Jerusalem
eBook - ePub

Jerusalem

  1. 1,540 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Jerusalem

Informazioni su questo libro

Su questa crepa sorge Northampton, la città inglese che ha dato i natali ad Alan Moore, epicentro di questa monumentale opera polifonica. È qui che l'umanità abbraccia l'abisso, dando vita a storie che intrecciano le visioni di William Blake ai vortici di James Joyce, le nere periferie di Charles Dickens ai vuoti lunari di Samuel Beckett. Dal creatore di Watchmen e V per Vendetta, un romanzo che sfida i canoni della letteratura contemporanea.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817097819
eBook ISBN
9788858691526

Libro secondo

Mansoul

L’avverto soprattutto quando il Sole
con raggi obliqui illumina le case
incastonate contro una collina,
e dipinge di vita forme antiche
sopravvissute a secoli lontani:
sogni per me men vaghi del presente.
Quell’arcano splendore m’avvicina
alla massa immutabile che il tempo
chiude nei suoi confini.
H.P. LOVECRAFT
da Continuità

Di Sopra

Grandioso, grandioso, quanto era grandioso. Il bambino ascendeva accompagnato dal fragore del tuono, come l’accordatura infinita di un’orchestra di soli ottoni. Era il rumore del mondo mentre lo abbandonavi.
Michael aveva l’impressione di fluttuare in un anello di gomma, appena al di sotto del soffitto giallo affumicato del salotto. Non era sicuro di come fosse finito lì, e non sapeva se temere o no la fata che gli faceva cenno di raggiungerla dall’angolo buio pochi metri sopra di lui. Anche se aveva un’aria familiare, Michael non era certo di potersi fidare. Non era nemmeno sicuro se prima di quel momento avesse notato la presenza di fate che abitavano negli angoli di casa, o se i suoi genitori le avessero menzionate, anche se immaginava di sì. A ogni modo non trovò strano che negli angoli abitassero persone in miniatura, almeno non nel buio scintillante in cui stava risalendo, ammantato di stupore.
Cercò di capire dove si trovava, e si accorse di non riuscire a ricordare con chiarezza né chi era né dove era stato prima di mettersi a fluttuare nella luce e nel suono di piatti. C’era qualcuno che gli raccontava una storia, una di quelle vecchie favole che conoscevano tutti, sul principe che si era strozzato con una ciliegia avvelenata? Oppure, ma più improbabile, lui era uno dei protagonisti della favola, magari addirittura il principe, e il suo galleggiare nell’aria accompagnato da musica nel buio era la parte successiva della trama? Nessuna di queste idee gli sembrava giusta, ma decise che non era il momento di arrovellarsi su certi dubbi. Invece prestò attenzione all’angolo, sempre più vicino. Oppure, pensò, sempre più grande.
Michael non riusciva a stabilire se avesse sempre saputo che gli angoli andavano in due direzioni, come questo, cioè rientravano e sporgevano allo stesso tempo, oppure se era una nozione improvvisa di quel momento. Ora si rendeva conto che assomigliava molto a quelle illustrazioni complicate sulle scatole dei gessetti a scuola, con tutti i cubi impilati a piramide senza capire se rientravano o sporgevano. Adesso che aveva la possibilità di esaminare un angolo da vicino, si rese conto che faceva entrambe le cose. Quella che lui aveva considerato una rientranza era invece una protrusione, più simile allo spigolo sporgente di un tavolo che all’angolo del soffitto in salotto, finemente decorato lungo il bordo dove si trovava la cornice. Certo, se lo considerava il piano di un tavolo significava che lo stava osservando dall’alto, non da sotto. Significava che stava precipitando e non salendo fino a sbattere la testa. Significava anche che il salotto si era ribaltato.
L’idea di scendere, atterrare nell’angolo di un tavolo gigante, in quel momento gli sembrava la cosa più logica, soprattutto perché spiegava come facesse la minuscola figura nell’angolo a stare in piedi, visto che prima sembrava sporgere in modo improbabile dal binario per appendere i quadri. Allora perché, se si trovava più in basso di lui, aveva chiamato Michael con quella vocina per invitarlo a salire?
