Le regole del fuoco
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Le regole del fuoco

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Le regole del fuoco

Informazioni su questo libro

È la primavera di un anno terribile, il 1917, quando Maria Rosa Radice a poco più di vent'anni lascia gli agi della sua casa a Napoli. Scappa da sua madre, dal salotto aristocratico che fino ad allora è stato il suo unico, soffocante orizzonte. La destinazione è la sola possibile per una donna non sposata e in fuga: il fronte. L'impatto della guerra è brutale. In un piccolo ospedale sul Carso cura centinaia di feriti, li vede soffrire e morire. Ma c'è una luce nelle sue giornate, una scintilla di cui si accorge poco a poco. È la sua silenziosa compagna di stanza Eugenia Alferro, una provinciale del Nord che sogna di diventare medico. Giorno dopo giorno, le insegna a sopravvivere in corsia e a superare la paura. La guerra regala alle due ragazze una libertà altrimenti impossibile. Così, nel tempo, avvertono una passione inattesa crescere tra loro e a mezza voce, la notte, si dichiarano l'amore. Non sanno se il futuro permetterà loro di rimanere vicine, entrambe però sentono di essere cambiate. Ora sono pronte a lottare per restare se stesse. In un romanzo vibrante, che appassiona e scuote, Elisabetta Rasy racconta la guerra dalla prospettiva misconosciuta delle donne al fronte. Ritraendo un'intimità limpida ma circondata dalle tenebre, ci mostra come l'amore non abbia mai avuto confini, perché i sentimenti esplodono sempre senza chiederci il permesso.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
Print ISBN
9788817097543
eBook ISBN
9788858691335

PRIMA PARTE





Sangue. Soltanto sangue. Sangue e sangue e ancora maledetto sangue. Non credevo che un corpo umano ne contenesse tanto. Il tenente con il torace sfondato mi era morto tra le braccia, dissanguato. Infermieri e piantoni si sforzavano di tenergli le gambe in alto, io cercavo di tenergli la testa immobile. In terra era solo un lago di sangue, schizzato pure sulle vesti degli assistenti e sulla faccia. Non sembrava moribondo. Invece, tra la vita e la morte, soltanto quattro minuti e due parole, muoio… muoio. Un rigurgito inesauribile, poi l’immobilità. Sono rimasta intrisa del suo sangue, mai ne avevo visto tanto e sentito l’orrore sulle mie mani, sui miei vestiti. Di tutta l’energia del suo corpo non era rimasta che un’immonda pozza.
Ricordi?, ti avevo raccontato, credo quasi con queste stesse parole, la mia prima esperienza con i feriti. Ti avevo detto che mai mi ero sentita così impreparata, sperduta, sola e incapace e anche umiliata, umiliata dalla mia pochezza, come quella prima notte in cui mi ero trovata col dottore e gli infermieri nella stanza male illuminata che avrebbe dovuto essere una sala operatoria. Da fuori arrivavano lamenti, un coro di lamenti in cui ogni tanto si alzava una voce solista, un urlo tremendo, e io non potevo fare niente, neppure spingergli un cuscino sul viso per farlo tacere. Perché questo avrei voluto, far tacere i moribondi, voltare le spalle ai morti, scappare. Ti avevo raccontato tutto confidando nella tua comprensione. Eri una ragazza appena arrivata come me, anche più giovane di me. Ero sicura che avresti capito. Invece mi hai guardato con una smorfia più di disprezzo che di disapprovazione, tirando le labbra indietro come di fronte a un cibo guasto, e mi hai detto tre parole: Non ti vergogni?
È cominciata così tra noi, spavento e umiliazione da parte mia, rifiuto e rimprovero da parte tua. Me la sono presa moltissimo e ho deciso che non saremmo mai state amiche. Tu mi hai chiesto che cosa ci facevo lì, se ero così impaurita e impreparata. Io allora non ho avuto il coraggio, o semplicemente la voglia, di risponderti. Del resto non mi avresti creduta. Ora, da dove sei, distingui meglio il vero e il falso, e te lo posso raccontare. Ero venuta al fronte non per amor di patria ma per odio. Odio, noia e fastidio per tutto quello che avevo intorno.
