Lo stretto necessario
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Lo stretto necessario

  1. 384 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Lo stretto necessario

Informazioni su questo libro

Giulio ha tutto quel che potrebbe desiderare: successo nel lavoro, un appartamento lussuoso, una moglie - Francesca - bella, ricca di famiglia e dedita alla beneficenza per l'Africa, e una figlia di sette anni che già promette di diventare splendida come la mamma. Eppure, all'inizio di giugno 2006, mentre gli Azzurri di Marcello Lippi cominciano ad affrontare il Mondiale, sente qualche nota dissonante nella sua vita. Sarà che uno pseudointellettuale, Giacchetta di Lino, ronza attorno a Francesca e lei ne sembra invaghita. O sarà che ultimamente Giulio ha dovuto ideare solo campagne su prodotti come colle per dentiere o calzini antipuzza. O sarà che Marta, una vecchia amica, dopo dieci anni di silenzio si è fatta inspiegabilmente risentire.In questo momento di confusione Giulio lascia tutto, di punto in bianco, per partire con Federico, l'amico di sempre, che in crisi lavorativa e coniugale ha deciso di andare in Puglia per ristrutturare una masseria. È l'inizio di una scorribanda maschile, un'avventura lungo tutta la Penisola che porterà Giulio a confrontarsi con se stesso, con donne del suo passato e anche con il proprio senso di responsabilità.Lo stretto necessario è un romanzo scritto con una penna talentuosa e incalzante, fitto di colpi di scena e arricchito da una vivida galleria di personaggi, ironici e realistici. Ma non solo. È soprattutto un viaggio sorprendentemente sincero nella psiche maschile, quella dove si affollano desideri e rimorsi, autoassoluzioni e paure, tentazioni e vigliaccheria. Una lettura illuminante per ogni donna, forse sconvolgente per qualche uomo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817081412
eBook ISBN
9788858691250

1

Al primo posto: stare sul divano, anzi, stare a San Siro, Milano, la mia città, davanti a una partita di Champions dopo un giorno di lavoro.
Al secondo: in barca, ovunque, da qualche parte in mezzo al Mediterraneo col telefono che non prende.
Terzo: in piedi con una birra in mano e con il Boss che sta per cantare e sai che andrà avanti per tre ore e tu lo amerai come si amano gli uomini e le donne speciali.
Quarto… mi sa che mi tocca dirlo: guardare mia moglie mentre fa ginnastica con i capelli legati che le ricadono sul viso.
Quinto: sorprendermi ogni volta che mia figlia mi fa i suoi piccoli discorsi impegnati, e scoprire che cresce.
Queste sono le cinque cose che più mi piacciono nella vita, e l’ordine è voluto. Perché con Federico, quando giochiamo alle “cinque cose”, diventiamo seri, serissimi, e diciamo sempre e solo la verità: ai primi tre posti dei miei momenti felici ci sono le questioni calcistiche, e su questo non si discute, il mare e la musica, poi quelle riguardanti Francesca e Rebecca.
Facciamo questo gioco delle classifiche, io e Federico, più o meno dai tempi delle medie. Al liceo lo abbiamo perfezionato, nonostante i professori incoraggiassero temi e argomentazioni più articolate. Poi è arrivato Hornby che con le classifiche era fissato e noi, alla faccia dei professori, abbiamo anche smesso di sentirci in colpa.
Erano i tempi in cui classificavamo le donne in quattro categorie: viso, tette, gambe e culo, come fossero modelli di macchine fuoriserie. Roba brutta, lo so, politicamente scorretta, eppure verissima. Un punteggio sopra il trenta (su quaranta) cominciava a essere interessante (e meglio sei al viso e nove al culo piuttosto che il contrario).
Quelli erano davvero gli anni d’oro del grande Real, dei petardi accesi sotto la sedia di Bonetti, il secchione della classe, delle chiacchierate ai Giardini della Guastalla, Milano, ora del tramonto, della scoperta di molte cose (sì, certo, anche quella, anche il sesso). Erano i tempi del traghetto Ancona-Patrasso con Bob Marley a palla nel walkman Sony giallo, l’epoca dei primi preservativi comprati per l’occasione facendo il patto di riprendere il traghetto di ritorno solo dopo aver dato fondo alla confezione (e spesso si finiva per buttarli di nascosto prima di ripartire).
