
- 192 pagine
- Italian
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- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Una filosofia di vita in cinque punti per sbarazzarsi di tabù millenari e imparare ad amare senza imbarazzo le differenze, il progresso e - soprattutto - i soldi. Una satira feroce e paradossale, a metà strada tra il manifesto politico e il manuale di auto-aiuto, che segna l'esordio letterario di un autore spietato, in particolar modo con se stesso.
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Informazioni
Editore
RIZZOLI LIZARDAnno
2017Print ISBN
9788817094795eBook ISBN
9788858690246

È proprio vero che a volte anche una sola scelta, apparentemente banale, finisce per condizionare le nostre esistenze. Posso ben dirlo io che ancora oggi, a secoli di distanza, pago giorno dopo giorno un imperdonabile errore di gioventù.
Da ragazzini, tutti dobbiamo affrontare la schiacciante questione del «Che cosa farò da grande?», una domanda cruciale, alla quale purtroppo finiamo puntualmente per rispondere nel modo più stupido e suicida possibile. E non possiamo nemmeno prendercela troppo con la nostra tenera età , perché in simili circostanze anche i genitori si dimostrano spesso del tutto impreparati a guidare la prole con realismo. Anche l’adulto più materialista, infatti, davanti agli occhi sognanti di un figlio si lascia condizionare da aspettative velleitarie, magari perché cerca di rivivere attraverso il suo rampollo una vocazione abbandonata. Quanti padri e quante madri, anziché avviare la progenie nel settore della speculazione edilizia o alla finanza d’assalto, illudono i propri ragazzi lasciandoli percorrere strade senza sbocco? Anziché proteggerli dalla loro giovanile e innata tendenza all’autodistruzione, i genitori mediamente assecondano le volatili ambizioni dei figli, alimentando carriere che non arricchiranno nessuno se non i produttori di chitarre acustiche.
Io, come dicevo, non faccio eccezione. Sono stato anch’io un ragazzino dagli occhi sognanti e i miei genitori non hanno saputo reagire con la dovuta brutalità alle mie confuse aspirazioni future. Mio padre è morto quand’ero abbastanza giovane, senza mai dirmi che cosa gli sarebbe piaciuto vedermi diventare da grande. Mia madre, invece, era molto prepotente, ma cambiava idea in continuazione. Una settimana dovevo iscrivermi a Economia e Commercio, quella dopo mi ordinava di fare l’attore. Mi mostrava una foto di Gary Cooper e mi diceva: «Così però, eh... Non come sei tu!».
A un certo punto, credo per non più di mezz’ora, abbracciò con entusiasmo il suggerimento di un suo amico: sarei diventato un monaco ortodosso. Già mi immaginava ricevere la tonsura e la vestizione, chiuso nella mia cella a pregare con crescente intensità e a nutrirmi di radici sempre più amare. L’idea di costringermi a un’alimentazione controllata e al totale isolamento la conquistò subito, ma la sua ubriacatura clericale durò poco: se io avessi abbracciato la fede, lei non avrebbe avuto nipoti. Fine della parentesi mistica.
Mia madre optò quindi per una più comoda carriera da dottore, con tanto di moglie al mio fianco e bambini al seguito. In fin dei conti, nella nostra famiglia le ernie sono un problema assai più concreto di qualsiasi crisi spirituale, e un figlio medico a portata di mano è sempre meglio di un figlio sacerdote: il primo arriva quando serve, il secondo quando non c’è più niente da fare.
Rispetto alla religione, la medicina era pur sempre un passo avanti, ma per me si trattava comunque di una prospettiva spaventosa: il camice bianco non mi dispiaceva, era il contorno matrimoniale a farmi sudare freddo. Quindi pensai bene di deluderla mettendo sul piatto l’incubo di ogni genitore.
«Mamma, farò l’artista.»
Ero molto piccolo, ma non ero un coglione. Mai e poi mai mi sarei condannato alla miseria in un modo così consapevole. Si trattava solo di una banale tattica da contrattazione: si comincia con una proposta tanto tremenda che quella successiva, per quanto merdosa, risulterà incredibilmente appetibile. Le mie parole fecero subito effetto e, non appena lessi il terrore negli occhi di mia madre, scattai a controbattere: «Oppure potrei studiare Filosofia...».
