
eBook - ePub
Nanga
Fra rispetto e pazienza come ho corteggiato la montagna che chiamavano assassina
- 420 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
Quella di Moro per il Nanga Parbat è una scintilla scoccata da ragazzino che con il passare degli anni è cresciuta fino a diventare una passione travolgente. Nell'estate del 2003 finalmente Moro può toccarne con mano le pareti, ma il suo tentativo di raggiungere la vetta fallisce. È l'inizio di un corteggiamento durato tredici anni, che l'autore racconta in questo libro avvincente ed emozionante. La storia di un'impresa d'amore.
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Informazioni
Print ISBN
9788817096836eBook ISBN
9788858689998(2015-2016)
37.
Innamorato di una montagna
Io e Tamara eravamo un’ottima cordata, questa era la certezza che mi ero portato a casa dal Manaslu. Mi venne perciò naturale pensare a lei quando cominciai a progettare il nuovo tentativo sul Nanga Parbat. Quelli precedenti compiuti con Denis e David non avevano affievolito in alcun modo la mia motivazione, così come la convinzione che il Nanga Parbat si potesse salire in inverno. Certo, il numero di tentativi a questa montagna parlavano chiaro: in trent’anni di sogni e desideri, tutti gli assalti erano stati respinti, e nessuno era mai riuscito ad arrivare sulla vetta.
Io non ricordo esattamente quando, di sicuro dopo il Manaslu, ma ci fu un momento nel quale realizzai in modo molto limpido che non volevo solo tornare sulla montagna nuda, ma che io di quella montagna mi ero proprio innamorato. E come può succedere tra le persone, nonostante l’avessi corteggiata tanto e fossi stato respinto malamente, non avevo ancora mollato la presa; anzi la passione e il desiderio nei suoi confronti erano cresciuti ancora di più. Non ero il solo amante sfortunato, però: fino ad allora il Nanga Parbat aveva respinto tutti, e questa era l’unica e misera consolazione. Per nulla scoraggiato, mi rimisi in azione per organizzare il mio terzo tentativo invernale che avrei fatto con Tamara.
Il progetto prevedeva di ritornare da dove avevo iniziato la mia storia con il Nanga, cioè il versante Diamir. Dopo essermi misurato con quest’ultimo e con il versante sud del Rupal, avevo messo sulla bilancia tutti i pro e i contro dell’uno e dell’altro lato della montagna, concludendo che il primo fosse più idoneo e abbordabile. Era indubbiamente avaro di sole, ma presentava 500 metri di dislivello in meno con difficoltà tecniche che potevano essere aggirate tentando una via che non fosse la Kinshofer, bensì la via Messner, la stessa tentata con Denis e percorsa fino a 6700 metri nel 2012.
Da innamorato del Nanga Parbat quale ormai ero, studiai con ancora più passione ogni singolo dettaglio e cercai di mettere in piedi una strategia diversa: non potevo ritornare sulla “mia” montagna senza apportare nulla di nuovo al progetto. E soprattutto non potevo replicare quello che trenta spedizioni prima della mia avevano già fatto, mettendo in campo lo stesso percorso, le stesse intenzioni, le stesse metodologie e le stesse tecniche. Dovevo fare qualcosa di diverso, perché forse era proprio nel cambiamento la potenziale chiave del successo.
Mi riproposi quindi di salire dalla via Messner, il che implicava l’apertura di una via nuova, perché i sudtirolesi nel 1991 e lo stesso Messner nel 2000, come ho già detto, non l’avevano completata, nemmeno d’estate. L’apertura della via aveva un suo grado di difficoltà, ma sapevo che dal punto di vista tecnico era minore rispetto alla via normale, tanto che nel 2012 con Denis non avevamo dovuto attrezzare nessuna sezione con le corde fisse. Saltare questo tipo di lavoro ci avrebbe permesso di risparmiare tempo prezioso e concentrarci solo sulle salite, senza sprecare le finestre di bel tempo in lavori di carpenteria... Sul Nanga Parbat, come su altri ottomila, il tempo andava sfruttato esclusivamente per salire velocemente, per cercare di fare il grande balzo verso la vetta. Questo ragionamento, che mi era ormai chiarissimo, motivò la strategia di compiere le fasi di acclimatamento su un’altra montagna, più facile anche se altissima. La scelta ricadde sullo Spantik (nota anche come Golden Peak, per i colori dorati di una sua parete quando è illuminata dal sole), una cima di 7027 metri, situata nella Nagar Valley, a qualche centinaio di chilometri dal Nanga Parbat.
