1
Charles Bramwell Brockley viaggiava da solo e senza biglietto sul treno da London Bridge a Brighton delle 14:42. Quando il treno si fermò sobbalzando alla stazione di Haywards Heath, la scatola di biscotti Huntley&Palmers in cui viaggiava traballò raggiungendo pericolosamente il bordo del sedile. Ma proprio mentre stava per ruzzolare sul pavimento della carrozza, due mani provvidenziali l’afferrarono al volo.
Era contento di essere a casa. Villa Padova era un solido edificio vittoriano in mattoni rossi; caprifoglio e clematis incorniciavano il portico dal tetto alto e spiovente. L’echeggiante vastità dell’atrio, fresco e fragrante di rosa, lo accolse al suo interno riparandolo dall’implacabile riverbero del sole pomeridiano. L’uomo posò la borsa, ripose le chiavi nel cassetto del tavolino d’ingresso e appese il panama sulla cappelliera. Era davvero stremato, ma la quiete della casa lo confortò. Una quiete non del tutto silenziosa. Si udiva il regolare ticchettio del grosso orologio a pendolo e il distante ronzio di un vecchio frigorifero, e da qualche parte in giardino il canto di un merlo. Ma nessun brusio tecnologico contaminava la casa. Non c’erano computer, né televisori, né lettori DVD o CD. I soli collegamenti con il mondo esterno erano un antiquato telefono in bachelite nell’atrio e una radio. In cucina, lasciò scorrere l’acqua del rubinetto finché divenne gelata e poi ne riempì un grosso bicchiere. Troppo presto per un gin e lime, e troppo caldo per un tè. Laura aveva terminato la giornata, ma prima di andare a casa gli aveva lasciato un biglietto e un’insalata al prosciutto in frigo per cena. Che cara ragazza. L’uomo scolò il bicchiere fino all’ultima goccia.
Tornato nell’atrio, tirò fuori una chiave dalla tasca dei pantaloni e aprì una pesante porta di quercia. Raccolse la borsa da terra ed entrò nella stanza, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé. Scaffali e cassetti, scaffali e cassetti, scaffali e cassetti. Tre pareti completamente ricoperte e ogni singolo scaffale, ogni singolo cassetto era stracolmo di oggetti: un triste guazzabuglio di reperti catalogati e conservati nel corso di quarant’anni. Tende di pizzo adornavano la portafinestra attenuando la luce sfacciata del sole pomeridiano. Attraverso una fessura, un singolo raggio perforava l’oscurità, scintillando di un pulviscolo dorato. L’uomo tirò fuori dalla borsa la scatola dei biscotti Huntley&Palmers e la posò delicatamente su un grosso tavolo di mogano, la sola superficie disponibile nella stanza. Sollevò il coperchio e ne esaminò il contenuto: una sostanza grigiastra dalla consistenza simile a sabbia di grossa grana. Ne aveva sparsa di simile molti anni prima nel roseto dietro la casa. Ma era possibile che anche questi fossero resti umani? Abbandonati su un treno dentro una scatola di biscotti? Ricollocò il coperchio. Aveva cercato di consegnarla in stazione, ma il controllore, del tutto certo che non fosse altro che spazzatura, gli aveva suggerito di gettarla nel bidone più vicino.
«Non crederebbe a quanta immondizia la gente lasci sui treni» aveva detto, liquidando Anthony con una scrollata di spalle.
Nulla riusciva più a sorprenderlo, ma la perdita, grande o piccola che fosse, lo commuoveva sempre. Prese da un cassetto un’etichetta marrone per bagagli e una stilografica dal pennino d’oro. Scrisse con cura in inchiostro nero prima la data e l’ora, quindi il luogo, tutto molto dettagliato:
Scatola di biscotti Huntley&Palmers.
Contenente le ceneri di una cremazione?
Trovata a sei carrozze dalla testa, sul treno delle 14:42
da London Bridge a Brighton.
Defunto ignoto. Dio lo benedica e che riposi in pace.
Accarezzò con tenerezza il coperchio della scatola prima di trovarle una collocazione su uno degli scaffali e farla delicatamente scivolare al suo posto.
Il rintocco della pendola nell’atrio segnò l’ora del gin e lime. Prese dal frigorifero i cubetti di ghiaccio e il succo di lime, li pose su un vassoio d’argento che portò nella garden-room con un bicchiere da cocktail verde e un piattino di olive. Non aveva fame, ma sperava che potessero stuzzicargli l’appetito. Non voleva scontentare Laura lasciando l’insalata che gli aveva preparato con tanta cura. Posò il vassoio e aprì la finestra che dava sul giardino del retro.
