I
LE CONTRADDIZIONI DELL’INIZIO: DALL’UNITÀ AL FASCISMO
La formazione del ceto permanente di governo
Quando si parla della storia d’Italia va sempre tenuto a mente che alle prime elezioni, nel 1861, ebbero diritto di voto 420.000 elettori maschi, meno del 2% della popolazione, e andò a votare solo il 56% di loro, talché il primo Parlamento del nostro Stato unitario venne eletto da circa l’1% degli abitanti. In molti collegi furono sufficienti meno di 200 voti per mandare a Torino un deputato; in uno, solo 89.
Il Regno d’Italia e l’Unità del Paese nascono dunque, come afferma Michele Salvati nel suo libro Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi, «dall’alto», sono costruiti «da un’élite molto ristretta, da un ceto di politici liberali grosso modo divisi in una destra monarchica, moderata o conservatrice, e in una sinistra in cui confluiscono gli eredi delle forze repubblicane e mazziniane». «Non ho niente contro questa costruzione dall’alto» continua Salvati, «molte unità statali nascono come costruzioni di élite e poi riescono a coinvolgere con successo il popolo nel processo di ampliamento della democrazia.» Ma a questa seconda fase da noi ci si arrivò tardi, molto tardi. Anche restando nell’ambito di una «costruzione di élite», la nostra nasce con un vizio d’origine: l’esclusione delle élite cattoliche, la conquista in armi dello Stato pontificio e il non expedit di Pio IX – la proibizione ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato che la Chiesa non riconosce – renderanno debole il fronte borghese, con conseguenze molto gravi sulla «qualità democratica» dei governi liberali e sulla stessa «tenuta della democrazia» nelle prove che essa sarà costretta ad affrontare dopo la Grande guerra.
Per cinquant’anni, nella fase iniziale della storia d’Italia, «i cattolici e le loro organizzazioni sono una forza estranea che non riconosce la legittimità dello Stato, una forza extrasistema, se non antisistema». Sono i «neri», come li definivano i liberali. Ai quali andavano ad aggiungersi – sul versante politico opposto – i «rossi», cioè i repubblicani intransigenti e i rappresentanti di quei ceti popolari vessati da condizioni di miseria estrema, i quali andranno a costituire la nervatura e l’ossatura del Partito socialista che nascerà a Genova nel 1892 (in Germania la Spd era stata creata nel 1869). I rossi, ancor più dei neri, sono forze antisistema e, per trovare un inizio di dialogo tra socialisti e liberali, tra Filippo Turati e Giovanni Giolitti, si dovrà attendere la vigilia della Prima guerra mondiale.
Sulla scia di due studi molto importanti – Il trasformismo come sistema di Giovanni Sabbatucci e Storia d’Italia e crisi di regime di Massimo Salvadori – Salvati individua in quel che si è appena detto l’origine dei problemi successivi: Destra e Sinistra storica non potevano opporsi l’una all’altra come in Inghilterra, patria della democrazia rappresentativa, facevano già allora i Whigs, liberali, e i Tories, conservatori. Nell’assillo che, in caso di sconfitta, la Destra scegliesse di allearsi con i «neri antisistema», e la Sinistra con i «rossi antisistema», così da poter giungere a uno strappo della tela unitaria, in quell’assillo, dicevamo, la lotta politica fu soprattutto una lotta interna a un’unica grande maggioranza. Una gara la cui posta era la leadership della maggioranza stessa, mai la formazione di una maggioranza alternativa. In un bel libro, Ottocento. Lezioni di storia contemporanea, Raffaele Romanelli spiega come anche il passaggio del 1876 dalla Destra di Marco Minghetti alla Sinistra di Agostino Depretis non si configurò in un quadro di alternanza. Depretis portò al governo un’«amalgama», come allora fu detto, di un centro aperto alla sinistra moderata (in particolare quella meridionale) «che teneva a distinguersi a sinistra dai gruppi più radicali e a destra dai più retrivi». Agli uni e agli altri «mancavano peraltro programmi e punti di riferimento forti, tali da connotarli in positivo e da fondare una dialettica parlamentare». E così, prosegue Romanelli, «il modello centrista, essendo privo di effettivi antagonisti, risultò dall’occasionale accorparsi attorno al governo di singoli deputati o gruppi; agiva in questa direzione anche la debolezza della presidenza del Consiglio, giacché il regime parlamentare si era instaurato per via di prassi e formalmente il capo dell’esecutivo era tuttora il re». Qualche tempo dopo Depretis si compiacque della capacità dei parlamentari di «trasformarsi» scegliendo la via del «progresso». Ma questo verbo «divenne presto uno stigma negativo e “trasformismo” divenne sinonimo di accomodamento interessato, privo di idealità e di forza, di quell’attitudine alla transazione – alimentata dal connubio di parlamentarismo all’inglese e di accentramento amministrativo alla francese – per la quale i singoli deputati patteggiavano il loro sostegno alla maggioranza in cambio di favori al proprio collegio, o agli interessi di riferimento, in genere agrari, industriali, finanziari».