Le novità non erano finite: oltre a tentare una montagna di 7000 metri prima del Nanga Parbat, a scegliere la via Messner e ad avere una ragazza come compagna di cordata, in quella spedizione avevamo deciso di portare gli sci, per essere più veloci nella fase di allenamento e acclimatamento. Ci aspettavamo ancora tanta neve e lo Spantik, tipica montagna da sci alpinistico, poteva essere salito e disceso più comodamente utilizzando questa attrezzatura.
Questa volta non eravamo in due soli, poiché la spedizione contava un terzo componente: Hansjörg Lunger, il papà di Tamara, che sarebbe stato con noi nelle prime fasi del viaggio. Quest’uomo meriterebbe da solo un libro, perché è un personaggio unico. Campione prima di mountain bike e poi di sci alpinismo, Hansjörg, classe 1964, aveva fatto parte della nazionale maschile nello stesso anno in cui Tamara, a ventitré anni, vinse il campionato mondiale di sci alpinismo: in pratica padre e figlia erano stati nella stessa squadra nazionale contemporaneamente! Nella sua carriera di sci alpinista aveva collezionato molte vittorie in gare di livello internazionale, fra cui la Pierra Menta e il Sellaronda, che sono per questa disciplina come le grandi classiche del ciclismo, pietre miliari nella carriera di uno sportivo. Con Tamara, proprio in Pakistan e in completa autonomia, avevano fatto una lunga traversata invernale che dalla regione del Shimshal, passando dal ghiacciaio Biafo, li aveva visti arrivare al ghiacciaio Baltoro in tre settimane, trainando ognuno la propria slitta. Un viaggio esplorativo fantastico, un’impresa che i due documentarono e narrarono grazie alle riprese di due cameraman uniti al gruppo che realizzarono il film di quell’avventura. Con quella prima spedizione nella catena del Karakorum, Hansjörg aveva portato a casa un altro grande risultato, e lo aveva fatto, con la sua tipica leggerezza e apparente normalità con sua figlia.
Il nuovo tentativo invernale al Nanga Parbat comprendeva quindi due spedizioni con logistiche completamente diverse: avremmo dovuto ingaggiare i portatori per andare allo Spantik e ritornare al punto di partenza, per poi spostarci con la jeep fino a Chilas, ingaggiare una nuova squadra e da lì ripartire per il trekking e arrivare al campo base del Nanga Parbat.
38.
La scelta del silenzio
Sulla nuova spedizione io e Tamara decidemmo che non ci sarebbe stata nessuna comunicazione, nessun aggiornamento, nessun sito internet dedicato. Era una bella novità, soprattutto per chi mi aveva seguito negli anni di viaggi e crescita alpinistica. Nelle mie precedenti esperienze avevo sempre cercato di narrare in modo autentico e continuativo tutte le fasi delle mie avventure. Ero sempre stato onesto e pulito fino in fondo e avevo sfruttato il potente strumento offerto da internet per comunicare i successi ma anche i fallimenti dei miei progetti e delle mie avventure. Questa voglia di raccontarmi è sempre stata una nota particolare del mio modo di agire, ma non ho mai asservito l’alpinismo alla comunicazione, come qualcuno a volte ha erroneamente sostenuto: ho sempre pensato prima a fare che a parlare, e non ritengo neppure necessario stendere ora l’elenco di quello che ho fatto per dimostrarlo. Ho insomma raccontato e scritto pagine di vita mia personale vissuta e non vicende altrui.
