I FILM E I CRITICI
FERMO CON LE MANI
1937
Regia di Gero Zambuto
Totò interpreta Totò, conte di Torretota.
Il titolo del film allude all’abitudine dei vari personaggi di scambiarsi sonori ceffoni che colpiscono di prevalenza un vagabondo, costretto a studiare mille marchingegni per sopravvivere. Soprattutto quando si accolla la responsabilità di occuparsi di una trovatella, molto simile al monello adottato da Charlie Chaplin nell’omonimo film. Tra mille peripezie Totò si improvvisa persino direttore d’orchestra, sempre perseguitato da gente pronta ad approfittare di lui. Ma alla fine arriva il giusto premio: il vagabondo scopre per caso di essere l’erede di una famiglia ricca e blasonata, entrando così in possesso di una cospicua eredità. I guai, per fortuna, sono svaniti per sempre e nell’ultima scena del film Totò, da vagabondo, si trasforma in un elegante nobiluomo, il quale, a bordo di una lussuosa automobile guidata da un autista in livrea, se ne va a spasso con la figlia acquisita. Nel suo primo film Totò punta tutto sulla mimica e sui movimenti disarticolati del corpo, ma la marionetta ha un’anima che trapela dalle sue battute.
«[...] Fermo con le mani è il debutto cinematografico di Totò. Dopo aver perduto un po’ di tempo, al principio, nell’inutile tentativo di rifabbricare in Totò un piccolo Charlot, il film viene a quello che è il suo scopo, e cioè di esibire il popolare attore nei suoi lazzi e nelle sue battute caratteristiche [...]. Bisognava che la sceneggiatura e la regia stringessero di più i tempi. Totò, comunque, fa ridere: c’è senza dubbio una forte mimica in questo burattino.»
Filippo Socchi, «Corriere della Sera», Milano, 7 marzo 1937
«[...] Questo film non è americano e, ciononostante, è bruttissimo [...]. Ha un solo pregio, quello di aver mostrato le possibilità di Totò, che certo non sono poche se egli è riuscito a trovare qualche spunto buono anche in questo lavoro negativo sotto tutti gli aspetti [...]. Fermo con le mani è un film che fa venir voglia di menare le mani.»
«Bianco e Nero», Roma, 31 maggio 1937
ANIMALI PAZZI
1939
Regia di Carlo Ludovico Bragaglia
Totò interpreta il barone Tolomeo dei Tolomei e Totò.
Il film, tratto da un soggetto di Achille Campanile, in cui Totò interpreta due ruoli, quello del barone Tolomeo dei Tolomei e del suo sosia Totò, è imperniato su un’eredità contesa. Da un lato c’è il barone che potrà entrarne in possesso solo dopo le nozze, dall’altra incombono i proprietari di un improbabile manicomio veterinario, ai quali toccherebbe l’eredità se Tolomeo restasse scapolo. Il barone che, tra l’altro, non riesce a liberarsi di un’amante gelosa, si affida al suo sosia, Totò, supplicandolo di sposarsi al posto suo. Dallo scambio di persona nasce una serie di equivoci, fino a quando il finto barone impazzisce e viene rinchiuso in un manicomio, questa volta per umani, dove i pazienti, curati con uno strano medicinale definito «suonifero» organizzano concerti vocali e strumentali, in un clima decisamente surreale. Ma alla fine tutto va per il verso giusto: il barone sposa una ragazza adatta al suo rango, entra in possesso dell’eredità e compensa lautamente Totò, per fortuna rinsavito. Rimane un mistero la fine che faranno gli animali pazzi.
«[...] Totò prodiga tutte le risorse della sua acidula e marionettistica buffoneria, però, con questo secondo saggio mi sembra che egli abbia confermato i limiti delle sue possibilità cinematografiche [...].»
Filippo Sacchi, «Corriere della Sera», Milano, 18 aprile 1939
«[...] Quasi che Achille Campanile e Ludovico Bragaglia, tanto per citare i nomi dei due autori, non ci avessero dato sempre, nella letteratura e nel cinema, prove ordinarie, melanconiche, quando non addirittura sbagliate, ci recammo a vedere il film con una improvvisa speranza [...]. Senza contare che il funambolismo provinciale di Totò, che sullo schermo si prodigava senza risparmio, con l'infaticabile cocciutaggine degli attori del varietà, sembrava pigliarsi gioco della nostra debolezza. Questo Charlot dei poveri voleva proprio farci fare una pessima figura.»
Gino Vicentini, «Cinema», Roma, 25 agosto 1939
SAN GIOVANNI DECOLLATO
1940
Regia di Amleto Palermi
Totò interpreta Mastro Agostino Miciacio.
Mastro Agostino è un portinaio napoletano, abile ciabattino e devoto a San Giovanni decollato. Le sue preghiere, unite a riti rumorosi, infastidiscono il vicinato e Concetta, la moglie bisbetica (Titina De Filippo), che lo accusano di disturbare la quiete pubblica. Processato, mastro Agostino viene prosciolto per seminfermità mentale e torna al suo lavoro e al suo Santo Protettore. Ma non riesce a stare tranquillo perché è continuamente minacciato dalla prepotenza di don Peppino, il guappo del quartiere, che vorrebbe imporgli come genero Orazio, il lampionaio. La figlia del ciabattino, Serafìna, è innamorata di Giorgio, uno studente in giurisprudenza, e fugge con lui in Sicilia, rifugiandosi a casa dei futuri suoceri. Agostino Miciacio, per non sfigurare, viene spacciato per un professore a riposo e va in Sicilia insieme alla moglie per conoscere i nuovi parenti, portandosi dietro, s’intende, l’immagine di San Giovanni decollato. La protezione divina è assicurata, tanto che alla fine Serafina sposa Giorgio e la moglie bisbetica di Agostino Miciacio, nel bel mezzo della cerimonia nuziale, si morde la lingua perdendo la favella. Quando riacquisterà la voce giurerà al marito di essere più tollerante. Tutto è bene quel che finisce bene.