Le prime tre cose della classifica, quelle che riguardano il mio cuore votato al calcio, al mare e alla musica, quasi sempre prendono il sopravvento sulle altre, e questo moglie e figlia un po’ me lo fanno pesare, con quel sesto senso infallibile, quel modo indiretto di incolpare che hanno le donne. Here I am, the usual Peter Pan. A volte, però, sono loro che si prendono più spazio delle partite o dei concerti a cui non sono stato, e mi rode molto. Anche se, a quel punto, qualcuno mi dovrebbe assegnare una nomination all’Oscar, metodo Stanislavskij che funziona sempre. Funzionerà anche oggi, mentre sono in piedi qui, in terrazza, e penso che dovrò rinunciare a passare al pub e all’ultima amichevole dell’Italia prima del Mondiale 2006. Lo farò per amore, forse. Sicuramente ostenterò felicità, avrò la faccia di qualcuno a cui non pesa soprattutto perché lo scopo è quello di affiancare mia moglie in una cena di beneficenza. Nel nostro caso si tratta di “Figli d’Africa”, la fondazione in cui Francesca lavora. Entro nel ruolo e ripasso la parte anche se, sia detto chiaramente, non sono d’accordo, non mi va per niente, starei centomila volte meglio sul divano, con la birra in mano, a guardare la Nazionale. E Dio benedica l’Africa.
Le cinque cazzate che so dire meglio. Quelle riguardanti “Figli d’Africa” al primo posto. E il gioco continua su tutto. Le cinque cose che amo di più, i cinque gol più memorabili nella storia del Milan (Ancelotti col Real o Kaká a Manchester?), le cinque amiche di Francesca più fighe (sono stato a letto con due di loro, e lo so, non dovrei vantarmene), le cinque canzoni con cui ho pianto di più (Disarm, degli Smashing Pumpkins, comodamente prima), i cinque ristoranti di Milano più libidinosi (astenersi etnici, sushi e perditempo), i cinque lavori che avrei voluto fare se non fossi diventato un perfetto pubblicitario milanese, uno di quelli che sembrano usciti dal libro degli stereotipi, con gli occhiali da sole e il SUV parcheggiato a fatica nel box, con annessi graffi in quantità. Le cinque campagne pubblicitarie che mi sono venute meglio, quelle con cui ho rischiato di giocarmi la società di cui sono a capo insieme a un personaggio assurdo che si chiama Rolando, e quelle degli altri che invece: “Cazzo, perché non le ho fatte io?”.
Le classifiche sulle cose di lavoro sono tra le mie preferite perché il lavoro è l’altra mia “presenza ossessiva” nella vita, dopo il calcio, la musica, e anche dopo un’immagine che porto con me: quella macchia sotto al piede di Rebecca, mia figlia, la macchia più artistica che esista al mondo, uno di quei segni particolari che nessun Kandinskij avrebbe mai saputo inventare. Non volendo, in qualche strano modo l’abbiamo fatta io e Francesca e produrla è stato pure piuttosto divertente. Quando la vedo, ribalto ancora una volta ogni classifica perché quella macchia così tonda e tenera, illogica e meravigliosa, vince su tutto. Niente da fare, mia figlia in un modo o nell’altro prende sempre il sopravvento.
Ed eccola Francesca, mia moglie. Tiene a tutto volume You Are Not Alone, una robetta orecchiabile e piuttosto disgustosa che sta passando in radio. L’ha fatto di nuovo, si è messa quei calzoncini fucsia e la canottiera nera con cui mi fa impazzire. Sapeva che sarei passato a casa a togliermi la tenuta da riunione e ora, nell’afa del primo pomeriggio, è lì che saltella, del tutto fuori ritmo, sul tapis roulant vicino camera nostra. La coda di cavallo si è scomposta, e lei tutta felice canta insieme a Michael Jackson, neanche stessero preparando insieme un duetto per stasera, per la loro serata benefica in stile We Are The World.
Another day has gone,
I’m still all alone,
how could this be,
you’re not here with me
E invece si sbaglia, la Franci, a dire «you’re not here with me», perché invece I’m here with you eccome, e infatti le compaio sulla porta e senza troppa enfasi le faccio cenno che ci vediamo più tardi. Lei, che quando mi vede sembra provare la stessa emozione che avrebbe di fronte a un termostato dell’aria condizionata – ma quali calzoncini e canottiera indossati per me! –, mi lancia un’occhiata ferale: «Giulio… Alle sette, eh. Guarda che stavolta…».
«Tranquilla… alle sette.»
«E non con quella faccia!» Non so se si è vista la sua.
«Quale faccia?»
«Quella di quando c’è una cosa della fondazione. E ricordati di andare a prendere Rebecca in piscina…»
«Sta a vedere che la lascio in acqua, a bagnomaria. Ma tu, invece, hai intenzione di darmi ordini fino a quando?»
Mi avvicino con il passo da coglione che davanti a lei mi viene benissimo e la bacio sulle labbra. Lei cerca di sottrarsi e continua a saltellare con difficoltà su quella pedana in corsa.
«Dài, che mi sballi la velocità…»
«Sì? Solo la velocità ti sballo, vero?»
«E smetti che sono tutta sudata…» E intanto però le viene da ridere.
