò e chiese poi di parlare al medico di turno in rianimazione, declinando la propria identità.
L’infermiera dall’altro lato del telefono gli precisò che il medico era in riunione e che avrebbe dovuto richiamare dopo. Evan provò a precisare che anche lui era chirurgo al Jackson Memorial e che conosceva personalmente Ron Belnet. Aggiunse infine che desiderava semplicemente informarsi sulle condizioni del paziente.
«Può ricordarmi il suo nome?» gli chiese l’infermiera.
«Dottor Kester. Evan Kester.»
«Be’, senta, considerate le circostanze particolari, non penso di violare il segreto professionale comunicandole che il signor Belnet è deceduto.»
La notizia inchiodò Evan sulla sedia. Deceduto? Allora, Casper... Era pietrificato al cellulare.
«Pronto? Dottore?»
«Sì... Grazie... Io... Grazie di avermi dato... quest’informazione, signora...»
«Tutto bene? Sembra sorpreso.»
Evan si fece forza per ricomporsi a sufficienza.
«Diciamo... Non siamo mai abbastanza preparati a questo genere di notizie.»
La voce femminile si raddolcì.
«Mi spiace molto... Pensavo si trattasse di uno dei suoi pazienti, non che lo conoscesse a titolo personale. Un medico, per noi, è per forza quello che cura.»
«Oh! Stia tranquilla, è perdonata. La ringrazio, molto...»
«Prego. Sappia ad ogni modo che è stato un bene che il signor Belnet se ne sia andato. Temevamo che durasse ancora e ancora. Quando è finito tutto, due giorni fa, siamo stati solleva...»
«Aspetti! Ha detto due giorni fa? Due giorni? Ne è sicura?»
«Sì, certo.»
«Ne è veramente sicura?»
«Sì!»
«Grazie. Grazie molte. E buona giornata, signora!»
Il cuore di Evan batteva all’impazzata. Belnet era deceduto l’8 agosto. Si voltò verso il planning degli interventi. In alto, c’era la data, in caratteri cubitali: 11 agosto 2014. L’ultima volta che Casper era stato visto, era il giorno prima, il 10! Si ricordò delle sue parole, quando gli aveva spiegato il suo «stato»: solo l’involucro di lui bambino era apparente, ma restava dipendente dall’evoluzione fisica del suo corpo.
Questo significava che quel ragazzino era proprio reale? Era possibile?
Ti sembra più logico che un tipo esca dal suo involucro carnale per infilarsi nella propria pelle infantile?
Era difficile, scientificamente parlando, accettare che si potesse levitare in un altro involucro fisico.
Per quanto...
I libri che aveva spulciato con Casper davano qualche pista di spiegazione razionale. Quell’eventualità era difficile da ammettere, eppure alcuni grandi scienziati iniziavano a farsi qualche domanda. Dopotutto, la Terra non era rimasta piatta per lunghi secoli?
Immerso nelle sue riflessioni, Evan era entrato nello spogliatoio. Desiderava una cosa sola: lavarsi per far sparire le macchie di sangue che gli ricoprivano il corpo. Dopo l’incidente gli erano stati riportati alcuni oggetti. Gli effetti personali erano stati messi nel suo armadietto: occhiali da sole, documenti, vestiti sportivi che teneva sempre nel portabagagli. C’era anche la scatola che Lena aveva messo due giorni prima nel bagagliaio della sua auto.
Evan ringraziò interiormente Mac Clough per aver fatto arrivare tutto là. Non era tenuto a farlo. Provò a spostare la scatola completamente sventrata per recuperare il suo bagnoschiuma. Uno degli album di Lena scivolò e cadde per terra. Mentre si abbassava con un dolore diffuso in tutti i muscoli, restò folgorato davanti alla foto sulla copertina: un ragazzo di una ventina d’anni lo guardava con un sorriso sincero. Certo, i capelli erano più corti, il mento più marcato, lo sguardo più adulto, la smorfia meno infantile, ma non c’era alcun dubbio, perché avrebbe riconosciuto quel viso tra mille: Casper lo guardava con gli stessi occhi birichini.
Col cuore che batteva forte, Evan aprì l’album. In tutte le foto scopriva Casper, a età e in luoghi differenti. La gioia di vivere brillava sempre sul suo volto radioso e rassicurante. Si fermò su un’immagine. Contrariamente alle altre, era stata evidentemente scattata da un professionista. Vi figuravano quattro persone, tutte sedute in posa: un uomo, con un vestito elegante, stringeva a sé una donna che doveva essere la moglie; questa sorrideva timidamente al fotografo, mentre i due bambini rannicchiati contro di lei esibivano un gran sorriso. La bambina aveva i codini e le mancava un dente da latte, il che rendeva il suo sorriso ancora più adorabile. Il bambino le stringeva le spalle con un abbraccio sicuro e protettivo. I pantaloncini da marinaretto gli stavano a pennello. Casper, proprio come l’aveva visto poche ore prima. Sotto la foto, una didascalia: Famiglia Troyd – Gennaio 1998.