La squadrò con sospetto per stabilire se lo aveva fregato o gli aveva tirato un brutto scherzo e decise che sì, probabilmente era così. Anzi, più Michael si avvicinava e più la fata somigliava a una bambina qualsiasi di dieci anni del suo quartiere, quindi doveva essere cattiva, come quelle di Fort Street o Moat Street che ti tiravano addosso le borse della spesa piene di bottiglie di Corona vuote mentre le riconsegnavano per i soldi del deposito.
Come l’angolo su cui o in cui si trovava, la fata continuava a crescere finché Michael riuscì a vederla meglio e non era più un puntino schiamazzante blu e rosa che si agitava tra le cacche di mosca sul loro soffitto. Si accorse inoltre che non era davvero una fata, ma una normale bambina che aveva solo visto da lontano e perciò sembrava più piccola delle sue reali dimensioni. Aveva i capelli lunghi fino a sotto le orecchie, biondi con una sfumatura rossa, con una frangia come se le avessero appoggiato in testa una scodella per tagliarli. Se era di Boroughs, probabilmente era proprio così.
Michael si rese conto pigramente che iniziava a rammentare spizzichi e bocconi della vita o della storia di cui era protagonista prima di galleggiare in quella piacevole deriva verso il soffitto del salotto. Ricordava le ciotole del budino e Boroughs, Moat Street, Fort Street e le bottiglie di Corona. Ricordava di chiamarsi Michael Warren, sua mamma era Doreen e suo papà Tom. Aveva una sorella, Alma, che almeno una volta al giorno lo faceva ridere o lo terrorizzava. Sua nonna si chiamava Clara e non lo spaventava, mentre l’altra nonna May sì. Rassicurato per avere almeno un briciolo di identità rimasta al posto giusto, si concentrò di nuovo sulla bambina, che saltava eccitata pochi centimetri sopra di lui. O sotto.
Aveva calcolato che avesse nove o dieci anni, per Michael all’epoca l’equivalente dell’età adulta, e mentre si faceva più vicino stabilì di avere avuto ragione. Era una bambina magra e robusta, un po’ più grande e alta di sua sorella Alma, più carina e snella e con una smorfia dipinta sulle labbra come se da un momento all’altro dovesse scoppiare a ridere. Aveva indovinato anche a proposito delle sue origini, di sicuro era di Boroughs, o almeno di un posto del genere. I suoi vestiti e l’atteggiamento, le ginocchia piene di croste avevano un’aria familiare. La sua carnagione bianca, abbronzata solo dalla pioggerella di Boroughs, aveva la grigia lucentezza della polvere della ferrovia, che si incastrava tra le grinze della pelle e che ricopriva tutto e tutti nel quartiere. Mentre la osservava da vicino, Michael notò che era la stessa tinta grigio pallido che a volte avevano le nuvole di tempesta, quando era difficile scorgere scampoli di arcobaleno che riuscissero a scalfirle. A dire la verità, pensava che la polvere le donasse, come se fosse una rara cipria o belletto per il viso che si trovava solo in isole remote del mondo.
Michael si stupì per la propria vista. Non che avesse mai avuto problemi agli occhi, come sua madre e sua sorella, ma adesso gli sembrava di vedere più nitidamente, come se qualcuno avesse diradato la nebbia. Ogni minimo dettaglio della bambina e dei suoi vestiti era brillante come il diamante su un anello di fidanzamento, i colori sbiaditi dei suoi abiti e delle scarpe e del maglione non erano più accesi ma solo più vividi, provocavano in lui sensazioni più intense.
Il suo cardigan rosa, così sfilacciato e logoro sui gomiti da sembrare una rete, emanava un bagliore come il gelato alla fragola che a volte mangiava all’ora del tè in estate, quando gli ultimi raggi del sole al tramonto filtravano attraverso i vetri sporchi della finestra sul muro ovest del salotto. Sembrava un accostamento naturale e perfetto per il suo abito blu, un po’ come l’immagine dei marinai allegri che mangiavano zucchero filato su un pontile illuminato da lampadine nei vecchi film. Le sue calze imbrattate di fango erano stropicciate fino a sembrare accartocciate o come la pelle di un bruco dopo la muta, una più calata dell’altra sulle caviglie, e le sue scarpe dalla punta rigata erano tinte o pitturate di turchese spento e segnate con una mappa di fessure arancione da cui si intravedeva il cuoio dello strato sottostante. Le cinghie sfilacciate con le fibbie d’argento opaco sembravano piene di storia come se provenissero da un passato di cavalieri e castelli, poi c’era la stola elegante da duchessa sulle spalle. Michael si inquietò mentre la esaminava più da vicino.