Quando mi hai detto: Non ti vergogni?, ti ho guardato in silenzio per qualche secondo, poi, per dimostrarti cos’è la buona educazione, ti ho sorriso e ti ho risposto: Permette che mi presenti? Sono Maria Rosa Radice, vengo da Napoli. Ti sei voltata e hai cominciato a svuotare la valigia. Io mi chiamo Eugenia Alferro, hai detto mentre cercavi un posto su cui appoggiare le tue cose. Non c’era che una sedia e te l’ho passata. Hai detto grazie, poi sei rimasta in silenzio tentando di fare ordine. Ho capito subito che eri un tipo preciso, tutto il contrario di me, e non ti ho più raccontato perché ero arrivata lì, nell’ospedale da campo di S., l’ospedale più avanzato del Carso, forse il più pericoloso.
Arrivando avevo chiesto dov’era il nemico al tenente B. e lui si era messo a ridere. Il nemico, mi aveva risposto, è come dio, davanti, dietro, di fianco, tutto intorno a noi, ma nessuno sa di preciso dov’è. Il tenente B. aveva sempre voglia di ridere, anche se ai suoi scherzi rideva solo lui, ha smesso di ridere solo quando è entrato in coma, qualche ora prima di morire.
Non ti ho mai raccontato la verità sulla mia partenza, ora te la voglio raccontare, così avrai pietà, e ancora una volta perdonerai il mio caratteraccio.
La mattina in cui ho compiuto vent’anni è successo un fatto strano. Non era ancora mezzogiorno e mia madre Amalia, che io non chiamavo né mamma né madre ma come tutti gli altri Donnamà, è entrata in camera mia tutta vestita. Era febbraio e faceva un freddo terribile, i bracieri e i camini non scaldavano per niente casa nostra. Di fronte alle finestre, il mare dietro la Villa era grigio e schiumoso, e pure mia madre sembrava grigia e schiumosa. Non te l’ho mai detto, perché di questo davvero un po’ mi vergognavo di fronte alla sobrietà della tua vita e della tua famiglia, ma Donnamà non si alzava mai prima dell’una. Faceva un po’ di toilette e verso le due – era precisissima nei suoi orari, senza guardare mai l’orologio – consumava un piccolo pasto che era insieme la prima colazione e il pranzo. Glielo preparava tutti i giorni sempre allo stesso modo la serva Serafina, che poi l’aiutava a rimettersi a letto.
Se te lo avessi raccontato avresti pensato che mia madre era vecchia e invalida, come certe bestie che curava tuo padre. Invece no, aveva quarant’anni ed era forte come un toro, ma voleva sempre essere aiutata da tutti. Ogni tanto ho pensato che mio padre fosse morto così presto dopo il loro matrimonio perché si era scocciato di aiutarla. Per la verità avevo cominciato a raccontartela, questa storia, ma tu mi hai immediatamente interrotto, perché stavano arrivando altri feriti. Non perdiamo tempo in chiacchiere, mi hai detto, e io mi sono rimessa il velo che mi ero tolta e ti ho seguita verso la corsia. Hai tutti i capelli di fuori, mi hai detto, cioè rimproverato. Dei tuoi sotto il velo bianco non si vedeva neanche una ciocca, e mi sono chiesta se eri chiara o mora. Una domanda stupida, si vede che ero confusa: le tue sopracciglia erano così nere e folte che certo non potevi essere una biondina. Però allora non avevo avuto il tempo di guardarti bene, e poi non mi pareva che ci fosse molto da vedere: forse avevi sbagliato la taglia, ma sembravi persa nella divisa, una nuvola bianca su cui si affacciava una faccetta piccola e un po’ scura.
Si aprirono gli sportelli ma uno solo scese da sé, gli altri vennero scaricati come pacchi, anzi, come pacchi rotti nel trasporto. Poi, quando furono usciti tutti quelli che si reggevano da sé oppure si sostenevano a un compagno, ciechi, zoppi, con bende insanguinate e cadenti, cominciò il lavoro delle barelle. Erano creature umane o mostri, pezzi di carne bruciata? Due volontarie insieme al medico cominciarono a togliere le fasciature. La pelle cadeva a brandelli e al posto della faccia, faccia di gente di vent’anni, apparivano maschere nere terrificanti. Quelli che stavano in piedi quasi non parlavano, c’era solo il brusio di qualche lamento soffocato, come se si vergognassero. Ma gli altri, sulle barelle, sembravano già morti o impazziti, o ubriachi, erano rantoli e urla e poi urla e rantoli e ancora urla, un suono d’allarme che non pensavo esistesse in tutto l’universo. Molti puzzavano.