Nel tentativo del 2015-2016 non ci sarebbero state notizie e aggiornamenti da parte nostra né sullo Spantik, né tantomeno sul Nanga Parbat. Le sole notizie che sarebbero arrivate avrebbero riguardato tutte le altre spedizioni. Dico “tutte le altre” perché il loro numero, quell’inverno, fu davvero alto, un record per il Nanga.
L’ennesima decisione che condivisi con Tamara riguardo al nostro progetto fu la scelta del cuoco: sarebbe stato il mio lucky cook, il mitico Didar Ali, con il quale non mi era mai capitato nulla di brutto in tutte le spedizioni pakistane e con il quale Tamara aveva condiviso alcune settimane di spedizione quando aveva tentato il Broad Peak alcuni anni prima. Didar era un portafortuna umano al quale non potevo rinunciare, e poi era bravissimo ai fornelli e come nessun altro sapeva tenere alto il morale del gruppo, anche nei momenti più critici e difficili, come aveva dimostrato anche al versante Rupal di due anni prima.
39.
Pronti, via!
L’arrivo al campo base del Nanga Parbat era previsto per il 21 dicembre. Questa è la regola ferrea che mi sono sempre imposto, che ho rispettato in ogni occasione e che ripeto all’infinito: se una spedizione è invernale, l’obiettivo deve essere raggiunto dopo il 21 dicembre. Prima di quella data uno può fare quello che vuole, allenarsi, acclimatarsi, fare un viaggio, ma al campo base della montagna non si deve arrivare prima del giorno di inizio dell’inverno astronomico.
Il 7 dicembre atterrammo a Islamabad e due giorni dopo volavamo già a Skardu. Nella capitale pakistana avevamo sbrigato le solite pratiche burocratiche, ritirato il materiale spedito via cargo e messo a punto gli ultimi dettagli. Ci aspettava un impegno molto lungo e volevamo raggiungere il prima possibile lo Spantik. La sua cima non era un obiettivo tecnicamente estremo, ma presentava comunque molte difficoltà, considerando che in inverno nessuno aveva mai salito questa montagna. La nostra non era una semplice tappa di acclimatamento, ma sarebbe stata comunque una prima assoluta.
La scelta di utilizzare l’aereo di linea per arrivare a Skardu ci aveva evitato il budello stradale della Karakorum Highway e una lunga prova di resistenza e di nervi, perché, se è vero che quella strada ha un suo innegabile fascino, dopo due giorni percorsi a una velocità media di quaranta chilometri orari la bellezza dei luoghi lascia spesso il posto alla monotonia e alla stanchezza. La lunga serie di tornanti fu sostituita da un’ora di volo fantastico. Il viaggio fu tranquillo, ma la visibilità ridotta costrinse il velivolo a stare basso, seguendo una rotta all’interno delle valli, che ci permise di osservare bene le montagne “minori” ma non il Nanga.
A Skardu ci aspettava l’autobus che era partito ventiquattr’ore prima da Islamabad con tutto il nostro materiale stipato sul tetto. La differenza di temperatura rispetto alla capitale si fece subito sentire: era bastata un’ora scarsa di viaggio per proiettarci nel freddo delle montagne himalayane, nonostante la quota, intorno ai 2200 metri, fosse ancora bassa rispetto alle valli e alle cime attorno a noi.
Saremmo dovuti rimanere in quella cittadina solo una notte, invece fummo costretti a restarci quattro lunghissimi giorni: il primo preparammo tutti i materiali, scaricammo quelli arrivati con l’autobus e facemmo le ultime provviste di cibo, gli altri ci servirono per districarci tra mille imprevisti e problemi logistici, pratici, di sicurezza. Solo dopo questo periodo, che ci sembrò eterno, riuscimmo finalmente a partire per la nostra prima montagna.
40.