Non ci crederete, ma quel proposito, per quanto kamikaze, la rassicurò: erano i primi anni Novanta e i filosofi erano inutili allora quanto oggi. Sul piano economico erano già più in esubero dei gatti randagi: mercato saturo e richiesta zero.
E fu così che, qualche anno dopo, mi ritrovai a Londra, davanti all’ingresso del Dipartimento di Filosofia del King’s College. A pochi metri, nel portone a fianco, c’era un altro dipartimento, quello di War Studies. In Italia li chiamiamo «polemologia», una parola che fa pensare a un corso serale tenuto da Klaus Davi, ma in realtà si tratta, molto più umanamente, dello studio della guerra.

Allora vivevamo in un periodo di grande allucinazione collettiva. Io e i miei amici eravamo fermamente convinti che il disarmo mondiale fosse alle porte e ridevamo di quel dipartimento ogni volta che ci passavamo davanti. Noi, filosofi in erba, saremmo stati i sacerdoti della democrazia transnazionale che di lì a qualche mese si sarebbe espansa a macchia d’olio in tutto il globo, rendendo futile ogni confine e ogni esercito preposto a difenderlo. I quattro gatti che ogni giorno entravano a testa bassa nel Dipartimento di War Studies erano per noi dei mentecatti, dei poveri aspiranti soldatini fuori tempo massimo. Dei fascistelli sifilitici piegati a studiare su libri e mappe che la storia avrebbe spazzato via prima che quegli sfigati si laureassero.
Inutile dire che il tempo ha dato ragione a quegli sfigati. È un po’ come ritrovarsi nella più classica commedia americana, in cui i bonazzi che giocano a football bullizzano i poveri secchioncelli. Con la differenza che nel mio caso i bulli eravamo noi studenti di Filosofia, mentre le vittime erano questi timidi adolescenti guerrafondai. E, proprio come accade in tutti i film di questo genere, alla fine i nerd l’hanno spuntata: oggi loro girano su Bmw Serie 7 Passo Lungo e noi gli puliamo i vetri ai semafori. Mentre io sono qui a sudare davanti a un portatile rovente, quei lungimiranti militaristi staranno pianificando un raid aereo sulla Lituania.
Se non avessi dato retta ai miei sogni, alle mie ambizioni intellettuali e alle mie velleità artistiche, quel giorno davanti al King’s College avrei cambiato strada e, invece di entrare al Dipartimento di Filosofia, mi sarei infilato in quello di War Studies. Sarebbe stato un cambiamento tollerabile anche per un pigro come me: i due ingressi erano a distanza di qualche metro. Una distanza che rimpiangerò sempre di non aver percorso.
Immaginate che cosa sarei potuto diventare... Certo non sarei qui a scrivere un libro pieno di rimpianti! Al massimo un prontuario per torturatori o un piccolo galateo del bravo sniper. Non per vantarmi, ma sono consapevole delle mie potenzialità . Con la giusta preparazione, avrei potuto tranquillamente ambire a una carriera nell’esercito degli Stati Uniti. Magari sarei stato uno di quei generalissimi trapuntati di medaglie che non hanno mai visto una trincea, ma che vivono a bordo di jet imperiali che li scarrozzano da una base Nato all’altra. Avrei potuto far colazione a Salonicco con frutta, miele e yogurt greco, pranzare come un Borbone all’Allied Joint Force Command di Napoli, per poi chiudere la serata tirando cocaina sulle note di Hot Stuff nella base di Stavanger, Norvegia.
E invece, niente di tutto questo. Sono qui, nel cuore crudele della Lombardia, legato a un divano, costretto a bestemmiare perché l’app sul mio smartphone ha annullato per la terza volta di fila l’ordine del sushi cinese a domicilio. Una vita miserabile. Tutta colpa dei sogni.
Ma visto che stiamo fantasticando, perché accontentarsi? Fare il generale per gli Stati Uniti ha certamente il suo fascino, però è un ruolo che mi obbligherebbe a una morigeratezza di facciata che proprio non mi si addice. La moderazione fa parte della mia sfera privata, ma in pubblico voglio poter osare...
Forse sarebbe meglio lavorare come consulente strategico per l’esercito saudita, la cui politica estera è talmente sfrenata e menefreghista che mi permetterebbe grandissima libertà di movimento. Potrei finanziare alla luce del sole l’Isis e, al tempo stesso, stringere accordi militari con gli Stati Uniti. Sarei un jolly della diplomazia, la wild card nella stanza dei bottoni... e magari, chissà , approfittando di un vuoto di potere, potrei anche ritrovarmi a occupare qualche trono vacante.
