Florian del cassonetto
eBook - ePub

Florian del cassonetto

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Florian del cassonetto

Informazioni su questo libro

Florian, dieci anni, è un bambino che vive nel campo nomadi di una grande città. Accolto come un figlio da Violeta, cresce insieme ai fratelli rom sentendosi uno di loro, fino al giorno in cui guarda la vita con occhi diversi, la vita dei ragazzini che vanno a scuola, hanno una casa, un pasto caldo e tanti libri che lui non ha. E una volta accesa la curiosità per quel mondo così diverso dal suo, non è più possibile tornare indietro. Tratto da una storia vera, Florian ci racconta l'amore senza nulla in cambio, l'amore che vince su ogni pregiudizio, come in tanti casi di affido e di famiglie nate da un semplice incontro.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2017
Print ISBN
9788817095457
eBook ISBN
9788858690826

Florian racconta

Questa è la storia della mia vita che mi racconta Violeta, mia mamma.
A dire la verità, non è proprio la mia mamma, però è lei che mi ha trovato, una sera d’agosto che piangevo disperato in un cassonetto dei rifiuti, tra le scorze d’anguria e di melone e i gusci dei frutti di mare.
Violeta è una zingara che per mia fortuna rovista sempre nel pattume della città in cerca di qualcosa, qualunque cosa può servire per vivere. E anche un neonato può tornare utile.
Mi ha chiamato Florian, come un fiore, un fiore selvatico che nasce dal nulla. Perché si dice che i bambini nascono sotto i cavoli? Io non credo di essere nato soltanto sotto le foglie di cavolo, perché sicuramente c’erano tantissimi altri avanzi in quel cassonetto.
A me non importa molto che mi abbiano trovato lì: io sono comunque felice. Adoro i cassonetti quando sono colorati, pieni d’immondizia di ogni genere, come se fossero delle opere d’arte usa-e-getta. Invece quando sono mezzi vuoti mi fanno venire i brividi. Più che altro ho paura di quello che ci potrebbe essere dentro. Perché i miei primi ricordi sono il buio e il silenzio che mi sono rimasti addosso. E la puzza. Una puzza tremenda.
Violeta è stata coraggiosa: mi ha portato via di là, ha raccontato tutto al capo del nostro villaggio; dopo una riunione tra i maschi per decidere che cosa fare, hanno pensato di affidarmi a lei, e lasciare che crescessi insieme ai suoi figli. In cambio dovevo comportarmi bene, come uno di loro, finché non fossi stato grande abbastanza per dimostrare chi ero e quanto valevo. Allora, avrebbero scelto: tenermi con loro o cacciarmi.
Perché si dice che gli zingari rubano i bambini? Violeta non mi ha rubato, anzi: mi ha liberato da quella prigione e mi ha salvato la vita.
Scommetto una moneta che se lo raccontasse a qualcuno nessuno le crederebbe.
Ero un minuscolo fagotto di pochi giorni quando è iniziata la mia vita con Violeta e i miei fratelli: Oliver, Daniela, Doru e Mirena.
Il marito di Violeta era in prigione già da due anni e non c’era modo di farlo uscire: aveva ucciso un uomo per sbaglio, così si diceva, quando era ubriaco fradicio.
Violeta senza di lui non poteva più fare bambini e questo era un grosso guaio. Per gli zingari i figli piccoli sono una risorsa: fanno tenerezza quando chiedono la carità. Uno zingarello che si attacca alla gonna o ai pantaloni delle persone ottiene sempre o quasi una moneta. Per Violeta, quindi, c’era il pericolo che una volta cresciuti i miei fratelli (insomma, quelli che chiamo fratelli) non sarebbe più riuscita a sfamarli, perché non aveva più nessuno da portare con sé quando chiedeva l’elemosina; da sola, non suscitava molta pietà.
Per lei il cassonetto dei rifiuti, dove gli uomini buttano tutte le cose inutili, sporche e sgradevoli di cui vogliono liberarsi, è stato come uno scrigno magico. Lì ha trovato la soluzione ai suoi problemi: un tesoro nascosto. Un tesoro di bimbo.
Così, io sono diventato l’ultimo figlio di Violeta. Senza di lei sarei morto. Senza di me loro potevano morire di fame. Ci aveva unito il destino, un destino di spazzatura. Avevamo solo la vita, eppure ci sentivamo molto ricchi, insieme.
Il nostro villaggio sorge all’estrema periferia della città. Cresce a poco a poco, un pezzetto al giorno: all’inizio erano solo poche baracche, poi si è aggiunta qualche roulotte, e ora ci sono anche automobili sgangherate che non marciano più; recuperiamo i materiali più strani e, con intelligenza e fantasia, i grandi inventano cose nuove. Anche belle, a volte.