Era composta da ventiquattro conigli morti appesi a un filo insanguinato, tutti svuotati e trasformati in burattini a guanto con zampe, teste, orecchie di velluto e un batuffolo di cotone come coda. Avevano quasi tutti gli occhi aperti, neri come bacche di sambuco o come gli occhi delle persone nel negativo delle fotografie. Sebbene dell’opinione che una sciarpa di cadaveri pelosi fosse orribile, al contempo proprio per questo Michael trovava che avesse un fascino elettrizzante e adulto. Molto probabilmente una stola del genere era contro la legge, pensava, qualcosa per cui potevano segnalarti, e sembrava soltanto rendere la bambina più avventurosa e frivola. Bastavano le zaffate che la ghirlanda di pelliccia emanava a debilitarlo, e allo stesso tempo gli rivelavano che anche il suo olfatto come la vista era stato rimesso a nuovo. Prima di quel momento non aveva mai fatto troppo caso agli odori, o almeno non gli sembrava annusando l’aroma intenso e amaro che percepiva in quel momento. Era come avere un’orchestra diversa per ogni narice, ed entrambe eseguivano sinfonie puzzolenti in parallelo. La vita della bambina e dei ventiquattro conigli intorno al suo collo erano storie scritte con un profumo invisibile, e Michael le leggeva attraverso le narici socchiuse. La pelle della bambina aveva un odore gradevole di noci, misto a quello caustico di sapone carbolico, e insieme una fragranza più delicata di violetta nell’alito. Tutto questo era ammantato dal fetore della sua stola raccapricciante, con i suoi aromi di terriccio, cacca di coniglio e clorofilla d’erba masticata, segatura ammuffita raccolta su quelle pellicce vuote e appese, la vaga scia metallica del sangue e la dolcezza putrida che si alzava a ondate dai resti esigui di carne spelacchiata. Il tanfo della combinazione di quegli elementi era così tossico e insieme interessante che non lo giudicò per forza nauseante. Somigliava più a una minestra universale che raccoglieva ogni cosa, bocconi insieme squisiti e schifosi. Era contemporaneamente la puzza della vita e della morte.
Michael vedeva, annusava e pensava con molta più lucidità di quanto ricordasse di aver fatto come bambino di tre anni, quando tutti i sensi e pensieri gli parevano confusi, come osservati attraverso un vetro rigato. Non sentiva più di avere tre anni. Si sentiva molto più intelligente e adulto, come aveva sempre immaginato di sentirsi dopo avere compiuto sette o otto anni, cioè l’età che lui considerava già adulta. A questo si accompagnava la sensazione di essere più importante, proprio come si sarebbe aspettato, ma anche la sgradita consapevolezza che di conseguenza ci fossero più preoccupazioni.
La più immediata di quelle nuove urgenze probabilmente riguardava il fatto che galleggiasse contro il soffitto con quella bambina puzzolente. Che cosa gli era capitato? Perché adesso era lassù invece di trovarsi sul pavimento, come prima? Ricordava molto vagamente la gola infiammata e di sentirsi al sicuro nel grembo materno, aria fresca e violacciocche che spuntavano tra la fuliggine in mezzo ai vecchi mattoni, poi era successo qualcosa che aveva messo tutti in agitazione. Andavano avanti e indietro e sembravano spaventati, come quando la nonna si era sciolta i lunghi capelli argentati per pettinarli vicino al caminetto e avevano preso fuoco. Questa volta però era stato molto più grave della nonna di Michael con la testa avvolta dalle fiamme. Si capiva dal panico nella voce delle donne. Da lontano si rese conto che erano loro a produrre la gradevole tempesta di tuoni intorno a lui: le strilla acute di sua madre e di sua nonna erano rallentate fin quasi a fermarsi, con gli altri rumori sospesi a tremare nell’aria.