Di nuovo volevo scappare, levarmi dall’orrore e da quel fetore. Poi tu ti sei avvicinata, velocissima, e velocissimamente mi hai detto: Cosa fai lì imbambolata, prendi la benzina, strofina, leva le bende, togli il fango, togli il sangue. Ho provato a levare un guanto insanguinato a un artigliere. Ma non era un guanto, era la terra, la terra rossa del Carso impastata col sangue. Ho lasciato ricadere la mano, tanto quello moriva comunque, e me ne sono andata. Nessuno se n’è accorto, nemmeno tu. La morte era più importante della mia presenza. Sono scappata ma non sono andata da nessuna parte. Non potevo tornare indietro.
Non te l’ho mai spiegato per bene perché sono partita per la guerra. Avevo paura che tu mi giudicassi male, che giudicassi male la mia famiglia. E a farlo non ti saresti sbagliata, ma io non volevo essere giudicata male da te. Te lo voglio raccontare ora, te lo voglio raccontare come la scenetta di una commedia la storia della mia decisione, la decisione eroica di partire per il fronte.
Ti ricordi che ti facevo sempre delle scenette buffe, soprattutto su quell’idiota di medico che poi si è suicidato, che si comportava come un domatore con noi, il Signor Maggiore: cappa bianca e guanti di gomma, “sterili” sottolineava, a ogni visita ufficiale delle alte autorità, o della duchessa e corteo, poi la cappa e i guanti finivano chissà dove… Quando arrivava lui in corsia tutto si ghiacciava: i feriti non si lamentavano più, i moribondi smettevano di rantolare oppure morivano subito per non essere rimproverati, gli infermieri tremavano, i medici lo maledicevano in silenzio, si capiva dalla faccia. Lui non avrebbe voluto le donne all’ospedaletto di S., bastava vedere gli sguardi di disprezzo che ci lanciava. Ma non era il solo, quanto a questo: il capitano siciliano bello e malinconico che parlava poco una volta me lo disse: noi donne eravamo solo un imbarazzo in mezzo alla guerra, se volevamo renderci utili era meglio se rimanevamo a casa nostra, a fare le madrine dei soldati, a preparare gli indumenti di lana e i coltroni, a spedire pacchi dono, tutt’al più a visitare gli infermi che arrivavano negli ospedali di città.
C’erano molte donne, a casa, che la pensavano come lui. A Napoli c’era una famosa giornalista, brutta e grassa, che aveva scritto sul giornale che le donne andavano a fare le crocerossine solo per civettare con gli ufficiali. Credo che i suoi articoli abbiano influenzato mia madre, ma alla rovescia. Lei sperava che avrei trovato un bell’ufficiale con cui civettare. Sto scherzando, malgrado tutto non mi è passata la voglia di scherzare, vorrei farlo soprattutto con te, come una volta. All’inizio i miei scherzi ti davano fastidio, mi dicevi che non sapevo comportarmi, che per una volontaria la discrezione e la disciplina erano essenziali. Un giorno mi hai detto che dalla mia cattiva condotta si vedeva proprio che ero napoletana. Poi però mi hai chiesto scusa, ma non eri pentita, si capiva benissimo che lo pensavi davvero.
Allora, eccoti la mia storia, cioè, scenette da una commedia.
Scena prima, breve: Donnamà vestita di tutto punto all’alba di mezzogiorno e sua figlia Maria Rosa, per la verità ancora in camicia da notte.
Donnamà dice: Mettiti decente e vieni in salotto che ti devo parlare. Poi se ne va, come una regina offesa.
Io mi copro con lo scialle e vado in salotto. Mia madre è furibonda perché la mia amica Enrica, che già aveva avuto un figlio nell’agosto del ’15, aveva da poco partorito una seconda figlia, proprio il primo giorno dell’anno, l’anno terribile e meraviglioso. Enrica non era davvero mia amica, era stata assieme a me al Sacro Cuore, e tutte e due ci scocciavamo a dare retta alle monache. Da bambine ci siamo pure prestate dei libri, che ne so, Les Malheurs de Sophie della Comtesse de Ségur, ancora più noioso delle monache. Ma l’amicizia è finita presto perché lei a sedici anni si è sposata.