«Ma mi piaci, tutta sudata…»
Francesca non si arrende e mi spinge via con una manata. Riprende velocità e a questo punto – effettivamente mi trova troppo bello per nascondere scuotimenti ormonali vari – mi fa quel sorriso, quello che sa lei. E quando lo fa è il momento in cui mi tocca cambiare idea: mi tocca farla salire allo stesso posto della macchia sotto il piede di Rebecca, ossia il primo posto delle cinque cose che più mi piacciono al mondo.
Meno male che devo tornare in ufficio, almeno per qualche ora, dove il lavoro mi terrà lontano dal pensiero di stasera.
Al mio indirizzo arrivano campagne pubblicitarie di tutti i tipi, e di solito le cancello direttamente senza neanche guardarle. Solo che stavolta mentre lo faccio mi cade l’occhio su un mittente meno enfatico e cretino delle varie diete, oroscopi, promozioni di calzini non puzzolenti e altro. Un mittente che è solo un nome. Apro.
Ciao, Giulio. Ho trovato il tuo indirizzo email su Google e… dopo tanti anni eccomi qui, con questo tipo di contatto non abituale per noi che all’epoca non avevamo neanche i cellulari. Eppure eravamo sempre felici, ti ricordi? Perdona il tono nostalgico, non è per questo che ti scrivo ma perché mi piacerebbe parlarti di alcune cose importanti. Molto importanti per me. Mi chiami? Ci terrei tanto. Marta
E questa oggi da dove sbuca? Non che sia una sconosciuta, be’, proprio no. Marta Greco è tutt’altro.
Marta e tutta l’università insieme, anche se io Economia e lei Giurisprudenza. Marta e il suo buffo accento siciliano, la sua erre rinforzata e le nostre giornate in biblioteca con dieci interruzioni alla macchinetta del caffè a volte senza dirci una parola. Anni così fino alla laurea. E poi tutti i viaggi, i primi lavori, le prime storie vere, il giorno in cui poi ogni volta che ne parli dici: «Ti ricordi quella volta che…?».
Abbiamo fatto di tutto, di tutto, insieme. Poi, dieci anni fa ci siamo mandati a cagare, e dato il tempo che è passato senza sentirla suppongo che ci siamo mandati a cagare in modo serio. È strano perché non siamo mai stati fidanzati, e quindi perché mandarsi a cagare tra amici? Di fatto lei, dopo aver deciso di tornarsene a casa sua a Palermo, non si è fatta più sentire. Una mossa da stronza, senza dubbio. Le donne lo fanno.
L’ho pensata spesso, spiaggiata tra i fichi d’india e l’azzurro del mare, all’Addaura, vicino a Mondello, o magari a Cefalù o in quei chioschetti eroici che resistono di fronte al mare di Terrasini, con i ritmi lenti e il tempo che si dilata.
È un vero peccato litigare con un’amica con cui hai condiviso appartamenti da studenti, bagnoschiuma, posacenere pieni, canne (a friend with weed is better), pentole incrostate di sugo. Un’amica che potrebbe anche essere un maschio, almeno fino al giorno in cui non ti accorgi che ha pure un bel culo che non avevi notato prima – a me è difficile che sfuggano certe cose ma in questo caso è successo – e comunque resta un’amica e basta, perché questa è la cosa che conta.
Chissà perché mi ha scritto. So che ha un figlio, non è stata lei a dirmelo, doveva essere talmente incazzata con me che non ha pensato nemmeno di chiamarmi quando le è capitata questa cosa. Del resto neanch’io quando è nata Rebecca l’ho cercata per raccontarglielo. O almeno, così mi sembra.
So anche che è diventata penalista: me la immagino con accanto uno un po’ impegnato come lei, uno giusto, di quelli che alle cene di beneficenza della moglie partecipano davvero e si mostrano fieri di lei. Magari Marta e questo signore serio avranno fondato un partito con ideali di lotta alla criminalità locale e cose del genere, le stesse con cui lei era fissata e rompeva i coglioni già a vent’anni. Mi avrà scritto per farmelo sapere, per cercare adesioni tra i vecchi contatti del Nord. Sì ma che palle. E istintivamente elimino l’email, anche se poi la ricerco nel cestino. Niente da fare, la mia posta è molto più efficiente del mio cervello, polverizza tutto all’istante.
In questo stesso venerdì pomeriggio sono uscito prima dall’agenzia per andare a prendere Rebecca a lezione di nuoto. La verità è che vorrei stare steso sul letto oppure sugli spalti di quel campo di pallone che dicevo, invece che su quelli della piscina dove siedono grappoli di altri genitori che aspettano i figli. L’umidità ambientale mi sta persino impallando il cellulare, e questo mentre mando messaggi in giro per chiedere ai pochi amici non coinvolti nella mia cena di stasera dove vedranno Italia-Ucraina.