Il grammofono era un grazioso aggeggio di legno con un esagerato corno dorato. Sollevò la puntina e l’appoggiò delicatamente sul disco color liquirizia. La voce di Al Bowlly fluttuò nell’aria diffondendosi in giardino a rivaleggiare con quella del merlo.
The very thought of you.
Il solo pensiero di te era stata la loro canzone. Affidò le sue lunghe membra rilassate alla comodità di una poltrona di pelle dall’ampio schienale. Quand’era nel fiore degli anni, la sua mole eguagliava la statura, aveva una figura imponente, ma in vecchiaia era come se la carne si fosse ritirata, e ora la pelle gli aderiva quasi alle ossa. Il bicchiere in una mano, brindò alla donna della fotografia incorniciata d’argento che reggeva nell’altra.
«Cin cin, mia adorata ragazza!»
Bevve un sorso e baciò con amore e nostalgia il vetro freddo della foto prima di riporla sul tavolino accanto alla poltrona. Era una giovane donna dai capelli mossi e dai grandi occhi scuri, scintillanti perfino nel bianco e nero di un vecchio scatto. Non una bellezza in senso classico, tuttavia di incredibile fascino, dotata di una personalità così dirompente da riuscire, dopo tutti quegli anni, ad ammaliarlo ancora. Era morta da quarant’anni, ma continuava a essere tutto il suo mondo, era stata quella perdita a dare uno scopo alla sua vita. Aveva fatto di Anthony Peardew il Custode degli Oggetti Smarriti.
2
Laura si era sentita smarrita, disperatamente alla deriva. Mantenuta a galla, seppure a stento, da una triste combinazione di Prozac, Pinot Grigio e illusione che le cose non stessero accadendo. Cose come la storia con Vince. Anthony Peardew e la sua casa l’avevano salvata.
Mentre accostava per parcheggiare accanto alla villa, calcolò mentalmente da quanti anni stesse lavorando lì: cinque, no, quasi sei. Quel giorno era seduta nella sala d’attesa del suo medico e sfogliava una rivista quando un annuncio su «Lady» aveva catturato la sua attenzione:
Cercasi governante/assistente personale per distinto scrittore.
Si prega di rispondere per iscritto a:
Anthony Peardew – Casella Postale 27312.
Era entrata nella sala d’attesa con l’intenzione di implorare che le dessero altri farmaci, qualcosa che rendesse la sua infelice esistenza più sopportabile, e ne era uscita decisa a fare domanda per un incarico che, come poi risultò, le avrebbe cambiato la vita.
Non appena girò la chiave nella toppa e varcò la porta d’entrata, la pace di quell’ambiente la avvolse come sempre nel suo abbraccio. Andò dritta in cucina, riempì il bollitore e lo posò sulla piastra. Anthony doveva essere fuori per la passeggiata mattutina. Il giorno prima non lo aveva visto per niente. Era andato a incontrare il suo avvocato a Londra. Nell’attesa che l’acqua bollisse, prese a sfogliare l’ordinata pila di carte che lui le aveva lasciato da gestire: qualche fattura da pagare, alcune lettere cui rispondere in sua vece e la richiesta di fissargli un appuntamento con il dottore. Provò una fitta di apprensione. Nel corso di quegli ultimi mesi aveva cercato di non far caso a quanto lui stesse progressivamente sbiadendo, come un bel ritratto che, esposto troppo a lungo alla feroce luce del sole, vada perdendo definizione di tratto e colore. All’epoca di quel loro primo colloquio, tanti anni prima, lui era un uomo alto e muscoloso con una testa piena di capelli scuri, occhi color tanzanite e una voce alla James Mason. Gli aveva dato molto meno dei suoi sessantotto anni.
Laura si era innamorata di Mr Peardew e della sua casa un attimo dopo aver varcato quella soglia. L’amore che provava per lui non era di tipo romantico, era semmai più simile a quello che un bambino nutre per lo zio preferito. La sua forza gentile, i modi pacati e la squisita cortesia erano tutte qualità che, seppure in ritardo, aveva imparato ad apprezzare in un uomo. La sua presenza le sollevava sempre il morale e le rendeva cara la vita come non accadeva da moltissimo tempo. Lui era una confortevole costante al pari di Radio 4, del Big Ben e dell’inno patriottico Land of hope and glory. Eppure c’era sempre un filo di distanza, una parte di sé che non rivelava mai: un segreto ben custodito. Laura ne era lieta. L’intimità, fisica ed emotiva, era sempre stata per lei motivo di delusione. Mr Peardew, il perfetto datore di lavoro, poi divenuto Anthony, un caro amico. Tuttavia, mai un amico troppo stretto.