Mia madre era diventata verde di rabbia quando l’aveva saputo perché Enrica aveva un anno meno di me. Se fosse stata più calma non si sarebbe arrabbiata per niente, perché non era mica un gran matrimonio. Aveva sposato un greco appena arrivato a Napoli e poco più grande di lei, neppure ventenne. Il greco era molto bello e sembrava ricco, e poi non era proprio greco perché aveva anche il passaporto del re d’Inghilterra, invece non era veramente ricco, io l’avevo capito, e neppure aristocratico, era figlio di un armatore morto ed era venuto in Italia con la sorella e il cognato che faceva il mercante di non so che. In più aveva la passione del gioco, e poco dopo perse tutte le sue sostanze al tavolo verde. Ma per Donnamà qualunque matrimonio o fidanzamento o gravidanza andavano bene per tormentarmi.
Mi annunciò la nascita della seconda figlia di Enrica e mi disse: Anche tu devi deciderti, e pure presto. Poi mi voltò le spalle e uscì dal salotto come una regina ancora più offesa.
Scena seconda, un po’ più lunga, qualche giorno dopo e con qualche altro personaggio. Però prima ti devo dire che io odiavo tutto, odiavo la prepotenza di mia madre che copriva l’indolenza, odiavo le serve che non si ribellavano ai suoi capricci, odiavo mia sorella che le dava sempre ragione e che a quattordici anni parlava solo del corredo nuziale. E non basta: odiavo l’interminabile sonno mattutino di Donnamà, le sue serate a giocare a carte con gli amici – se fosse crollata la casa manco se ne sarebbe accorta – e la voce squillante da cantatrice di café chantant. Ma soprattutto odiavo i giovanotti che invitava a casa, pensando di ognuno di loro, ma proprio di ognuno senza eccezioni, che sarebbe stato il genero ideale, cioè il marito perfetto per me. E odiavo il suo modo di presentarmeli, allusivamente. Non era allusiva per niente in realtà, a ogni presentazione era come se mi dicesse: È ora che ti levi di torno.
Ecco, adesso sei pronta per la scena seconda.
Stavolta sono io, qualche giorno dopo, che vado in camera sua, è tardi e si è appena svegliata ma già dà ordini.
Io esordisco in dialetto, cercando di rifare la voce di Serafina, la serva, che quando parla pare una pentola che bolle.
Aggio deciso.
S’il te plaît, mon enfant.
Aggio deciso.
Maria Rosa, s’il te plaît. Parla educatamente.
Da quando era rimasta vedova mia madre era diventata ancora più secca, dispotica e petulante. Dispotica soprattutto con la figlia maggiore, cioè io.
Ho detto che ho deciso, vi va bene così, maman?
Vatt’a pruvà o’ vestito e lievat’e miezzo.
Signorina, la veste è bellissima, tiene la gonna di taftà rosa acceso e il corpetto di pizzo rosa pallido. Serafina cercava sempre di mediare tra madre e figlia perché non sopportava il tono di voce di Donnamà quando era irritata con me, cioè quasi sempre.
Io sono tornata in camera mia senza fretta, mentre la serva mi seguiva con il vestito posato sulle due braccia tese in avanti, come portasse un paramento sacro. Dietro veniva la sarta, una donnetta grassa e furtiva, che aveva sempre fretta e cercava maldestramente di non dimostrarlo, per giunta quando non parlava in dialetto era untuosa e ridicola.
Signorina bella, questo vestito vi farà una stella. Sono sicura che non c’è niente da ritoccare, con una figura come la vostra. Solo un momento, ve lo infilate, ci guardiamo allo specchio, ci stupiamo della bellezza e ce lo togliamo.
Ho aperto la porta della mia stanza e sono entrata, seguita dalle due donne. Ma già tutto era lontano. Ho tolto il vestito dalle braccia tese di Serafina e l’ho scaraventato sul letto. Poi le ho cacciate.
La lettera era sullo scrittoio, seminascosta da un libro. Ho conficcato la penna nel calamaio e l’ho tirata fuori così violentemente che mi sono sporcata tutto il plissé della mia bella camicetta azzurra, l’inchiostro è finito pure sul sottomano di pelle verde, poi ho scritto. Sapevo di poter contare sull’antipatia che mio zio, il marito della sorella di mia madre, aveva sempre manifestato per la cognata, la quale da quando era vedova provava invece nei suoi confronti una timorosa soggezione.
