Terzo incontro
Morti e resurrezioni
GUILLAUME SBALCHIERO: Molti artisti di ogni genere non esitano a prestare il loro nome e la loro immagine a sostegno di una causa, mischiandosi a volte anche con la politica, come Bono, George Clooney o Bruce Springsteen. Pensa che sia un dovere degli artisti? È stata spesso sollecitata a prendere posizione? È attiva in qualche associazione? Come concepisce l’idea dell’impegno?
MONICA BELLUCCI: Nel 2010, incinta della mia seconda figlia, sono stata invitata a realizzare un libro fotografico. È un bell’oggetto, e i ricavi delle vendite, anche se non conosco le cifre esatte, sono stati devoluti a due associazioni: una, l’A.G.O.P., aiuta i bambini malati di cancro, l’altra Paroles de femmes, lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni di genere. Ma non mi piace molto esporre le mie posizioni, c’è un rischio di strumentalizzazione. Rifiuto categoricamente di cadere nel gioco politico, perché è molto difficile avvicinarsi a questa sfera senza diventare partigiani. Non ho alcuna voglia di entrare in quell’ambiente, mi sentirei soffocare.
Quindi a volte accetto volentieri di «usare» la mia celebrità per attirare l’occhio dei media e dell’opinione pubblica su questioni umanitarie. Queste associazioni non hanno sempre accesso ai media, mentre per me è più semplice… Ne ho discusso con una rappresentante dell’Unicef. Mi aveva confidato che senza l’aiuto di personaggi famosi, i loro risultati sarebbero stati ben più modesti.
È un peccato, ma purtroppo è la realtà: i famosi trascinano. Ma non mi faccio illusioni: penso di avere un impatto minimo. Non credo di cambiare il mondo. Provo soltanto, nel mio piccolo, a dare una mano. Impegnarsi in nome dei valori senza esserne lo strumento.
Come si è forgiata la sua coscienza civile?
A volte mi sono trovata imbarcata in progetti un po’ controvoglia. Credo anche di aver vissuto qualche esperienza che ha formato il mio sguardo sulla malattia e sull’ingiustizia. Penso in particolare agli adolescenti malati di cancro che ho conosciuto in ospedale. Lì, in piena crisi ormonale, in piena crescita, dovevano subire trattamenti di una violenza estrema. Non so come i medici riuscissero ad assistere a quella disperazione, a quei corpi sofferenti. Io non ho quella forza, anche se con l’età mi sento più in grado di affrontare quel genere di situazioni.
Questo coincide con un rafforzamento del carattere?
Soffro di un sentimentalismo eccessivo. Perdono molto. Troppo… Alcune persone ne hanno approfittato. Adesso provo a essere sentimentale senza cadere nella trappola del sentimentalismo.
Conosce le ragioni di questo comportamento?
Esistono molte spiegazioni possibili: l’educazione, il mio bagaglio giudaico-cristiano e quel famoso senso di colpa… Ma anche la voglia di non ferire, di non offendere… Un’insicurezza, una mancanza di fiducia in se stessi… è un insieme di cose. E in questo momento, a causa di tutto ciò, devo fare pulizia di una montagna di problemi a lungo negati. Un vero e proprio percorso, doloroso e appassionante. Riscopro la vista, in qualche modo.
Tutto questo mi fa pensare a una frase buddhista che amo molto, che parla della differenza tra innocenza e ignoranza: «Si chiama ignorante colui che vede la bellezza dell’altro, ma che non vede il resto. Si chiama innocente colui che vede il resto, ma che continua a vedere la bellezza».
Questo lavoro su se stessa che impatto ha avuto sulla sua professione?
Esiste a tratti una strana connessione, inspiegabile, tra gli stati d’animo e i progetti professionali, una sorta d’impressione che i progetti che arrivano siano direttamente o inversamente legati al sentire del momento.
È un’evoluzione progressiva o un mutamento improvviso?