Già nella seconda metà dell’Ottocento si potevano constatare i perniciosi effetti dell’assenza di alternanza o quantomeno di una prospettiva di alternanza. Sidney Sonnino nel 1900 mise bene a fuoco la questione. «I pericoli e le difficoltà speciali in cui si trova il governo monarchico-rappresentativo in Italia» scrisse, «il premere dei partiti estremi, poco scrupolosi nella scelta dei mezzi e delle alleanze e alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie che coadiuvarono alla costituzione prima del Regno [...] l’ostilità irriducibile del Vaticano che dà colore antidinastico e antiunitario a un partito che altrimenti si presenterebbe soltanto come ultraconservatore, tutte queste cose insieme e altre ancora rendono, a parer mio, impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica. Ognuno dei due partiti cadrebbe vittima del partito estremo che gli resta più vicino, la sinistra dei sovversivi, la destra dei clericali.»
Non fu dunque – come comunemente si crede – la guerra fredda a determinare qui in Italia, nella seconda metà del Novecento, l’impossibilità dell’alternanza. Già un secolo prima, fin dall’inizio della nostra esperienza unitaria, tale impossibilità fu un carattere basilare del nostro sistema politico, carattere che con il passare degli anni lo rese unico al mondo. Unico. Non ci fu alternanza dopo le elezioni del 1913 (le ultime con il sistema uninominale) quando finalmente, grazie al suffragio universale maschile, andarono alle urne otto milioni e mezzo di elettori, talché cattolici e socialisti ottennero ottimi risultati. E neanche dopo le elezioni del 1919 (le prime con il proporzionale) o del 1921, quando i partiti di massa conquistarono la maggioranza in Parlamento. Non potendosi coalizzare tra di loro e non riuscendolo a fare – per il «teorema Sonnino» – con i liberali, i nuovi partiti spalancarono, anzi, le porte alla dittatura. Giustamente poi Salvati si sofferma sulle elezioni del 1924 osservando che, certo, ci furono violenze e un forte clima di intimidazione in molti seggi «ma non sono queste le ragioni che spiegano il successo della Lista nazionale fascista», la quale ottenne quasi il 65% dei suffragi. Utile precisazione.
Nel secondo dopoguerra il problema si ripresentò. Non potendo consentire – dopo il 1947 – l’ingresso dei comunisti al governo, i partiti laici e, successivamente, i socialisti furono «costretti» a partecipare a un governo quasi sempre a guida democristiana. Di qui «la formazione di un ceto di governo permanente, soggetto a periodici assestamenti interni – sono cinquanta i governi della Prima repubblica, più di uno all’anno – ma non il frutto di una scelta degli elettori tra programmi alternativi». Questa «la conseguenza della coazione a stare insieme di partiti che programmi alternativi pur li avrebbero avuti – a differenza dei notabili dell’Italia liberale – ma non potevano esprimerli attraverso una scelta di opposizione, per il rischio di far vincere il grande oppositore antisistema: le diversità programmatiche dovevano essere smussate attraverso continue mediazioni interne, che si riflettono nel vorticoso succedersi di governi espressi da una classe dirigente che è sempre la stessa». E se c’è un ceto di governo permanente «deve anche esistere un ceto di opposizione permanente: una situazione questa – la certezza che non si sarà mai chiamati a governare – che di sicuro non giova a un’evoluzione riformistica del partito di opposizione».