Come il rimbombo minaccioso di un gong nella pancia, Michael si accorse all’improvviso che l’agitazione di sua madre e sua nonna doveva essere collegata alla sua curiosa situazione. Erano preoccupate per lui, era così ovvio che si stupì di non averci pensato subito. Doveva avere avuto un trauma, così aveva avuto bisogno di tempo per riordinare i pensieri. Era ragionevole supporre che fosse proprio quel trauma ad avere spaventato a morte sua madre e sua nonna…
Appena pensò a quella parola, in un impeto di terrore disperato, Michael comprese esattamente dove si trovava e ciò che gli era successo.
Era morto. Quella cosa da cui persino i suoi genitori erano terrorizzati, ecco cos’era, e Michael era da solo ad affrontarla proprio come aveva sempre temuto. Tutto solo e ancora troppo piccolo per venire a patti con l’enormità di quel concetto, come immaginava facessero gli anziani. Nessuna mano lo avrebbe afferrato per salvarlo da quella caduta. Non avrebbe ricevuto baci di conforto. Sapeva di entrare in un luogo dove non c’erano né madri né padri, né tappetini accanto al caminetto né bibite e niente di rassicurante o accogliente, solo Dio e fantasmi e streghe e il diavolo. Aveva perso tutto e tutti per un solo momento di disattenzione e poi, bang, era inciampato e scivolato via dalla vita. Piagnucolò, consapevole che sarebbe stato schiacciato da un dolore soverchiante, e poi non ci sarebbe stato niente di peggio perché lui non c’era più, e non avrebbe mai più visto la sua famiglia e i suoi amici.
Iniziò a scalciare e divincolarsi per svegliarsi e trasformare quell’esperienza solo in un terribile incubo, ma l’agitazione servì soltanto a rendere tutto più spaventoso e bizzarro. Tanto per cominciare, lo spazio vuoto intorno a lui ondeggiò come una lenta gelatina di vetro mentre si dimenava, poi all’improvviso contò più braccia e gambe del normale. I suoi arti, anche se rassicurato perché erano ancora al loro posto nel suo pigiama blu e bianco sotto la vestaglia rosso scuro di tartan, lasciavano repliche esatte nell’aria mentre li muoveva. Con una semplice e rapida contorsione si era trasformato in un vivace cespuglio di flanella a strisce, con una dozzina di dita-germogli rosa pallido che sbocciavano dai suoi molti gambi. Frignò e vide il proprio lamento propagarsi come un’onda scintillante nella colla cristallina dell’aria intorno a sé.
Questo sembrò spronare verso di lui la bambina bionda dentro o sull’angolo; dopo avere scoperto di essere morto e tutto il resto si era quasi dimenticato della sua presenza. Lei allungò le sue mani sudicie nella direzione di Michael, verso l’alto o il basso a seconda della prospettiva di quell’illusione ottica su cui si stava concentrando. Stava gridando verso di lui, adesso era abbastanza vicino per udirla, la sua voce non era più lontana come quella di un insetto in una scatola di fiammiferi. Quando fu più vicino Michael riconobbe l’inflessione di Boroughs nell’accento, con le sue assi di legno sporche e i cancelli chiusi con il lucchetto.
«Vieni su! Vieni quassù, andrà tutto bene! Dammi la mano e smettila di agitarti! Così peggiorerai solo le cose!»
Michael non sapeva se ci fosse qualcosa di peggio che essere morto, ma visto che a quel punto non riusciva più a vederla in mezzo alla foresta di alberi a quadri e cespugli con i pantaloni a strisce credette di non avere altra scelta se non seguire il consiglio. Cercò di restare fermo il più possibile e dopo un momento si rassicurò per la scoperta che la scia di gomiti, ginocchia e piedi infilati nelle pantofole si dissolveva poco alla volta. Quando tutte le parti del corpo superflue svanirono liberando la visuale sulla fata dell’angolo, con cautela si sporse sulla sua mano calata o sollevata verso di lui, muovendo il braccio molto lentamente per ridurre al minimo la scia di retro-immagini.