Lavoro sempre, non so prendere pause, e anche a distanza continuo a pensare alle campagne pubblicitarie che abbiamo in ballo nell’ultimo periodo. Questi, poi, sono giorni di fuoco, inizia a fare caldo, ci sono da preparare gli spot che andranno in rotazione dall’autunno, insomma, i ritmi sono concitati e io sono il primo ad aver bisogno del prodotto che abbiamo appena lanciato. Riplax: un glorioso deodorante ascellare. Ragiono sugli ultimi dettagli del copy, sulla scansione che proporremo al cliente. Tutto questo mentre Rebecca nuota a stile libero e ogni tanto, alla fine delle vasche, volta la testa per cercare il mio sguardo, e a me torna in mente quella canzone di Dalla… Come diceva? «L’amore silenzioso dei pesci che ci aspettano nel mare.»
Rebecca sorride e io faccio lo stesso senza però badarle troppo. E torno a pensare alle ascelle dei consumatori che salveremo per sempre grazie all’eroico Riplax. Ripasso i frame.
Scena 1 – Quasi buio, una luce fioca sullo sfondo, un rumore lento e languido.
Scena 2 – La telecamera si avvicina ai protagonisti e cresce lentamente il volume.
Poi smetto di ripassare, di ragionare, e decido di apprezzare lo stile libero di mia figlia. Non lo dico perché sono il padre, ma mi sembra nettamente la migliore. Con lei, decine di altri bambini aggrappati alle tavolette, ai tubi galleggianti o al bordo. La guardo salire sul trampolino e prima di tuffarsi lanciarmi un’altra di quelle sue occhiate, quelle a cui poi seguiranno i famosi discorsi seri, i discorsi che si fanno a sei anni, quasi sette, con un padre che ne avrebbe quarantadue, quasi quarantatré, ma solo anagraficamente perché in realtà è nettamente più coglione e immaturo di lei.
Essere bambini è la gioia più grande e terribile. Mi farei volentieri un altro giro, da cinque a quarantacinque anni, me ne tornerei lì a mollo, in quel mondo fatto di cloro e colori accesi delle corsie, con l’istruttore che fischia quando finisce l’allenamento e fuori è tutto un rumore confuso, un senso di sospensione. Me ne starei lì, senza responsabilità e con quegli occhi puri, a mollo con la mano che si tiene al divisorio della corsia e le dita mangiate dall’acqua.
Ma ecco che il bip di un nuovo SMS mi allontana da tutto questo. Rebecca mi sorride proprio mentre sto per rispondere al solito Ivan, il nostro creativo, un uomo metà lavoro e metà canapa indiana, che già pensa alla prossima campagna. Senza alcun tono da sottoposto mi scrive qualcosa tipo: Tieniti stretto il tuo sorriso! Che cazzo vorrà dire?
Mi stai dicendo che dovremo occuparci di dentifrici?, gli rispondo preoccupato: la mia missione in questi giorni è salvare il mondo dal dramma della traspirazione, dalla pezzatura sotto le ascelle, dall’emblema mistico della sconfitta, l’alone sotto le braccia. Non ho altre missioni. Riplax salverà le ascelle di tutto il pianeta. E tutto il resto è noia.
Magari…, risponde Ivan, e intanto insiste a parlarmi di denti, poi mi cita anche un film su certi vecchi che fanno il bagno nella piscina di una casa abbandonata, o qualcosa del genere.
Cocoon, gli scrivo, felice di aver indovinato. Lui continua, mentre l’istruttore di nuoto fischia alla mia Rebecca perché si prepari al tuffo. Io digito un semplice, sintetico, elegante: Adesso non frantumarmi i coglioni!, di cui mi pento e sto per cancellarlo, non fosse altro che Rebecca mi distrae e in un istante la frase parte da sola. Il sorriso sdentato della mia Becky un attimo prima di tuffarsi mi fa dimenticare tutto. Il sorriso sdentato… Dio mio, sta’ a vedere che Ivan mi proponeva una campagna su una colla per dentiere! Colla per dentiere?, scrivo.
Eh, risponde, ed è un sì. Cazzo. Una colla per dentiere di cui studiare le caratteristiche e i benefici per proporla al pubblico come se si trattasse di una sostanza che restituisce vent’anni di giovinezza o ti permette di volare. Colla da appiccicare alle protesi dentarie. Vaffanculo.
Classifica delle cose che mi ipnotizzano: guardare mia figlia quando si tuffa dal trampolino. Guardare mia figlia qualunque cosa faccia. Tipo, a volte, dopo essersi infilata nei suoi legging e nella sua felpina piena di fragoline, esce dallo spogliatoio con i capelli ancora umidi e si fa la coda da sola, la coda alta, che io non sono capace di far...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lo stretto necessario
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. Ringraziamenti