Salvati qui parla esplicitamente di «lesione dei principi democratici» provocata da questo stato di cose. Lesione che avrà come effetto «una sempre minore efficacia dell’azione dei governi». Debole capacità di governo che «si vedrà meno nella lunga fase dei governi centristi, tra il 1948 e il 1963, soprattutto per lo strapotere che la Dc esercitava nei confronti dei partiti minori». Forse un benefico effetto avrebbe potuto averlo la «buona» legge elettorale maggioritaria del 1953 che, però, non passò. Cosicché la Dc fu costretta ad allargare la maggioranza ai socialisti, i quali dalla metà degli anni Cinquanta andavano staccandosi dal Pci. Nel corso di questo tragitto ci fu, nel 1960, il governo guidato da Fernando Tambroni con i voti del Movimento sociale italiano, «tentativo fallito» specifica Salvati «in realtà non intensamente voluto» (interessante puntualizzazione). Fu poi la volta delle «convergenze parallele» e finalmente, nel 1963, del primo centro-sinistra organico con il Psi. All’area di maggioranza «si aggiungeva un grande e orgoglioso partito che arrivava al governo con un programma di riforme robusto: nulla di incompatibile con un’economia capitalistica, ma tale da preoccupare gran parte dei ceti dai quali la Dc traeva i suoi consensi». Con il tempo «il Psi venne a più miti consigli, scambiando il radicalismo delle riforme con un accesso sempre più ampio alle pratiche di lottizzazione». E, se si considera che da quel momento i sindacati ebbero un rapporto assai fluido con tutte le forze di governo e che i comunisti, i quali pure fino al 1976 rimasero fuori dalla stanza dei bottoni, furono «ben dentro» i luoghi in cui si decideva la destinazione delle risorse, si comprende come e da cosa ha avuto origine la lievitazione del debito pubblico.
In un libro molto denso e intelligente, Pensare l’Italia, Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone si soffermano su quegli anni con acute osservazioni. Galli della Loggia spiega bene le caratteristiche di tutto il secondo dopoguerra. Anni in cui «noi realizziamo la seconda, massiccia ondata di industrializzazione che ci rende un Paese definitivamente moderno», percorrendo contemporaneamente tre strade: quella della costruzione di un regime democratico, quella della progressiva messa a punto di un sistema di welfare state e, infine, quella dell’allargamento dell’apparato produttivo industriale. Il che ha voluto dire che «tra il 1945 e il 1968 noi abbiamo dovuto metter ai voti ogni cinque anni la nostra rivoluzione industriale» così che «il prezzo della modernizzazione italiana fu uno statalismo fuori misura».
Salvati definisce un «capolavoro politico» della Dc l’essere riuscita a tenere il Pci, «partito antisistema», fuori dalla maggioranza senza compromettere la natura democratica del sistema stesso. E tutto andò per il meglio nella stagione del centrismo. Ma, finita l’industrializzazione «facile» del primo dopoguerra, «le visioni di politica economica delle culture cattoliche, socialiste e comuniste non erano certo le più idonee a indirizzare un’economia di mercato che stava avviandosi a una complessità crescente».
Così da quando, dopo il 1953, iniziò l’opera di coinvolgimento del Partito socialista (che andò in porto dieci anni dopo, nel 1963) le cose cambiarono: era inevitabile «che, sia dal punto di vista ideologico, sia da quello programmatico, sia, e sempre di più, sul piano della spartizione del potere, i contrasti (e dunque le difficoltà) di governo aumentassero di molto». E qui una notazione importante: che «un Partito socialista collaborasse stabilmente con una Democrazia cristiana fu un fenomeno anomalo, foriero di conflitti e incoerenze politiche, che si giustificava solo per la presenza di un partito antisistema che doveva essere escluso dal governo: date le loro differenze ideologiche e i diversi interessi rappresentati, normalmente i socialisti e i democristiani costituivano in Europa i due poli dell’alternanza democratica. Nel lungo andare i conflitti ideologico-programmatici si attenuarono, certo; ma si inasprirono i conflitti di potere, aventi per oggetto la spartizione delle risorse pubbliche».
L’intera seconda parte della Prima repubblica – trent’anni, dal 1963 al 1993 – fu governata da governi di centro-sinistra con un più o meno esplicito coinvolgimento del Pci. E qui la tesi di Salvati – espressa per sua stessa ammissione «in modo apodittico» – è che in quella stagione «siamo entrati in una situazione di rallentamento economico più grave degli altri paesi europei a seguito delle scelte (e delle mancate scelte) delle classi dirigenti del centro-sinistra». Tesi che «non salva l’opposizione comunista, che è anzi l’elemento determinante di un sistema politico incapace di controllare le tensioni distributive di breve periodo e attuare le necessarie riforme strutturali». Discorso che, ovviamente, investe anche i governi della cosiddetta Seconda repubblica.