Qualcuno di noi ha perfino un’abitazione che somiglia vagamente a una casa fatta di blocchi di cemento grigio posati uno sull’altro; ma se per sbaglio urti il muro può cascar giù tutto, compreso il tetto. Le altre pareti sono fatte di legname di scarto e lamiere. È facile trovarle, le lamiere, e con quelle si fa in fretta a costruire un perimetro su cui sistemarne una più grande, bloccandola con grosse pietre per non farla volare via quando tira vento.
Intorno mettiamo pezzi di legno, vecchie porte, imposte, cartoni, plastica, teli, tutto quello che riusciamo a trovare per tenere fuori il freddo.
Il freddo. Già solo a dirla, questa parola, sento una scossa dentro. Se c’è una sensazione che so descrivere perfettamente e che conosco a memoria, in tutte le sue forme, è il freddo.
A volte immagino che sia un enorme gigante trasparente, il mio nemico. E alla fine è sempre lui a vincere. Ce l’ho così addosso che sento i brividi anche d’estate. Dev’essersi infilato nelle ossa, e ora anche il mio cuore e il sangue sono diventati gelidi.
Quando mi sveglio al mattino, mi ritrovo tutto imbacuccato e stordito; ho dormito male, torturato da spifferi ghiacciati che passano dappertutto.
Prima di andare a dormire mi organizzo come per una guerra. La battaglia dura tutta la notte: sento una spada di freddo tormentarmi il collo, mi alzo dal letto ancora mezzo addormentato, barcollo nel buio, cerco di coprire la fessura dispettosa che fa passare lo spiffero gelido con qualunque cosa mi capiti a tiro: una sedia, uno straccio, un cartone, un secchio, un cuscino.
Che sollievo. Ma dura poco. Torno nel letto, cercando di non svegliare i miei fratelli, e mi tuffo sotto le pezze vecchie che in un lampo sono diventate freddissime. Brrr… È come infilarsi nel freezer. Metto una maglia, un’altra, una camicia di flanella, un grosso maglione tutto buchi, mutandoni di lana, calzini, calzettoni, babbucce, pigiama di felpa, guanti, sciarpa e cappello.
Ma se caccio fuori il naso… Brrrr… un ghiacciolo.
Ogni tanto dovrò pur respirare, no? Solo un po’ d’aria ma i denti battono lo stesso senza sosta. Respiro. Dalla bocca mi esce fumo. Ho una sigaretta di nebbia in bocca?
Penso che… No. Non posso pensare. Si gelano pure i pensieri. Non riesco più a fare niente.
Sto lì a fissare il buio. La notte è lunga e non finisce mai. Quante volte chiedo alla luna di farmi un piacere, di andare a fare la nanna prima, di lasciare il posto al sole in anticipo.
Quanto mi piace il sole, non ve lo so spiegare. Quando vedo spuntare dalla finestra storta la luce so di aver resistito con tutte le mie forze e sono pronto per affrontare la nuova giornata.
Per prima cosa, invece di vestirmi, mi svesto. Tolgo gran parte degli indumenti che mi hanno protetto dal congelamento.
Guardo Oliver e Doru, ammucchiati come gatti sotto le stesse coperte per non disperdere una sola briciola di calore, sullo stesso materasso sfondato, posato per terra.
Daniela stringe Mirena in un abbraccio che la circonda interamente, testa nel collo, collo nella testa, come una culla.
Io dormo da solo, un po’ più in là.
Finché non troveremo un materasso dovrò accontentarmi di un letto di cartone e qualche coperta. È duro, e fa male alla schiena, ma mi dispiace di più non avere un fratellino da stringere.
Eppure ci si abitua a tutto. E a tutto si sopravvive.
Quando mamma Violeta ci sveglia, facciamo un gran baccano, e corriamo avanti e indietro nella baracca per riscaldarci un po’: ci fa bene, dice lei.
Oliver va a prendere l’acqua col secchio al serbatoio del villaggio. Violeta la fa bollire sul fornello a legna, in una grande pentola: una parte serve per fare il tè, il resto per sciacquarci la faccia; ma stiamo attenti a non sprecarla, perché così poi possiamo usarla di nuovo.
Andare in bagno non è una cosa facile. Prima di addormentarci facciamo la pipì oltre le baracche, ma se di notte ci scappa proprio e magari diluvia, possiamo farla in una bacinella.
Perché nella nostra casa non c’è il bagno e neppure tante altre cose, come la corrente, il frigorifero, la vasca, la doccia; il gabinetto però sarebbe proprio utile.
Allora, quando la pancia incomincia a brontolare, ci si allontana svelti dalle baracche e si va in uno spazio dove c’è una tettoia con una buca scavata nella terra, protetta da pareti di canne che abbiamo inchiodato a quattro paletti conficcati nel terreno. Una tenda fa da porta, attaccata a un filo con le mollette per i panni. Ecco. Questo è il nostro gabinetto.
Non c’è tempo per pensare, non ci si può sedere, non c’è la carta igienica, bisogna ricordarsi di portare fogli di giornale e l’acqua per lavarsi, ma non sempre è possibile.