Riguardo a Villa Padova, era stata la tovaglietta sul vassoio a far innamorare Laura. Durante quel primo colloquio Anthony le aveva offerto il tè. Lo aveva servito nella garden-room: teiera con copriteiera, bricco del latte, zuccheriera e pinzette, tazzine e piattini, cucchiaini d’argento, colino per il tè con il suo supporto. Tutto sistemato su un vassoio con una tovaglietta. Di lino, bordata di pizzo e bianca come la neve. Una vera e propria ciliegina sulla torta. Non c’era dubbio che Villa Padova fosse una casa dove tutte quelle cose, tovaglietta compresa, facevano parte della vita quotidiana, e che Mr Peardew fosse un uomo la cui vita quotidiana era esattamente quella che Laura agognava. Appena sposati, Vince l’aveva presa in giro per quei tentativi di introdurre simili orpelli nella loro casa. Se era costretto a prepararsi il tè da solo, lasciava le bustine usate sullo sgocciolatoio del lavello, non importa quante volte lei lo avesse pregato di gettarle nella pattumiera. Beveva il latte e il succo di frutta direttamente dal cartone, mangiava appoggiando i gomiti sul tavolo, reggeva il coltello come fosse una penna e parlava a bocca piena. Prese singolarmente erano cose da nulla, come tutte le altre, tante cose da nulla che Vince faceva e diceva, e che a Laura, seppure cercasse di ignorarle, graffiavano l’anima. Negli anni, accumulate in quantità e frequenza, le indurirono il cuore e ostacolarono le sue morbide aspirazioni anche solo a minimi sprazzi di quella vita che un tempo aveva assaporato nelle case dei suoi compagni di scuola. Quando l’atteggiamento di Vince si era incattivito, passando dalla presa in giro alla derisione, una tovaglietta da vassoio era diventata per lui nient’altro che un oggetto ridicolo. E lo stesso valeva per Laura.
Il colloquio aveva avuto luogo il giorno del suo trentacinquesimo compleanno ed era stato sorprendentemente breve. Mr Peardew le aveva chiesto come gradisse il tè e poi glielo aveva servito. C’erano state poche altre domande, tutte preziose, da parte di entrambi, poi lui le aveva offerto il posto e lei l’aveva accettato. Era stato il regalo di compleanno perfetto, e l’inizio di nuove speranze per Laura.
Il fischio del bollitore si intrufolò tra quelle reminiscenze. Laura porto il tè nella garden-room, insieme a uno strofinaccio e a un po’ di lucido. Odiava le pulizie di casa, specialmente ai tempi in cui viveva con Vince. Ma qui si trattava di gesti d’amore. Al suo arrivo, Villa Padova e le cose che conteneva versavano in uno stato di delicato abbandono. Non che fossero sporche o malconce, erano solo lievemente trascurate. Molte delle stanze erano inutilizzate. Anthony trascorreva la maggior parte del tempo nella garden-room o nello studio, e non aveva mai ospiti a occupare le altre camere da letto. Delicatamente, dolcemente, stanza dopo stanza, l’amore di Laura aveva riportato in vita la casa. Eccetto lo studio. Nello studio non aveva mai messo piede. Anthony le aveva detto fin dall’inizio che nessuno doveva accedervi a parte lui, e quando lui non c’era la porta restava chiusa a chiave. Lei non aveva mai sollevato questioni. Tutte le altre stanze, invece, venivano mantenute pulite e brillanti, pronte per chiunque ne volesse godere, anche se non veniva mai nessuno.
Nella garden-room, Laura prese la fotografia incorniciata e lucidò il vetro e l’argento fino a farli risplendere. Anthony le aveva detto che il nome della donna era Therese, e Laura capiva che doveva averla amata molto, visto che quella era una delle sole tre fotografie esposte nell’intera casa. Le altre erano copie di un ritratto di Anthony e Therese insieme, una delle quali si trovava sul comodino accanto al letto e l’altra sulla toletta della grossa camera sul retro della casa. In tutti quegli anni da che lo conosceva, non l’aveva mai visto dal vivo così felice come in quella foto.
Nel lasciare Vince, l’ultima cosa che Laura aveva fatto era stata gettare la grossa foto del loro matrimonio nella pattumiera, con cornice e tutto. Ma non prima di averla calpestata, frantumando con il tacco il vetro crepato sulla faccia sorridente di lui. Selina della «Manutenzione» poteva anche tenerselo. Era uno stronzo integrale e assoluto. Era la prima volta che lo ammetteva davvero, perfino con se stessa. Non che la cosa la facesse sentire meglio. Anzi, era triste al pensiero di aver sprecato tutti quegli anni con lui. Ma senza un’istruzione adeguata, senza una vera esperienza di lavoro e senza altri mezzi di sostentamento, non aveva avuto molta scelta.
