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Gli alberi sono più belli se qualcuno li ama
Mia nonna parlava ai fiori del suo vivaio, e mi ripeteva che loro capivano e crescevano più belli. Il tempo e la scienza le hanno dato ragione.
La natura ha una sorprendente capacità di essere influenzata da quell’energia arcana che è l’amore. Questo vale per gli uomini, per gli animali e anche per le piante. Gli alberi sentono, percepiscono le nostre intenzioni quando ci avviciniamo. Sanno subito se la nostra mano è lì per aiutarli o per ferirli.
Mi arrampico sugli alberi da quando sono nato, li osservo e li curo. E se ho una giornata storta, loro cercano di impedirmi, come possono, di mettere mano al segaccio. Magari mi rendono complicato il movimento tra i rami, o perfino lanciare la corda per issarmi su di loro.
Ormai è provato che gli alberi possono sentire, comunicare, reagire e muoversi, seppur in modi totalmente diversi da quelli che siamo abituati a considerare. Basta pensare alla mimosa sensitiva (Mimosa pudica), un arbusto che ha sviluppato una particolare risposta agli stimoli tattili. Da un punto di vista visivo si presenta come una contrazione delle foglioline che formano la foglia vera e propria, contrazione che serve a ridurre la superficie esposta al vento o agli eventi atmosferici. Questo movimento è dovuto a un’alterazione della pressione interna dell’acqua contenuta nella foglia, che riesce a far muovere la piccola lamina fogliare verso l’apice o, al contrario, verso il picciolo. E inoltre viene utilizzato dalla mimosa anche in risposta a stimoli tattili diretti. Quando ero bambino, nelle serre di mio nonno, dove queste piante erano coltivate, mi divertivo a torturarle per ore toccandole con il dito o semplicemente soffiando. Loro, proprio come si comporta un adulto con un bambino insistente, dopo un po’ si stancavano di «rispondere» rimanendo «mute» e chiuse, e togliendomi il gusto di quello strano gioco.
Alcuni studi dimostrano che certe piante possono addirittura riconoscere chi le «maltratta» e chi se ne prende cura con amore. Si è visto inoltre che le piante maltrattate crescono meno ed emettono particolari composti chimici (simili all’adrenalina o all’ormone della paura degli animali) già quando «il molestatore» è nei paraggi.
Pensate perciò a cosa può accadere quando all’albero si avvicina una persona per potarlo. Ogni intervento di potatura causa dei tagli, e quindi delle ferite. È normale che l’albero abbia paura, tuttavia sono convinto che distingue chi sa potarlo bene da chi invece lo taglia con rabbia, senza alcuna regola e precauzione. Esattamente come ciascuno di noi distinguerebbe all’istante la lama di un chirurgo dal coltello di un macellaio. Per questo spesso mi capita di parlare con le piante quando le poto, spiegando loro cosa sto facendo e chiarendo che non sono lì per fare loro del male.
La storia che vi voglio raccontare è quella di un rapporto speciale, tra due specie viventi agli antipodi nella scala evolutiva e diametralmente opposte nell’esprimere la propria capacità vitale: gli alberi e l’uomo. L’uomo, piccolo, finito e poco longevo, mobile e intelligente, e l’albero enorme, ultracentenario e immobile, capace di una vitalità inimmaginabile, di reazioni e risorse ancora da scoprire. L’uomo, arrogante e sprezzante, e gli alberi che si immolano ai suoi scopi, salvo riprendersi in un baleno gli spazi che l’essere umano con noncuranza abbandona.
Gli alberi sono resilienti oltre ogni aspettativa e maestri muti di pazienza e perseveranza. Lo dimostra il fatto che hanno imparato a comunicare anche con noi. Certo, non potremo mai sentire un albero esclamare: «Ahi!», tuttavia saremo in grado di comprendere se abbiamo agito bene o male. Ci vorrà solo del tempo.