Come un pollo. Ci era cascato come un pollo.
Gli tornò alla mente una frase detta da Casper: «In realtà, abbiamo tutti paura di morire e io ho avuto paura a lungo. Fino al giorno in cui ho visto che c’era di peggio».
Ora si chiariva tutto: l’attenzione tutta particolare di Casper quando si parlava di Lena, la sua insistenza perché riuscisse a convincerla a staccare la spina di suo fratello, l’intensa emozione impressa sul volto del bambino all’annuncio della risposta positiva di Lynn Afroyd, la sua concentrazione quando la voce di Lena risuonava nell’abitacolo della macchina... Pensò anche alle parole che Casper gli aveva detto all’orecchio prima di sparire dopo l’incidente: «Lena avrà bisogno di te. Perché io non potrò più aiutarla...».
Tutto acquisiva senso. Casper non era Ron Belnet, ma... Luca. Veloce, doveva fare velocissimo! Evan ebbe una difficoltà incredibile a comporre il numero di Lena. Pregò perché rispondesse subito.
Quando sentì partire la segreteria telefonica, diede un pugno all’armadietto metallico dello spogliatoio. Il rumore si ripercosse rumorosamente nella stanza. Brian accorse.
«Evan, che succede?»
«Non ho il tempo di spiegartelo, ma è un’emergenza: mi presti la tua macchina? Ora, subito?»
Brian lo squadrò dalla testa ai piedi, poi considerò l’insieme degli album che giacevano alla rinfusa sul pavimento.
«Evan, non sei nel tuo stato abituale. Vieni a sdraiarti, per favore.»
«Scusami, Brian, ma non ho tempo! Sto benissimo e ti assicuro che ho la testa a posto. Mi serve solo una macchina, e in fretta!»
«È fuori discussione che tu guidi nello stato in cui sei!»
Evan capì che non avrebbe ottenuto niente da lui: «Ok, Brian, mi devi fare un favore».
Si piantò davanti a lui.
«Chiama immediatamente il Mercy Hospital e chiedi di parlare con il dottor Martens, dell’unità di rianimazione. In questo momento sta per staccare la spina a un paziente di nome Luca Troyd. Bisogna assolutamente stoppare la procedura, hai capito?»
Stava per aggiungere «è un ordine» ma si era fermato subito prima.
«Brian, è estremamente importante! Ti prego, devi aiutarmi!»
Lo fissava, con gli occhi quasi supplicanti. Brian non gli aveva mai visto quello sguardo. Le sue pupille, però, non erano dilatate e restavano ben fisse. A parte lo stato emotivo in cui era, Brian riconosceva dalla determinazione di Evan che il suo amico aveva la testa a posto.
«È urgentissimo, Brian! Forse è già troppo tardi...»
«Ok, me ne occupo io. E tu dove vai?»
«Non ho il tempo di spiegartelo!»
«Se è davvero un’emergenza, c’è di meglio della mia macchina: l’ispettore che ti accompagnava aspetta ancora di avere tue notizie. Dovrà pur avere a disposizione un veicolo o due muniti di sirena, no?»
Il volto di Evan s’illuminò. Finalmente una buona notizia. Si gettò su Brian e lo abbraccio per la gioia.
«È un’ottima idea! Grazie, Brian. Ricambierò!»
Brian non ebbe il tempo di rispondere: Evan aveva già lasciato la stanza.
* * *
Evan non ebbe alcuna difficoltà a trovare Mac Clough, che nell’attesa beveva un caffè dopo l’altro. Ne ebbe di più per convincerlo ad accompagnarlo a sirene spiegate al Mercy Hospital.
Ma ci riuscì.
Non essendo abilitato a prendere certe iniziative sul territorio della Florida, l’ispettore dovette fare alcune telefonate per ottenere l’autorizzazione a utilizzare un veicolo di pattuglia.
Mentre il bolide correva a tutto spiano, Mac Clough ritenne bene di informare Evan degli ultimi elementi dell’inchiesta. Ad alta voce, per coprire il rumore stridente della sirena, raccontò a Evan il lungo interrogatorio della signora Mending, la moglie del rapitore di Kelsie. Nonostante la povertà e il carattere violento dell’uomo, Kelsie si era rivelata una bambina docile, curiosa e aperta. Ma, dato che Mending era convinto che lasciare Kelsie farsi degli amici costituisse un pericolo, la bambina non aveva avuto altra scelta che chiudersi in se stessa, col suo diario come u...