È vero che negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia tenne lo stesso ritmo del resto d’Europa (che, però, negli anni Cinquanta e Sessanta era stato maggiore). Ma questo è potuto accadere perché negli anni Settanta e Ottanta la nostra economia ha potuto godere di un sostegno fiscale straordinario, «quello, appunto, che nasceva dai disavanzi pubblici e diede origine al colossale debito che tuttora ci affligge». Svalutazione della lira e «sommerso», vale a dire evasione diffusa delle tasse nelle aree di maggior sviluppo, fecero il resto. Poi, però, quando si arrivò all’ora della verità, venne al pettine il nodo di cui si è detto, l’inidoneità delle visioni di politica economica riconducibili a Dc, Psi e Pci. Salvati è particolarmente severo con quelle della sinistra «dove, fino alla fine degli anni Ottanta, furono prevalenti orientamenti culturali difficilmente spendibili per un moderno riformismo». Discorso che vale in pieno per il Partito comunista, ma anche per quello socialista, il quale «ancorché staccatosi dall’alleanza con il Pci nei primi anni Sessanta, ci mise molto tempo ad acquisire orientamenti di socialismo liberale: bisognerà aspettare Craxi e la fine degli anni Settanta». Ma una volta acquisiti orientamenti più moderni «l’anomalia del sistema politico e le lotte di potere con i democristiani sulla spartizione delle risorse pubbliche impedirono al Psi di esercitare appieno la funzione modernizzatrice e liberale che avrebbe potuto avere».
Così i partiti di governo nella stagione del centro-sinistra «divisi al loro interno da conflitti ideologici di antica origine e da lotte di potere sempre più aspre, tallonati dai sindacati e dal Pci, furono incapaci non soltanto di prendere la posizione dura di De Gaulle (e più tardi della Thatcher), ma anche di avviare una concertazione costruttiva come avveniva in altre democrazie: il sindacato e, dietro di esso, il Pci, lo impedivano e bisognerà attendere la crisi finale della Prima repubblica affinché una concertazione efficace possa aver luogo [...]. Insomma, la concertazione efficace e il definitivo sradicamento dell’inflazione (in mezzo a sofferenze e contorsioni ideologiche di cui le dimissioni di Bruno Trentin, dopo aver sottoscritto l’accordo del 1992 sulla scala mobile, restano l’esempio più illuminante) avvennero con dieci anni o più di ritardo rispetto agli altri paesi europei». Salvati non esita a puntare l’indice contro «la prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento che ebbero un ruolo determinante nell’ostacolare la formulazione e l’esecuzione di politiche economiche efficaci». Dunque, per quel che riguarda la storia della Prima repubblica, all’epoca dei governi centristi «le classi dirigenti fecero, nella buona sostanza le scelte giuste e colsero le occasioni di sviluppo che ad esse si erano presentate»; mentre la cause del ristagno relativo vanno rintracciate nelle culture politiche che prevalsero nei trent’anni del centro-sinistra. Tesi originale in sé. Ma ancor più interessante se si considera che a proporla è il padre e inventore del Partito democratico, cioè la forza politica che raccoglie gli eredi di quella stagione.
Poi, gran parte delle riforme attuate dai primi governi della Seconda repubblica e soprattutto dagli ultimi due governi della Prima (quelli presieduti da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi) – sostiene Salvati – si sono mossi, pur con qualche errore, nella direzione giusta, quando hanno cercato di introdurre nel sistema gli elementi di liberalizzazione, di efficienza e di competizione necessari all’attuale fase economica mondiale. «Ma il problema di fondo» aggiunge «è che le riforme sono state calate in un contesto fortemente deteriorato.» E, come ha documentato Fabrizio Barca in Italia frenata, questo contesto ha provocato tante e tali resistenze che, passato l’effetto di tali governi, quasi tutto è tornato al punto di partenza.
Un libro a cura di Giuseppe Ciccarone, Maurizio Franzini ed Enrico Saltari, L’Italia possibile. Equità e crescita, ha sostenuto la tesi (di Mario Tronti) secondo la quale – in sintesi – una politica sindacale più aggressiva dopo la svalutazione del 1992-1996, e dunque una crescita più sostenuta dei salari e una minore possibilità di ricorrere al lavoro precario e a basso costo, avrebbero indotto le imprese a maggiori investimenti in innovazione. E, con ciò, avrebbero provocato una maggiore crescita sia della produttività sia della domanda interna e di conseguenza del reddito complessivo. Salvati risponde che «la tesi è interessante, l’argomentazione che la sostiene è ben costruita» e pur tuttavia «non è convincente né da un punto di vista economico, né da uno politico». La «colpa» del ristagno secondo lui va attribuita a squilibri di finanza pubblica accumulati nel passato, a un tessuto produttivo debole o, più in generale, a fattori reali d’offerta degenerati come conseguenza delle mancate riforme del «lungo centro-sinistra». Gli errori successivi («errori che sarebbero stati evitabili nelle condizioni di forza sindacale e di prevalenza politica di coalizioni pro-labour nella seconda parte degli anni Novanta») sono semmai una conseguenza di quella colpa.