Per comunicare con le piante, infatti, per prima cosa dobbiamo essere disposti a cambiare completamente la nostra concezione del tempo, così importante per noi e invece così effimero per loro. La mancanza di tempo è un nostro limite, perché lo percepiamo a partire dalla nostra finitezza, mentre per le piante il tempo è un cerchio che si amplia all’infinito, proprio come gli eterni anelli dei suoi fusti. La pianta cresce e si sviluppa, ogni anno, producendo nuovo legno, nuovi tessuti, nuove radici e nuove foglie. Proprio in questa crescita continua si evolve il suo modo di relazionarsi con noi. Infatti la pianta cresce maggiormente dove le arriva la luce, e invece meno in una zona ombrosa. Allo stesso modo distribuisce il legno dei nuovi tessuti, sempre dall’interno verso l’esterno, a seconda delle necessità: più legno nella zona in cui serve un sostegno maggiore per reagire al peso della chioma, meno legno se i tessuti presenti sono già adeguati. Al contempo, la distribuzione del legno è per noi umani un prezioso indice delle problematiche di natura patologica o meccanica: in caso di attacchi parassitari o problemi alle radici i germogli si allungano meno. In funzione di questo comportamento per esempio la produzione di legno in prossimità delle ferite è indicativa delle capacità di recupero della zona colpita. Se si trattasse di esseri umani, gli psicologi definirebbero tali comportamenti come comunicazione non verbale. Questo è il linguaggio degli alberi, un linguaggio corporeo, attraverso cui è possibile capirli.
La prima cosa da fare è senza dubbio osservare molto, perché spesso gli indizi che le piante ci danno, soprattutto all’inizio, sono discreti, piccoli, nascosti, e per farlo occorre allenare l’occhio, in modo da riconoscere gli indicatori che ci portano a sapere dove e cosa è importante guardare su ognuna. Osservare se il tronco è circolare o se presenta delle eccentricità può aiutarci a comprendere se l’albero si è inclinato in passato; se ci sono delle fessure nel terreno, invece, vuol dire che si è inclinato solo di recente e ci potrebbero essere dei danni alle radici. Ugualmente, un tronco che parte storto e poi si riporta sulla verticale ci mostra che la pianta in passato si è inclinata, ma in un secondo momento si è corretta. Lo stesso metro di analisi può essere adottato non solo per il fusto, ma anche per branche, rami e colletto (la congiunzione tra radici e tronco). Oltre al legno e alla sua distribuzione, l’albero ci fornisce altre preziose informazioni sul suo stato di salute attraverso il fogliame. Una chioma folta di colore verde scuro (le tonalità di verde possono variare parecchio a seconda della specie) spesso e volentieri è sinonimo di una pianta sana, senza attacchi parassitari in corso e senza problemi all’apparato radicale. Una chioma rada, con foglie piccole o tendenti al giallo, è indice di uno stato di salute precario, dove è molto probabile che ci sia una causa di deperimento esterna.
Proprio questo linguaggio corporeo degli alberi, così preciso e mirato, mi ha fatto pensare che lo facciano in maniera volontaria, per farsi capire. Vogliono dirci che un mondo dove alberi e uomini vivono in armonia è possibile oltreché necessario. Il fatto che le piante sentano, reagiscano e, a modo loro, parlino, mi porta a credere che in qualche modo abbiano anche dei sentimenti. Io non lo so per certo, ma ritengo che ci siano piante più tenaci di altre, quelle che vogliono vivere a tutti i costi. Ci sono piante che, se dai loro una piccola chance di sopravvivenza, la sfruttano al massimo, vivendo molto più a lungo di coloro che avevano fantasticato di doverle abbattere.