Ci sono diverse postazioni: chi fa prima ne occupa una. Una dei divertimenti al villaggio è spiare le ragazze dalle pareti di canne, per poi farle morire di vergogna raccontandolo a tutti. È una cosa da maschi, che si fa da sempre. Per questo tutti cercano di svegliarsi prima degli altri: si cerca di evitare l’orario di affollamento alle buche e sfuggire agli sguardi indiscreti.
Daniela (che adesso ha dodici anni) non va in bagno se non c’è Doru ad accompagnarla, che ha un anno meno di lei; lui è la sua guardia del corpo.
Doru ha i capelli scuri, la carnagione color cioccolata, il carattere nervoso di un papero infuriato, lo sguardo diabolico, le sopracciglia sempre aggrottate ed è molto, anzi, troppo litigioso. Secondo me lui ha la stoffa di un vero capo ed è uno a cui non sfugge niente.
È severamente vietato sbirciare le mutandine di Daniela. E se lo dice Doru c’è da crederci.
Daniela ha lunghi capelli lucidi, del colore delle castagne, che porta raccolti in una treccia; solo sulla fronte, credo per via del sole, ha qualche riflesso ramato. Ha un neo bellissimo all’angolo destro della bocca e altri due sulla guancia: se si potessero unire con un pastello, formerebbero un triangolo perfetto. Ha il sorriso dolce e denti bianchi come zucchero filato, e quando ride strizza gli occhi, che diventano ali di rondine. La sua bocca è rossa come dopo aver mangiato le ciliegie; a guardarla sembra quasi che si sia messa il rossetto come fanno le donne, ma non è così. È davvero bella.
Mirena ha nove anni, ma sembra più grande di me, che ne ho dieci, perché è alta e magrissima; ha gli occhi castani, allungati e furbi, con delle pagliuzze verdi che t’ipnotizzano, come occhi di serpente; è bravissima a suonare il tamburello. Mi piacciono, di lei, i capelli mossi sempre arruffati, mezzi neri e mezzi biondi: ha provato a farsi la tinta con l’acqua ossigenata e ha combinato un disastro, per cui il risultato è che adesso li ha a strisce giallo girasole e nero carbone, però è bella lo stesso e Violeta non si è arrabbiata quando l’ha vista ma si è fatta una grossa risata, con quei denti d’oro che mettono un po’ paura.
Oliver ha quattordici anni, è il più grande e il più tranquillo: è un tipo silenzioso e solitario. Sembra uno stuzzicadenti pallido. Ha i capelli più chiari degli altri. Suona benissimo la fisarmonica: ha imparato da suo nonno, che era bravissimo anche a fondere il rame e a costruire pentole. Ora che il vecchio non c’è più, sembra che dalle note della fisarmonica esca un sottile dolore, come se vi fosse racchiusa una dolce malinconia.
Io ho dieci anni, ma sembro più piccolo, per fortuna. Sono l’unico che non ha l’aria di uno zingaro, perché non lo sono, almeno credo: ho gli occhi azzurri e la pelle chiara. Dato che sono mingherlino e sembro il più piccolo, ho il compito più difficile: attaccarmi alle gambe frettolose della gente e dire sempre la stessa frase: “Una moneta, per favore, una moneta.”
Al mattino la mamma ci prepara un bel tè caldo accompagnato da pane vecchio.
“È più buono dei biscotti!” dice Violeta. Sarà… “Fa bene ai denti” insiste lei. Secondo me è una bugia bella e buona; ma lei ha quei brutti denti d’oro e così, nel dubbio, inzuppo il pane raffermo nella brodaglia per paura di ritrovarmi anch’io un giorno con quei cosi spaventosi in bocca.
I denti d’oro però sono una tradizione tra gli zingari e più se ne hanno, più si diventa importanti.
Dopo la colazione, tutti al lavoro. Lavoro per modo di dire. I bambini di solito non lavorano, ma noi sì. Lavoriamo per la strada.
Andiamo a piedi fino al capolinea della metropolitana. Appena fischia il segnale che indica...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Florian racconta
  4. Accidenti alla scuola!
  5. A cosa servono i libri?
  6. Daniela promessa sposa
  7. Daniela si ribella
  8. Un magico incontro
  9. Un giorno terribile
  10. Un angelo in uniforme
  11. Treccine rosse e Mirena
  12. Daniela e Violeta
  13. Oliver e Claudia
  14. Al Paradiso dei gabbiani
  15. Un destino inesorabile
  16. Le polpette magiche
  17. Piccoli lavavetri
  18. I preparativi per le nozze
  19. L’ultima possibilità
  20. Il capitano Petrillo e Maria
  21. La rabbia di Goran
  22. Una cittadina esemplare
  23. Doru e Davide
  24. La Casa del mandorlo fiorito
  25. Fuoco al campo rom
  26. Una festa a sorpresa
  27. La città protesta
  28. Come una mummia
  29. Tutti insieme
  30. Greta, Ginella, Pippi e il giudice
  31. Una nuova vita
  32. Il berretto rosso e Doru
  33. Florian racconta ancora
  34. Florian ringrazia…