Quando ebbe terminato nella garden-room, Laura andò nell’atrio e si avviò per le scale, dando al passaggio un colpetto di straccio a un luccichio dorato sulla curva del corrimano di legno. Si era interrogata spesso sullo studio, ovvio che lo aveva fatto. Ma rispettava la privacy di Anthony così come lui rispettava la sua. Di sopra, la camera da letto più ampia era anche la più bella, e l’ampia finestra a golfo si affacciava sul giardino del retro. Era la stanza che un tempo Anthony aveva diviso con Therese; adesso però dormiva in quella accanto, più piccola. Laura aprì la finestra per lasciar entrare un po’ d’aria. Le rose giù in giardino erano in piena fioritura: ondeggianti balze di petali scarlatti, rosa e color crema, e i confini intorno vaporosi di palpitanti peonie tempestate di lame di delfinio color zaffiro. Il profumo delle rose ascendeva fluttuando sull’aria calda e Laura inspirò a pieni polmoni, colmandosi di quell’aroma inebriante. Ma quella stanza profumava sempre di rose. Anche nel cuore dell’inverno, quando il giardino era gelato e addormentato, e le finestre sigillate dalla brina. Laura tese e lisciò il copriletto già rassettato alla perfezione e sprimacciò i cuscinoni sul divano alla turca. La specchiera verde del tavolino da toletta scintillava al sole, ciononostante fu amorevolmente spolverata. Ma non tutto era perfetto nella stanza. La piccola pendola da tavolo in smalto blu si era di nuovo fermata. Le 11:55 e nessun ticchettio. Ogni giorno si fermava alla stessa ora. Laura controllò l’orologio che aveva al polso e risistemò le lancette. Girò con cura la chiavetta finché non si udì ripartire un tenue ticchettio, e poi rimise la pendola sul ripiano della toletta.
Il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva indicò che Anthony era tornato dalla sua passeggiata. A quello seguì lo scatto della serratura, e l’aprirsi e il richiudersi della porta dello studio. Una sequenza di suoni assai familiare per Laura. In cucina, preparò il caffè che sistemò su un vassoio con tazza e piattino, un bricco d’argento con la panna e un piatto di biscotti. Portò il tutto nell’atrio e bussò delicatamente alla porta dello studio, e quando questa si aprì porse il vassoio a Anthony. Aveva un’aria stanca: sbiadita invece che tonificata dalla passeggiata.
«Grazie, cara.»
Lei notò con tristezza che le mani gli tremavano appena mentre prendeva il vassoio dalle sue.
«C’è qualcosa in particolare che gradirebbe per pranzo?» gli domandò con fare accattivante.
«No, no. Sono certo che qualsiasi cosa lei decida sarà squisita.»
La porta si richiuse. Tornata in cucina, Laura lavò la tazza sporca che era apparsa nel lavello: senza dubbio un lascito di Freddy, il giardiniere. Aveva cominciato a lavorare a Villa Padova un paio di anni prima, ma i loro sentieri si incrociavano di rado, con somma delusione di Laura, che sospettava non le sarebbe dispiaciuto conoscerlo meglio. Era alto e bruno, ma non così bello da incarnare un cliché. Una lieve cicatrice gli correva dal naso alla cima del labbro superiore e gli increspava lievemente la bocca in un effetto che in qualche modo aggiungeva più che sottrarre, conferendo al sorriso un particolare, asimmetrico fascino. Quando per caso si incrociavano, lui era piuttosto affabile, ma non più di quanto dettasse la cortesia, e non la incoraggiava più di tanto a cercare di guadagnarsi la sua amicizia.
Laura affrontò la pila di carte. Si sarebbe portata a casa le lettere e le avrebbe battute a computer. Quando aveva cominciato a lavorare per Anthony, leggeva e correggeva i suoi manoscritti trascrivendoli poi con una vecchia macchina elettrica, ma ormai da anni lui aveva smesso di scrivere e questo le mancava. Quando era più giovane aveva pensato a una carriera da scrittrice: romanzi, o magari articoli giornalistici. Si era fatta tutta una serie di progetti. Era una ragazza intelligente, con una borsa di studio per il liceo femminile cui sarebbe seguito un posto all’università. Avrebbe potuto – anzi, dovuto – costruirsi una vita decorosa con le sue stesse mani. Invece aveva incontrato Vince. A diciassette anni era ancora vulnerabile, immatura, incerta del proprio valore. A scuola era felice, ma la borsa ...