Allo stesso modo vedo che le piante che vengono trattate con cura e attenzione ripagano con grande impegno, donandoci tutto quello che hanno da offrire, oltre alla cosa più importante: la loro bellezza. I colori della corteccia, le sfumature delle foglie, le forme intricate dei rami, il perfetto disegno che le rende una diversa dall’altra. Spesso mi impongo di tornare a vedere piante che ho potato in passato. Sono convinto che mi aiuti a migliorare, a capire i miei errori, proprio perché in qualche maniera mi parlano, mostrandomi dove ho sbagliato e cosa potevo fare meglio. Quando lo faccio, trovo piante felici di aver incontrato il mio segaccio e la mia motosega a batteria, piuttosto che la mano sciagurata di alcuni giardinieri improvvisati. Come me lo lasciano intendere? Mostrandosi nel loro totale splendore. Belle, vigorose, protese a toccare il cielo. In una parola: vive. Non mera sopravvivenza, ma slancio nell’esistenza, ringraziando l’amore dell’uomo con tutta la forza di cui sono capaci.
Ho più di qualche tatuaggio inciso sulla pelle, ma a uno in particolare sono affezionato, perché mi ricorda la fiducia che una pianta può avere nell’uomo. Molti anni fa abbiamo preso in cura la quercia di Fossalta, un albero di oltre cinquecento anni che si trova in provincia di Venezia ed è uno degli esemplari più straordinari d’Italia. La pianta era in piena recessione vegetativa e all’inizio sembrava non rispondere ai nostri interventi. Poi, con i tempi degli alberi, ha ricominciato a vegetare con vigoria, ricostruendo la chioma splendida che caratterizza le querce. Io sono sicuro che si è sentita amata e ha fatto tutto quello che poteva per riuscire a raccontarlo a chi avrà la fortuna di ammirarla in futuro. Per non tradire l’amore che ci abbiamo messo.
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Crescere per vivere
Un albero che non cresce è un albero morto. È più facile rendersene conto quando abbiamo a che fare con un esemplare piccolo, giovane. Quando la pianta è ormai adulta è invece piuttosto complicato, perché la vediamo sempre uguale, con la stessa forma e la medesima altezza. Eppure ogni anno cresce, magari di pochi millimetri. Deve farlo per poter vivere, e la motivazione risiede nella sua struttura.
Quello che chiamiamo legno, infatti, è la parte che, da un punto di vista biologico, corrisponde allo xilema, il quale ha la funzione di trasportare la linfa grezza dalle radici alle foglie. Andando dall’interno verso l’esterno troviamo poi il cambio, uno strato molto sottile di cellule pluripotenti, responsabile sia della produzione dello xilema sia del floema, attraverso la differenziazione cellulare. Il floema, ubicato subito sotto alla corteccia, è la parte attiva che trasporta la linfa elaborata dalle foglie a tutti gli altri tessuti della pianta.
Questa struttura implica una costante necessità di ricambio delle cellule (che a un certo punto muoiono) a opera del cambio, che producendone di nuove sia verso l’esterno sia verso l’interno, genera un accrescimento diametrico. Una pianta che non cresce più è una pianta morta, perché non ha più cellule attive nel trasporto della linfa.
Il cambio è quindi il fulcro attorno al quale si sviluppa la vita della pianta. Da esso dipende la sua sopravvivenza, oltre che per gli aspetti biologici, anche per la meccanica che le permette di resistere alle sollecitazioni degli agenti atmosferici: la neve per esempio e, soprattutto, il vento. Il cambio infatti è un’evoluta stazione meteorologica e un rigoroso registratore di sollecitazioni. In base alle informazioni che capta sulla piovosità stagionale, sulla forza dei venti che colpiscono la chioma e sui difetti che la pianta può avere sviluppato nel tempo, decide quanto legno di trazione e di compressione deve creare. L’obbiettivo di questo procedimento è far sì che le forze vengano ripartite in modo uniforme sul piano orizzontale e su quello verticale.
Questo principio venne studiato a fondo da uno dei primissimi biomeccanici degli alberi, il professor Claus Mattheck, che lo definì «assioma della tensione costante».