Per me, una serie di morti e resurrezioni… L’adolescenza, innanzitutto, che sconvolge il quadro prestabilito, che è ribellione contro l’autorità. Malgrado l’amore che nutrono per noi, penso che i genitori esercitino anche un controllo, e che verso i tredici o quattrodici anni occorra disfarsene, ricercare l’indipendenza. Più tardi, tra i trenta e i quarantacinque anni, un altro processo si mette in moto. Periodo di costruzione, sia sul piano professionale sia familiare. Infine, verso i quarantacinque anni, quando la maschera della bellezza giovanile svanisce, quando questo demone che ci è stato donato dalla natura non ci protegge più, il sé profondo, vero, emerge. Il ricorso alla fisicità diventa impossibile. Bisogna confrontarsi, una volta per tutte, con il tempo e con la morte.
È una questione di scelta, insomma. È il momento in cui si comincia a pensare alla chirurgia estetica per sfuggire alle leggi dell’invecchiamento. Oppure in cui si ha il coraggio di sabotare gli schemi rassicuranti. Tentare di conservare la curiosità dell’adolescenza su un viso adulto. Per niente facile…
Contratto faustiano, tentativo di invertire il corso del tempo… Ha paura del futuro?
A parte una banale questione di ordine pratico, veramente no. Ho visto troppe persone, attorno a me, morire per non aver saputo reagire. Da poco è morto un amico, una persona splendida, ma incapace di reggere all’invasione degli altri. La sua scomparsa mi ha provocato una tempesta di emozioni, e sono certa che sarebbe ancora vivo se avesse resistito… Per questo guido il mio percorso, agisco come sento, subisco meno. Sempre gentile, sorridente, ma più ferma. Meno vuota, allo stesso tempo…
Meno «vuota»?
Senza la fede, senza l’appiglio di una religione o di una visione filosofica, l’esistenza può sembrare vuota. Le cose materiali hanno valore solo a condizione di essere il frutto di sforzi personali. Abitare in un castello, guidare macchine da corsa, guadagnare grosse somme di denaro, non porta la felicità in sé, al contrario può essere una soddisfazione quando è il risultato di un lavoro appassionante. Non è dunque legato alla quantità ma alla qualità. L’ho saputo molto presto, ma ci ho messo del tempo a capirlo veramente.
Da giovane avevo molto a disposizione. Eppure sentivo un vuoto pesante. Un’insoddisfazione inquietante. Sono i figli, penso, questo amore così potente e avvolgente, che mi hanno permesso di percepirlo a fondo. Grazie a loro, ho acquisito una coscienza nuova di me stessa e del mondo.
Ma, a preoccuparsi troppo dell’aspetto spirituale, non si corre il rischio di dimenticare, ovvero di distruggere la propria quotidianità?
Evito questo pericolo perché conduco una vita solidamente ancorata alla realtà. Il mio equilibrio sta lì, tra banalità pragmatica e sfere più immateriali. Proprio come quando giravo Per sesso o per amore? di Bertrand Blier, o Un été brûlant di Philippe Garrel; in entrambi i casi, allattavo durante le riprese.
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È difficile tenere il ritmo di questa marcia funambolica nel materialismo dell’industria culturale?
È uno dei problemi più grandi di questo ambiente. Anche se si tratta di un business, la creazione ha innanzitutto il dovere di sollevarci sopra i piccoli problemi materiali di tutti i giorni, e anche se rispetto il denaro, perché senza non c’è indipendenza, penso di non aver mai rincorso il cachet. Rispondo semplicemente a dei desideri, ma il successo e il denaro a volte fanno esplodere le nevrosi. Basta pensare a Basquiat: morto d’overdose all’apice della carriera! Anonimo, probabilmente sarebbe ancora vivo.
Stare sotto i riflettori obbliga a responsabilizzarsi. Del resto comincio a credere che la fama sia ingannevole. Ci dice: «Prendimi, e vediamo cosa sei capace di fare!».
È colpa sua se la gente riversa sulle celebrità frustrazioni e fantasmi. Un giorno esaltano le dive alle stelle, e il giorno dopo non esitano a trascinarle nel fango. In entrambi i casi, è tutto falso!