Per esempio, sapevate che il sultano dell’Oman non ha eredi? Per capire la rilevanza strategica di questo Paese a sud della penisola araba, basta guardare una cartina: dallo stretto di Hormuz, a nord di Dubai, passa buona parte delle petroliere che riforniscono il pianeta Terra. Non ci vuole molto a capire che stiamo parlando di una marea di soldi. Ebbene, seduto su questa montagna d’oro c’è il buon Qabus bin Said Al Said, che ormai va per gli ottanta. Nel pieno rispetto della tradizione di famiglia, Qabus è salito al trono rovesciando suo padre (proprio come questi aveva fatto con il nonno di Qabus) ed è in carica da quasi cinquant’anni. Eppure, nonostante tutto il tempo a sua disposizione, il sultano non ha mai avuto figli. Intorno a lui, e al suo inimmaginabile capitale, sta sgomitando da un pezzo una corte di zii, cugini, nipoti e altri gradi di parentela così lontani che sono convinto che potrei infilarmici anche io.
Raccogliendo informazioni su di lui, ho scoperto che è un fanatico della musica classica, con un debole per l’organo a canne (di cui possiede il più grosso esemplare mobile al mondo). Ha addirittura creato un’orchestra di centoventi elementi, ragazzi e ragazze dell’Oman che sono praticamente cresciuti con uno strumento in mano. Potrebbe finalmente essere arrivato il momento di sfoggiare la mia cultura musicale.

Sono solo sogni, lo so, e i sogni sono delusioni. Per questo oggi, ogni volta che vedo i miei nipoti, faccio il possibile per instillare in loro dei concetti molto semplici: «Lascia stare lo studio. Appena impari a leggere, scrivere e contare, datti alla cosmetica».
Sono un grande consumatore di prodotti per l’igiene personale e di creme di bellezza, e questo non perché sono omosessuale, ma perché a differenza di molti di voi ho l’hobby di lavarmi. La mia camera è disseminata di tubetti, vasetti e flaconcini e, quando torno a casa sfinito dal lavoro, mi capita spesso di buttarmi a letto tuffandomi nella lettura di qualche grande classico: l’etichetta di una maschera per il viso coreana o la composizione chimica di un balsamo energizzante canadese. Dopo anni e anni di letture, posso dire con assoluta certezza che (fatta eccezione per alcuni prodotti molto specifici) il 99 per cento di questi intrugli vengono realizzati in non più di cinquanta stabilimenti sparsi in giro per il mondo, e buona parte di questi stabilimenti fanno riferimento a una manciata di grandi marchi multinazionali. Che cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che dietro ai milioni di marchietti che trovate in vendita non ci sono altrettante grandi imprese con fabbriche e manodopera a carico, ma solo un ufficio in cui si inventano nomi dei nuovi shampoo, si tiene la contabilità e si disegnano etichette. Perché non ho messo in piedi anche io un ufficietto così?
Ogni volta che ripenso alle stronzate di cui mi sono riempito la testa da ragazzino, mi ripeto: «Avresti dovuto fare una linea di balsami cruelty-free!». Se solo non avessi perso tutto quel tempo dietro a Foucault o l’Incredible String Band e mi fossi dedicato a mescolare due tipi già esistenti di balsamo per «inventarne» un terzo tutto mio... Con un investimento iniziale tutto sommato contenuto (molto meno di quello che spendo in un anno per la manicure), adesso vivrei nel lusso e avrei libero accesso alle migliori cliniche svizzere e ai loro processi ringiovanenti, soprattutto quelli ancora in fase di sperimentazione. E invece eccomi qui: con la pelle disidratata come biltong sudafricano e tempestata di capillari rotti che nemmeno un bracciante irlandese che ha appena seppellito sua figlia.

So di non avere scuse. Il fatto di voler salvare i miei nipoti dall...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- Introduzione. Clown a tempo pieno
- Punto 1. Non seguire i tuoi sogni
- Punto 2. Diffida della semplicitÃ
- Punto 3. Non cercare consensi
- Punto 4. Evita la realtÃ
- Punto 5. Mentire è un atto civile
- Conclusione. Missione fallita
- Ringraziamenti
- Indice