Il ricambio cellulare, volto a far crescere la pianta compensando eventuali deficit meccanici, viene realizzato cellula dopo cellula per tutta la vita del nostro albero. Guardando gli anelli di accrescimento annuali, infatti, è possibile capire il clima che la pianta ha avuto a disposizione per vegetare anno per anno: è in tal modo che la scienza della dendrocronologia ha potuto ricostruire con precisione i climi delle ere passate.
La funzione del cambio non si limita al rinnovamento cellulare e alla compensazione delle eventuali carenze di stabilità, ma è necessario anche per la difesa da attacchi di patogeni fungini, in quanto può sviluppare delle cellule appositamente modificate per contenere la propagazione dello sgradito ospite all’interno dei tessuti.
Oltre allo sviluppo diametrico, ci sono altre due importanti zone di crescita della pianta, rappresentate dai meristemi apicali e radicali. Entrambe queste zone sono accomunate al cambio dalla presenza di cellule totipotenti, ma con funzionalità e conseguenze biologicamente molto diverse.
I meristemi apicali sono infatti responsabili della crescita in lunghezza di ogni estremità dei rami, per permettere alla pianta di raggiungere zone più luminose o di svettare sopra le chiome degli alberi vicini. Questo perché, rispetto al cambio, i meristemi apicali sono sensibili alla luce, e crescono verso le zone con un’elevata intensità luminosa, secondo un sistema chiamato fototropismo.
Il fototropismo è regolato da un particolare ormone della crescita, specifico delle piante, definito auxina, sintetizzato nei meristemi apicali e distribuito lungo i rami attraverso un trasporto basipeto (dall’alto verso il basso), di cellula in cellula.
I meristemi radicali si differenziano da quelli apicali principalmente per due caratteristiche. In primo luogo il meristema radicale presenta la tipica «cuffia», una porzione di cellule che funge da protezione nella penetrazione del terreno, evitando danni alle cellule più importanti. Inoltre alla base dei meristemi radicali non si assiste mai alla formazione di organi laterali, come, invece, possono esserlo le foglie per i meristemi apicali.
A questo punto diventa fondamentale mostrare un’altra caratteristica particolare del mondo arboreo: quello che in realtà noi vediamo della pianta, esclusa la corteccia che può permanere anche alcuni decenni, è sempre la parte più giovane, l’ultimo strato di cellule prodotte, l’ultima annata di foglie. Certo, per alcune conifere gli aghi possono restare sulla pianta anche alcuni anni. Il pino domestico (Pinus pinea L.) li mantiene fino al quarto anno, mentre sul Pinus longaeva possono perdurare anche quarant’anni (ma stiamo parlando di un albero che ne vive quattromila...).
Ogni anno la pianta si riveste di cellule nuove, dagli apici alle radici, coprendo del tutto quelle prodotte in precedenza.
Il fatto che cresca sempre dovrebbe farci giungere a una conclusione importante: a oggi non sappiamo quanto può diventare alto, quanto legno può produrre o quanti anni può vivere un albero. Certo, analizzandolo all’altezza del colletto e contando gli anelli annuali, sapremmo con esattezza la sua età, ma se consideriamo l’ultimo centimetro di un rametto verde, questo non avrà mai più di uno, due anni al massimo. Eppure ci stiamo riferendo alla stessa pianta.
Questo aspetto rende necessaria un’ulteriore considerazione: l’età fisiologica di un albero dipende dalla porzione che prendiamo in esame. Se magari abbiamo davanti un esemplare vetusto, e lo analizziamo nel suo insieme, dobbiamo trattarlo come tale, ma se invece osserviamo i rami più alti, quelli di certo sono giovani, e quindi avranno una vigoria e un comportamento differenti. Ricordiamoci che la pianta è più simile a una colonia organizzata di cellule che non a un unico organismo «centralizzato», dove ogni elemento è «convinto di essere un albero». È proprio questa convinzione che ci consente di utilizzare sistemi riproduttivi come la talea – che permette la riproduzione di una pianta a partire da un apice inserito nell’acqua o nel terreno per rigenerare l’apparato radicale –, la margotta – che, al contrario, prevede di far radicare un ramo mentre questo è ancora attaccato alla pianta madre – e la micropropagazione – che viene eseguita partendo, alcune volte, anche da una sola cellula e permette di avere individui esenti da virus e infezioni batteriche.