Bisil: ultima fermata
Il 12 dicembre eravamo a Bisil, l’ultimo villaggio della valle raggiungibile con i mezzi a motore, da dove saremmo partiti l’indomani a piedi per il campo base. Qui trovammo la metà dei portatori ingaggiati dall’agenzia di Ashraf Aman che, ancora una volta, si stava occupando della logistica del viaggio e di tutti gli aspetti formali e burocratici. I portatori del vicino villaggio di Arandu sarebbero arrivati in serata o la mattina seguente. Prendendo una parte di loro a Bisil e nel villaggio adiacente e un’altra parte in quello successivo di Arandu, avevamo rispettato una sorta di regola non scritta che offre a tutti le stesse possibilità di lavorare, anche a quelli che abitano oltre la strada già lungo il cammino.
Bisil è il classico villaggio rurale nel mezzo del nulla, in una delle tantissime valli remote del Pakistan. La sua fortuna è avere pozze naturali di acqua calda sulfurea che anche nella stagione più fredda permettono di trovare sollievo in un bel bagno caldo, di tenersi puliti, di lavare i panni sporchi evitando le gelide acque del fiume e infine ai bambini di giocare con qualcosa di salubre e che non congeli loro le mani.
Piazzammo il nostro campo proprio al termine della strada: montammo la tenda cucina e, mentre Didar si dava da fare ai fornelli, tirammo su il resto dell’accampamento. I portatori già presenti cominciarono a suddividersi i carichi che avrebbero trasportato. Tutto, insomma, sembrava filare liscio e veloce. Quelli di Arandu cominciarono ad arrivare in tarda serata, anche loro si presero una parte del materiale e insistettero per cominciare subito la marcia di avvicinamento che avrebbe avuto come prima tappa il loro villaggio. C’era qualcosa che non ci quadrava nel loro modo di fare, ma non ci fu verso di venirne a capo: neppure il nostro sirdar riuscì a capire subito le loro intenzioni.
L’indomani, quando già erano partiti, ci fu comunicato che il programma di avvicinamento era cambiato, ma di questo ci eravamo già accorti, e che le tariffe erano sensibilmente aumentate! Fu davvero una brutta sorpresa che ci lasciò interdetti. Come poteva essere accaduto? La tariffa dei portatori era stata pattuita tempo prima dall’agenzia e non era in alcun modo rinegoziabile. Essa comprendeva già tutti i surplus e aumenti previsti dalla stagione invernale. Per dirla in poche parole, il prezzo era già stato fissato, ma loro stavano provando ad alzarlo ancora. Avevano anche studiato tutto in maniera precisa: si erano presentati prima e avevano insistito per partire ipotizzando che una volta giunti a quel punto, con i mezzi a motore in procinto di rientrare a Chilas, non avremmo interrotto la spedizione e avremmo accettato qualsiasi condizione.
La richiesta che ci fecero era da capogiro: il quadruplo di quanto pattuito, che avrebbe pesato sul nostro budget iniziale di oltre ventimila euro. Senza contare il costo che avrebbe avuto il ritorno, tanto più che una volta al campo base saremmo stati praticamente in trappola e se avessero avanzato altre richieste e un prezzo ancora maggiore non avremmo avuto scampo: avremmo dovuto accettare per forza, se fossimo voluti tornare e andare al Nanga Parbat.
Ci arrabbiammo tantissimo, e oltre alla rabbia c’era anche la delusione da parte dell’intero team e dei portatori estranei a quella manovra. Il nostro sirdar non era riuscito a mediare e a far rispettare gli accordi presi, insomma avevamo una bella grana da risolvere. Io, Tamara e Hansjörg non eravamo però disposti a farci prendere in giro; se, inoltre, avessimo lasciato correre sul rispetto delle regole e degli accordi presi, se ci fossimo sottomessi a quel diktat, non avremmo neppure dato un buon segnale a coloro che operano in un settore che rappresenta l’unica industria turistica capace di dare sostentamento alle regioni settentrionali del Pakistan. Inoltre non potevamo permettercelo!