«Totò è un grande comico, vero erede di quella tradizione della Commedia dell’arte che dopo la morte di Petrolini sembrava dovesse estinguersi. Un poco ricorda infatti Petrolini, l’asimmetria del volto, il naso, il mento sproporzionato, la bocca grande e arricciata, ma ancora non si è umanizzato come il maestro. Totò è alle sue prime armi, insomma, ma è un’ottima recluta: sarebbe bastata una regia più accurata, un ritmo meno descrittivo, una fotografia più inventiva, per fare con questa pellicola dell’ottimo cinema.»
«Il Tempo», Roma, 26 dicembre 1940
«Se c’è un attore in Italia che è tutto visivo, che potrebbe raggiungere i suoi effetti senza muovere le labbra, questo è Totò, presentando unicamente se stesso in quella specie di trance comica che lo invade quando è Totò. Palermi ha fatto un buon lavoro dirigendo questo San Giovanni decollato, ma non tutto il lavoro che avrebbe meritato Totò.»
Giuseppe Isani, «Cinema», Roma, 25 gennaio 1941
L’ALLEGRO FANTASMA
1941
Regia di Amleto Palermi
Totò interpreta Nicolino, Gelsomino e un terzo gemello innominato.
Nel film Totò recita la parte di tre gemelli, esibendosi in un mosaico di battute e di sberleffi, in una storia complessa. Pantaleo stabilisce che il suo testamento sia aperto alla presenza dei figli naturali, frutto della sua relazione con una cavallerizza da circo. Il primo a essere rintracciato è Nicolino, il quale, dopo varie peripezie, riesce a trovare l’altro gemello, Gelsomino, un ingenuo musicista. Entrambi sono vittime, il primo della fame, il secondo delle vessazioni degli impresari che lo sfruttano impietosamente. Il terzo gemello salta fuori nel finale del film, uscendo dalla pelle di un leone: la indossa, fingendosi una belva, per reclamizzare il circo in cui lavora, come la madre cavallerizza. I tre si ricongiungono e si spartiscono in allegria l’eredità di Pantaleo. Il film si regge sulla mimica e sull’inventiva di Totò, che si esibisce anche come cantante in una canzoncina scritta da lui. Non è Malafemmena, intendiamoci, ma rivela già un vero talento musicale.
«[...] Le risorse cinematografiche di Totò sono molte. Nei pochi film che egli ha fatto finora si è visto come certe sue espressioni colgano nel segno e siano di effetto immediato sul pubblico. Ma ancora il vero film di Totò, quello che sfrutti in pieno tutte le possibilità di questo attore, non è ancora venuto fuori.»
Ercole Patti, «Il Popolo di Roma», Roma, 9 ottobre 1941
«[...] È una farsa di ordinaria fattura. Ma Totò ha l’istinto e il gusto dell’obiettivo cinematografico e il suo mirabolante repertorio di dislocazioni facciali e vertebrali, le sue velocissime sequenze comiche, la sua incisiva nevrastenia farsesca, sono assorbiti dallo schermo in modo sorprendente. Il povero Palermi, che diresse il film, sfruttò con maggiore pertinenza che nel San Giovanni decollato la tecnica dell’attore.»
Sandro De Feo, «Il Messaggero», Roma, 9 ottobre 1941
DUE CUORI TRA LE BELVE
1943
Regia di C. Simonelli
Totò interpreta Totò.
Il film è essenzialmente una storia d’amore e racconta le avventure di Totò, il quale, per seguire la sua bella, arriva addirittura nella giungla. La ragazza, Laura, figlia di un noto esploratore finito prigioniero dei selvaggi, è ben decisa a rintracciare il padre attraverso Smith, un imbroglione che tende soltanto ai suoi interessi. Totò, passeggero clandestino sulla nave che trasporta i componenti della spedizione, diventa la guardia del corpo di Laura. Insieme a lei capita in una tribù di cannibali, rischiando di finire in pentola, ma alla fine la sua furbizia ha la meglio: Smith viene smascherato, Laura ritrova il padre e, nel classico lieto fine, ricambia finalmente l’amore di Totò. Nel film, che tra gli interpreti conta anche il grande campione di boxe Primo Carnera nei panni di un gigantesco cannibale, Totò si esibisce in una chicca del suo inesauribile repertorio: una filastrocca surreale sulla teoria di Darwin per il quale l’uomo discende dalla scimmia. Sarà vero?, si chiede il comico e ci ricama sopra un mosaico di parole in libertà.
«[...] Totò danza, salta, si abbandona ai suoi taciti fervorini agitando l’indice, fa roteare gli occhi e con la sua comunicativa comicità, con la sua silenziosa, aerea follia, costituisce l’unico numero del film, il quale è stato diretto da Simonelli con molta buona volontà. Ma le trovate e le situazioni comiche sono state realizzate un po’ fiaccamente, senza quel ritmo, quel rilievo e quel mordente che le avrebbero rese veramente divertenti [...].»
Ercole Patti, «Il Popolo di Roma», 27 giugno 1943