Una persona famosa non è né superiore né inferiore a chiunque altro. È solo un essere umano che, a causa della visibilità, della luce dei riflettori, può risaltare con più rumore e scalpore di chiunque altro. Molti casi celebri ce lo dimostrano: Marlon Brando, Marilyn Monroe, Jim Morrison, Nicolas De Staël… carriere incredibili, talenti clamorosi, ma, anche, una vita privata complicata, nera.
Evidentemente, l’una è in rapporto all’altra. Separare la biografia dall’opera mi sembra insensato. Per guardare in faccia all’artista, per comprendere la sua creazione, bisogna esplorare la sua dimensione intima.
Soltanto, per quanto tormentata sia la vita dietro le quinte, è la Storia che fissa l’opera; e durare, combattere il destino, sublimare il biologico, comporta dei sacrifici.
Ma a quale prezzo! Fosse stata una contadina, Camille Claudel non avrebbe evitato il dolore dell’internamento? Romy non avrebbe trovato la pace, fuori dal set cinematografico? Il successo non è sempre un dono. Anche le stelle chiedono un riscatto. E queste due donne, come altre, l’hanno pagato con la vita.
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Relativizzare, come sembra fare lei, non deve comunque sminuire il piacere di un bell’articolo, di una recensione elogiativa, e di ogni altra forma di riconoscimento.
Ovvio, l’ego è lusingato e le lodi rassicurano. Ma il pericolo è crederci! Perché, al minimo colpo di vento, al più piccolo errore, la caduta può essere vertiginosa. Per evitarlo bisogna ricordarsi sempre che le persone giudicano un’immagine, e non l’individuo reale.
Internet, radio, televisione, stampa specializzata: gli sguardi sono troppo numerosi, le voci troppo eterogenee… anche volendo, non potrebbe avere il controllo assoluto sulla maniera in cui è percepita.
Sono una donna di spettacolo. All’improvviso, grazie a una femminilità naturale e a un po’ d’artificio, posso creare un sogno. Senza niente di eccezionale. E non ho alcun problema con questo aspetto del lavoro. Perché amo il sogno creato dal mondo dell’immagine e sono la prima a fermarmi davanti a una foto che mi colpisce e mi entusiasma.
Quando lavoravo come modella, Odile Sarron, che per quarant’anni è stata una figura emblematica del mondo della moda, avendo scoperto tutte le più grandi modelle, mi disse: «Quando ti mettono in copertina, sei una delle rare brune che vende quanto una bionda». Eppure, ancora oggi, non ho alcun potere decisionale su una copertina. E parlo ai giornalisti unicamente nell’ambito della promozione di un film.
Che dire invece dei progetti collaterali? Le campagne pubblicitarie non sono parte della costruzione di un’immagine pubblica?
La pubblicità ha a che fare soprattutto con il piacere e con l’interesse per un certo sguardo creativo. Ho accettato, ad esempio, di collaborare con firme come Dolce&Gabbana, Dior, Cartier, perché amo la loro visione rispettosa della donna, quel modo di comunicare che può essere bella in qualunque momento della sua vita.
Questo riflette una evoluzione dello sguardo dell’industria culturale sulle donne? C’è una differenza tra l’Europa e gli Stati Uniti? Ha mai pensato di vivere lì?
Durante la promozione di Spectre, molti giornalisti mi hanno rivolto domande su questi temi. Non ho molta voglia di entrare nel dibattito. Conosco il sistema europeo, e vedo attrici come Charlotte Rampling, Catherine Deneuve, Judi Dench, Isabelle Huppert, Helen Mirren, che continuano a condurre carriere formidabili. Al contrario non posso giudicare il funzionamento del sistema americano. Le attrici americane hanno più titoli di me per parlarne. All’industria cinematografica americana mi sono avvicinata con esperienze interessanti come Matrix, L’ultima alba, Lei mi odia, I fratelli Grimm, ma in quanto europea. Non ho mai vissuto a Holly...