Se avessi dato retta all’evidenza, mi sarei dovuto arrendere. A quel punto, con i portatori già in marcia, tutto sembrava deciso. Invece no, mi intestardii e ordinai a tutti i portatori presenti di lasciare fermi i carichi e di non spostarsi da Bisil. A quel punto io, Tamara e Hansjörg partimmo di corsa all’inseguimento degli altri portatori. Eravamo molto in forma e li raggiungemmo in poco tempo ad Arandu; una volta sul posto affrontammo il problema con risolutezza. Nel tragitto ne avevamo discusso e la conclusione era stata unanime: non era giusto lasciare correre su quella che era anche una questione di lealtà e correttezza, tanto più che, a voler ignorare la questione etica, non avevamo altri soldi da spendere se non quelli preventivati per quella voce del budget e per la montagna dove avremmo svolto solo l’acclimatamento. La spedizione allo Spantik era cancellata! Questa la decisione che comunicammo ai portatori.
Il 14 dicembre li obbligammo a ritornare indietro con il nostro materiale, il giorno successivo eravamo già a Skardu. La prima fase preparatoria al Nanga Parbat si concluse così.
41.
La prima notte in tenda, finalmente!
Nei quindici giorni in cui eravamo stati in Pakistan avevamo solo impacchettato il materiale, preparato la logistica della spedizione, curato gli ultimi dettagli e ci eravamo entusiasmati per la partenza di una bella avventura che poi si era arenata. Ci eravamo trovati a risolvere mille problemi e il nostro vero obiettivo, ciò per cui eravamo tanto lontani da casa, ovvero scalare le montagne, sembrava sempre lontano, impegnati come eravamo a prendere nuove decisioni, ridefinire strategie e programmi, spostarci da una parte all’altra senza concludere niente.
Sfumato lo Spantik, anche la decisione di andare direttamente al Nanga Parbat si scontrò con un grande ostacolo: non avevamo ancora i permessi di scalata. Approfittando del mese di acclimatamento che avremmo passato altrove, la nostra agenzia aveva procrastinato il disbrigo di alcune pratiche, tra cui quella che riguardava i permessi. Scoprimmo quindi di non averli, e come noi anche tutte le altre spedizioni dirette sulla stessa montagna perché, come se non bastasse, il ministero del Turismo aveva deciso di rilasciarli in blocco per poter concentrare in poche occasioni i briefing con i capi spedizioni. Morale della favola: eravamo a Skardu e non avevamo il permesso per scalare il Nanga!
C’era molto nervosismo nell’aria, ma chi sembrava soffrire di più per tutti quei cambi di programma repentini e inaspettati era Tamara. A renderla ancora più inquieta era la scorta armata che ci era stata affiancata secondo una procedura di sicurezza diventata ormai regola dopo l’attentato in cui erano morti undici alpinisti. Sebbene fossero lì per proteggerci e si meritassero dunque tutta la nostra riconoscenza, a volte quei militari con i kalashnikov li sentivamo un po’ invadenti. Erano sempre con noi ovunque ci spostassimo, sia in jeep sia a piedi; non potevamo fare una corsa, tantomeno salire in montagna per restarci una notte senza mettere in moto un’organizzazione logistica più sfiancante della scalata stessa, senza contare che salire una montagna con un soldato armato era praticamente impossibile, non ce l’avrebbe fatta. Era una situazione che faceva ridere e al tempo stesso piangere. Insomma, ci sentivamo un po’ in trappola, bloccati come eravamo tra hotel, spostamenti e discussioni snervanti.
Risolte le questioni organizzative e burocratiche, dirottammo il periodo di allenamento e acclimatamento sulle montagne che sorgono attorno a Skardu, cime che arrivano a quote superiori ai 5000 metri e che avrebbero rappresentato un buon esercizio mentale e muscolare, per noi una vera e propria boccata di ossigeno dopo il blocco forzato.
In un’ora di jeep ci spostammo nel villaggio da cui saremmo partiti per le nostre salite. Sadpara, così si chiama, è un piccolo abitato conosciuto soprattutto per la diga il cui bacino alimenta tutta la...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Nanga
- UN DESIDERIO CHE CRESCE
- LA PRIMA VOLTA (2011-2012)
- LA SECONDA VOLTA (2013-2014)
- INTERMEZZO
- LA TERZA VOLTA (2015-2016)
- Backstage
- Indice