Le dita tese della bambina strinsero le sue, e Michael era così sorpreso di quanto il contatto fosse fisico e reale che per poco non lasciò la presa. Come per vista e olfatto, scoprì che anche il tatto era diventato molto più sensibile. Era come se gli avessero tolto dei guanti a manopola legati ai suoi polsi fin dalla nascita. Il palmo della bambina era caldo come una torta appena sfornata e scivoloso per il sudore, come se avesse impugnato delle monete in tasca troppo a lungo. I polpastrelli morbidi sembravano glassati da una sostanza appiccicosa, quasi avesse mangiato pere mature senza poi lavarsi le mani, sempre che lo facesse. Non era sicuro di cosa aspettarsi, essendo morto forse le sue dita avrebbero attraversato gli oggetti come se fossero di vapore, di certo non si era aspettato un contatto sudaticcio e fisico come quello, dita umide che raspavano sul suo polso come zampe di granchio per artigliare il polsino largo della vestaglia.
La sua stretta, non soltanto paurosamente reale, era anche molto più forte di quanto immaginava guardandola. Lo sollevò afferrandolo per il braccio, no anzi lo fece scendere verso di lei, più o meno come qualcuno che tenta di bloccare a terra un pesce irrequieto saltato fuori dall’acqua. Michael superò un momento sgradevole quando i suoi occhi e lo stomaco dovettero abituarsi al fatto di essere tirati verso l’angolo sporgente di un tavolo invece che rientrante, con la bambina che si agitava e si protendeva come per aiutarlo a uscire da una piscina, mentre lei era in piedi al sicuro e all’asciutto a cavallo del raccordo tra i bordi dell’angolo. La stanza sbandò di nuovo dall’esterno all’interno mentre veniva trascinato attraverso una specie di cardine, dove ogni elemento orientato in una direzione puntava invece quella opposta, e Michael si ritrovò da un secondo all’altro a barcollare sulla stessa mensola di legno dipinto dove si trovava la bambina.
Questa stretta banchina seguiva il bordo di quella che sembrava essere una grande tinozza quadrata di dieci metri per lato, la sporgenza su cui si trovavano era collocata nello strato inferiore di un anfiteatro a più piani con gradinate che si inerpicavano su tutti e quattro i lati, come una cornice gigante intorno all’ampia vasca da cui era stato recuperato. Sebbene confuso per la sua condizione, Michael si rese conto che le scalinate di dieci metri che partivano dai bordi di quella specie di piscina erano scomode e assurde. La superficie calpestabile dei gradini era fin troppo estesa verso l’interno, allo stesso tempo tutte le alzate erano troppo ridotte, meno di otto centimetri, più scomode del cordolo del marciapiede per sedersi. I dintorni leggermente in salita sembravano fatti di legno di pino dipinto di bianco, con gli angoli smussati, ricoperti da uno strato spesso di vernice scrostata, una patina giallastra cremosa che sembrava non avere beneficiato di cure da prima della guerra. A essere onesto, più osservava i gradini e più gli ricordavano la vecchia modanatura decorata che correva intorno al soffitto del loro salotto in St. Andrew’s Road, solo molto più grande e rovesciata. In piedi con le spalle rivolte al pozzo rettangolare da cui era emerso, scorgeva un frammento di legno dove la vernice si era scrostata lasciando una sagoma simile a quella dell’Inghilterra, identica a quella che aveva notato una volta sul bordo decorato sopra il caminetto di casa. Quella però non era più grande di un francobollo da un penny, mentre questa era una pozza insormontabile, anche se Michael era sicuro che a un esame più attento il contorno frastagliato della macchia avrebbe coinciso alla perfezione con l’altro.
Dopo avere contemplato incredulo la superficie lignea, Michael si voltò strascinando le pantofole a quadri per ritrovarsi faccia a faccia con la bambina con...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. JERUSALEM
  4. PRELUDIO
  5. LIBRO PRIMO. BOROUGHS
  6. LIBRO SECONDO. MANSOUL
  7. LIBRO TERZO. L’INCHIESTA DEI VERNALL
  8. POSTLUDIO
  9. Ringraziamenti
  10. Nota di traduzione
  11. Indice