Non posso più aspettare, maman è rimasta al tempo del vecchio re, è capace di chiudermi in convento se non sposo qualche scemo che dice lei. Scrivile e obbligala a lasciarmi partire.
Poi ho preso una busta e, stavolta stando attenta che l’inchiostro non colasse, ho aggiunto con meticolosità l’indirizzo: Generale Armando Liguori, Comando Ufficiale, Caserma Cavalleggeri di Pinerolo. Dopo ho richiamato la serva e le ho detto di andare a cercare Giuseppe. Giuseppe è il cocchiere e soprattutto il factotum della famiglia, ma siccome era stato portato in casa da mio padre, lui fra tutti preferisce me, che molto assomiglio a mio padre e niente a mia madre.
Quando Giuseppe uscì con la lettera, ho chiuso la porta, ho girato la chiave nella serratura, mi sono seduta sul letto e mi sono messa a ridere.
Stava per cominciare la primavera del 1917, bella e burrascosa come tutte le primavere. L’Italia era in guerra da due anni contro gli imperi centrali, e, ora lo so, le ragazze avevano accorciato le gonne e molte di loro erano uscite di casa per andare a lavorare. Era la prima volta che tante donne, contemporaneamente, in tante città diverse, uscivano di casa per andare a lavorare. Qualcuna stava in fabbrica, qualcuna faceva la spazzina, qualcuna guidava addirittura il tram. Ma in casa mia era come se niente di tutto questo stesse accadendo. Anche a me non importava nulla del lavoro delle donne, non ne sapevo nulla. Volevo solo liberarmi di mia madre, di mia sorella, dei miei noiosi pretendenti e del futuro che sembrava incombere per necessità sulla mia testa e che mi appariva insopportabile. La scena che ti ho raccontato è sciocca ma io me la ricordo, attimo per attimo, perché è da lì che tutto è successo. Anche questa lettera.
L’intervento di mio zio fu decisivo. Poco più di un mese dopo partivo per il Nord, per la guerra, per il fronte come infermiera volontaria.
Non me ne andai dal nostro ospedaletto, e il successivo arrivo dei feriti lo presi con più calma. La sera prima, in corsia, una delle volontarie romane era scoppiata a piangere e non riusciva più a calmarsi. Era una ragazza molto bella con un gran seno, che tutti, anche il domatore, non potevano fare a meno di guardare con la coda dell’occhio. Il seno sussultava così tanto che a un certo punto la volontaria che era arrivata con lei disse: Ha il convulso, e le coprì il viso e il petto col velo. Ma la scena diventò ancora più strana perché c’era quel corpo tutto velato di bianco con una croce rossa al posto della testa, che sembrava scossa dal terremoto. Per fortuna il piantone le portò via e in corsia ritornò la pace. La pace della corsia come sai era molto speciale. Ci ho messo molto ad abituarmi. Quando cadeva il buio, ricordi?, prima c’era qualche grido isolato, poi i lamenti di quelli che avevano ancora la forza di lamentarsi, poi il brusio sordo del respiro dei moribondi. Poi il silenzio. Il silenzio era peggio di tutto. Meno male che a un certo punto cominciava la musica del cannone, se era lontano sembrava quasi che tuonasse, quei tuoni che quando stai comoda nel tuo letto ti aiutano a dormire. Anche il cannone lontano faceva quell’effetto, almeno a me.
La prima sera gli ufficiali medici ci hanno trattato cortesemente. Tu venivi da un altro ospedale da campo, più in basso, in mezzo alla pianura e ai canali, io venivo da Padova e lì, anche se mi ero trovata con quel morto tra le braccia, la notte dormivo bene perché ero ospite in una casa molto lussuosa di amici dei miei zii, e non m’importava se certe volte bisognava stare completamente al buio, per proteggersi dalle incursioni notturne, mi avevano spiegato.
Durante il viaggio avevo visto per la prima volta le montagne. Non immaginavo che fossero così, a Napoli c’è il vulcano, ma è diverso, sembra la casa di una vecchia divinità, non un luogo della natura. E poi il Vesuvio non cambia il colore del mare e del cie...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Napoli, 1955 - Essex, 1965
  6. Prima parte
  7. Seconda parte
  8. Essex, 1965
  9. Nota dell’autrice