Ricordo una volta in cui rimasi davvero sorpreso dalla forza della natura. Avevo messo da parte qualche quintale di legna, prevalentemente acacia (Robina pseudoacacia L.), da usare durante l’inverno (l’acacia brucia bene anche se non è completamente secca), ma non avevo avuto il tempo di spaccarla. La lasciai soltanto ben accatastata nel campo dietro casa, commettendo per la fretta l’errore di non mettere nulla per separarla dal terreno.
Quando qualche tempo dopo andai nel campo con l’intenzione di spaccare la legna, mi accorsi che, a contatto con il terreno, il cambio aveva sentito la terra e aveva prodotto radici, mentre, dalla parte opposta, che credo fosse quella più vicina all’apice, una gemma epicormica aveva dato origine a un ramo, già rivestito di foglie. Inutile dire che, davanti a un tale attaccamento alla vita, ho risparmiato quel piccolo miracolo dalle fiamme del caminetto.
Ho imparato che le risorse delle piante sono qualcosa di illimitato. Un tronchetto, già tagliato a misura di camino, adesso è di nuovo una pianta. Certo, non è sana, perché comunque avrà problemi sino alla fine dei suoi giorni, ma è viva! Più imparo sulle piante, più mi accorgo di non sapere. Silenziosamente, giorno dopo giorno, ci insegnano a concepire le reali possibilità che ti offre la vita con misure e parametri diversi.
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Esiste una cura?
Come gli esseri umani, gli alberi si ammalano e soffrono. Noi ci illudiamo di avere un rimedio per tutto, e se non lo abbiamo è solo perché ci mancano la conoscenza o la tecnologia necessarie. Peccato che una visione del genere si scontri con l’immensa varietà della natura che siamo abituati a osservare con il nostro metro, non contemplando la possibilità di altri punti di vista, di altre logiche. Un albero è uno di questi casi.
Quando viene aggredito da un parassita, che sia esso un fungo o un insetto, difficilmente guarisce, ma non sempre significa che sia malato. All’interno del suo microcosmo l’albero e quelli che consideriamo i suoi nemici potrebbero trovarsi in perfetto equilibrio, senza che nessuno dei due prevalga sull’altro, rendendo simbiotico un rapporto che a noi, di primo acchito, sembra patologico. Per chi cura gli alberi questo, a volte, è motivo di sconforto, soprattutto quando il «paziente» versa in condizioni critiche. In un’occasione mi è capitato di scontrarmi con tutta la mia finitezza umana in un liriodendro giovane. Il fungo che lo aveva aggredito era molto tenace e non lasciava alcuna speranza di vita alla pianta. Piansi per la mia impotenza davanti al ciclo della natura che ne aveva già deciso la sorte. Tre anni dopo tornai, convinto di non trovare più il liriodendro, ma la natura mi sorprese ancora: l’albero era lì e anche il suo fungo, in una situazione di perfetto equilibrio. Mi resi conto che la mia visione dell’ecosistema arboreo doveva essere più ampia.
Ho avuto la fortuna di intervenire nuovamente sulla quercia monumentale di Fossalta di Portogruaro, di circa cinquecento anni. Come tutti gli esemplari vetusti, aveva una serie di problemi legati alla stabilità meccanica dei tessuti. Il tronco infatti era stato completamente svuotato da un fungo, lasciando assai poco legno di sostegno alla pianta. L’arzilla vecchietta aveva reagito a questa mancanza avvitandosi su se stessa nel corso del tempo. Poi erano arrivati i voraci cerambicidi, insetti temibili per una quercia anziana. Sembra che...