Circola da tempo una visione nostalgica, un rimpianto diffuso per la Prima repubblica e per il centro-sinistra, alimentata soprattutto dall’insoddisfazione per la rissa politica e per i deludenti esiti economici della Seconda. «Insoddisfazione più che giustificata» chiosa Salvati «ma che non deve condurre a mitizzare una fase non felice della nostra vita pubblica e la politica economica in essa attuata; l’eredità di quella fase è stata molto pesante e contribuisce a spiegare gli stessi esiti deludenti del periodo successivo». Mai da uno studioso di sinistra erano state usate parole così aspre nei confronti della stagione che si aprì con il governo guidato da Aldo Moro e da Pietro Nenni nel dicembre del 1963.
La rivoluzione italiana e i suoi nemici
Tra la fine della Seconda guerra mondiale e il 1961, quando si celebrò il centenario dell’Unità d’Italia, gli studenti delle scuole secondarie nel nostro Paese raddoppiarono passando da 369.000 a 840.000 e crebbero a dismisura anche le iscrizioni all’università, in particolare alle facoltà di Lettere le quali offrivano una laurea che avrebbe garantito l’accesso all’insegnamento scolastico. Purtroppo, però, per ciò che riguarda la storia, quegli studenti furono costretti a frequentare una «scuola dell’oblio». In che senso? Alberto De Bernardi e Luigi Ganapini nel loro Storia dell’Italia unita, spiegano come, nell’imbarazzo di approfondire cause, responsabilità e corresponsabilità del regime mussoliniano, «le nuove élites politiche antifasciste sembrarono voler rinunciare a utilizzare l’insegnamento della storia come strumento per costruire legittimazione, consenso, identità collettiva attorno alla Repubblica democratica, come avevano fatto la classe dirigente liberale e quella fascista». Di conseguenza andò affermandosi un modo di insegnare la storia assai poco problematico che puntava «piuttosto sull’oblio che sulla presa di coscienza», dove imperavano le «ricostruzioni di comodo del passato».
Questo modo di insegnare la storia all’insegna della rimozione non fu modificato – se non in parte – dopo il 1961 e, anzi, si estese dal ventennio fascista a tutto il racconto di come era stata fatta l’Italia e di quali erano stati i problemi che il nostro Paese aveva dovuto affrontare nei suoi primi decenni di vita. Ciò spiega perché abbiano avuto grande successo di pubblico testi come il bestseller Terroni di Pino Aprile e il fortunato Il sangue del sud di Giordano Bruno Guerri, volumi impegnati a togliere il velo che ammantava gli aspetti più controversi della conquista dell’Italia meridionale. Così come altri che facevano la stessa operazione in merito al complicato rapporto tra il mondo cattolico e quello liberale o la drammatica transizione dal fascismo al postfascismo. Probabilmente è vero che non aggiungevano informazioni nuove rispetto a quelle già note agli specialisti della materia, ma questi libri di dissacrazione andavano incontro a un diffuso desiderio dei lettori di saperne di più in merito a questioni che la scuola e l’università avevano e hanno continuato ad affrontare in modi assai elusivi.
Si inserisce in questo filone anche 1861: Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile di Massimo Viglione, che da molti anni si occupa di questi temi. Il libro di Viglione è un utile manuale delle contestazioni al Risorgimento e ai primi decenni dell’Italia unita. Contestazioni non nuove, ripetute anche nel volumetto del cardinale (in pensione) Giacomo Biffi, L’Unità d’Italia. Centocinquant’anni 1861-2011. Il testo di Viglione è pieno, però, di riconoscimenti a storici di formazione molto diversa dalla sua. Il che si segnala come un gesto inedito e cavalleresco – al di là delle obiezioni che si possono muovere e che faremo anche in questa sede – atto a favorire un confronto civile.
Punto di partenza del libro è che «mai l’Italia fu amministrativamente e politicamente unita dalla preistoria al 1861 (anche nei secoli romani non si può parlare di “unità” nel senso moderno del concetto), ma sempre fu unita nella sua universalità». Ancora a metà del XIX secolo, quello che oggi è il nostro territorio nazionale «era sempre stato abitato non da un popolo etnicamente unitario, ma da un insieme di popolazioni, unite tra loro esclusivamente dall’elemento religioso e dalla memoria – più o meno pregnante – dell’eredità di Roma imperiale e della sua civiltà». Per mille e cinquecento anni, dalla fine dell’impero romano, aveva scritto Aldo Schiavone (Italiani senza Italia), la Chiesa «si...