Anime pezzenti
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Anime pezzenti

  1. 294 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Anime pezzenti

Informazioni su questo libro

Le anime pezzenti sono quelle accolte e adottate nei sotterranei della chiesa del Purgatorio ad Arco, nel cuore di "quella che è una pazzia prima ancora d'essere una città". Troppo povere e dimenticate per meritare una sepoltura. Lì, ad accarezzare i suoi teschi, va Miranda, già bellissima attrice dal talento pari solo all'infelicità, oggi corpo sfatto che, assediato dagli incubi, cade ogni notte dal suo grande letto-altare. Invasa dalle voci dei defunti, uomini e donne celebri che, grazie a lei, tornano a esistere, Miranda è tutto - madre amorosa, strega irascibile, infermiera, suora di carità, sciantosa extralarge, adescatrice di fanciulle, truccatrice di cadaveri, ex soubrette barbona che esibisce le sue miserie in tivù - ma aspira al niente. Due uomini sulle sue tracce: Nunzio, ex pugile che con Miranda aveva vissuto una notte d'amore a Capri; e Presunto, ladro di anime specializzato in Soggetti Particolarmente Scabrosi da raccontare sul rotocalco "Banana Spider", che finirà per scoprire l'abisso che le divora il cuore.Misteri insondabili e rivelazioni che tolgono il fiato percorrono Anime pezzenti, il travolgente romanzo-reportage nel quale Giancarlo Dotto trasfigura il mondo condannato a dare spettacolo di sé - le anime fatue del cinema e della tivù - in una Babilonia di splendori, segreti, oscenità e bassezze. Al centro, l'indimenticabile ritratto di una donna che persegue la dissipazione di sé, del proprio corpo, della propria grandezza, senza perdere tuttavia - ed è forse la cosa più straziante - la scintilla che arde nel bui

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817095679
eBook ISBN
9788858691083

1

Cosa resta di una bellissima donna senza la sua dentiera?

«Dio, maledetto, ce l’hai con me… M’hai preso per il culo un’altra volta!»
Una bestemmia, ma forse era una preghiera. Fu la prima cosa che le uscì di bocca. Miranda si era risvegliata così, a terra, mezza nuda e ammaccata, nella coperta leopardata in cui si avvolgeva la notte per non farsi troppo male quando cadeva dal letto.
Le capitava spesso negli ultimi tempi. Si tastò la pancia, il collo e il seno. Si sentiva soffocare. Tutta quella carne addosso. Si massaggiò la gengiva gonfia. Non aveva la dentiera. Solo due monconi di ferro. Annusò il dito. Sapeva di sangue e di gas putrido. L’odore della vergogna. Di questo suo ostinarsi a vivere. Ascoltò al buio. Qualcuno cantava in lontananza, o forse era nella sua testa, uno di quei menestrelli dalla voce bianca che girano la notte sotto le finestre a consolare le vecchie donne che cadono dal letto. «Vorrei baciare i tuoi capelli neri, le labbra tue e gli occhi tuoi sereni…» Allungò le mani. Cercava la sua testa bionda separata dal corpo. Che poi era la stessa del sogno. Quella di Jayne Mansfield, rotolata dentro la sua camera da letto, dal finestrino aperto della Buick Electra e poi lungo la Highway 90 in Louisiana, la notte dell’incidente.
Trovò solo il Sony acceso che don Paolino, l’esorcista, le aveva affidato, da tenere sotto il letto per inchiodare la voce del probabile belzebù che la visitava di notte. Lo scaraventò via con il gemito strozzato della bestia che aspetta, al buio, il suo turno al macello. Piangeva, gemeva, chiamava aiuto, cercava aria, acqua, dimenticata in quel sottoscala fatiscente che una volta era stato la sua casa e adesso, da troppo tempo, il suo inferno.
Cadeva quasi ogni notte dal letto. Come quando era bambina. Colpa degli incubi. Ma anche delle tette troppo grandi che continuavano a crescere giorno dopo giorno. Un guaio serio. Quando camminava cadeva in avanti, se stava sdraiata, la spingevano a terra.
Era diventata vecchia di colpo, un giorno, senza aver mai smesso di essere bambina. Dopo essere stata, senza mai saperlo, una bellissima donna, bella che non si può dire. Quelle dive che Dio le benedica, da mozzare il fiato. Tutta curve fuori, tenebra dentro. Decine di cicatrici, ma tu non vedi altro che sporgenze da palpare e capezzoli da ciucciare. E poi, un giorno, quando meno te lo aspetti, sei proprio tu, l’arrapante donna del secolo, la copertina di “Playmen”, la stessa che ora si sfila la dentiera allo specchio e la fa scivolare in un bicchiere d’acqua, improvvisamente centenaria, bastonata giorno e notte da una dozzina di sadici che non perdonano le belle donne quando diventano vecchie. E lo specchio, infame, che t’insegue anche sotto le coperte.
Non la smetteva d’imprecare anche ora che la bocca era chiusa a riccio per la vergogna, come fanno le piccole testarde quando qualcosa le spaventa. Era lei ora che faceva spavento. Scappi lontano. Anche se ti chiami Dio. Soprattutto, se ti chiami Dio. Si cercò nella pancia le ferite della baionetta che le avevano appena conficcato addosso. Trovò solo una quantità odiosa di carne. Miliardi di molecole che non ce la facevano più a stare insieme.
La prima ad arrivare fu la portinaia. Cesira, detta «la sciancata» da chi le vuole male, cioè tutti, seguita dai figli gemelli, due balordi grassoni, la stessa faccia tra l’ebete e il porcino su cui potevi stampare indifferentemente fantasiose ingiurie e rari atti d’amore. Sfondarono la porta, che poi non c’era bisogno di sfondarla, perché la serratura era guasta da giorni e lei se ne fregava delle serrature guaste. Magari fosse entrato Jack lo Squartatore.
Un minimo di luce filtrava dalle persiane socchiuse. Stramazzata a terra, tra la coperta e l’avanzo della moquette turchese lercia di umido e di vomito familiare, che lei aveva sistemato a bordo letto per attutire i colpi delle cadute, Miranda, ma loro la conoscevano come Immacolata «la strega», sembrava ora svenuta. Si trattava, in realtà, di catalessi. Una forma di autodifesa. Erano i suoi neuroni che la proteggevano, quando quello che vedeva e toccava intorno a sé diventava insostenibile, che fosse terrore o godimento. I tre la guardavano schifati. Senza un briciolo di pietà. Una massa informe di pallido lardo con le due poppe extra e un culo da farci la mappa del mondo dopo Hiroshima, oltre che una zattera comoda per l’inferno. La faccia gonfia, incorniciata da una parrucca color pannocchia, che si teneva anche la notte per spaventare e mettere in fuga la gentaccia quasi sempre armata che le veniva addosso, con tutto il seguito di teste mozzate e teschi con il velo da sposa.
Miranda. Quello schianto di donna per cui sbavavano a milioni un tempo, davanti alla televisione, al cinema, nelle prime file dei teatri e nelle caserme, ridotta a questa cosa qui. Una vacca inanimata, che però conservava qualcosa di vagamente sacro, non certo agli occhi della portinaia e dei suoi due puzzoni usciti in massa dal suo ventre, a disgustare il mondo.
Se ne stava supina. Un filo di bava le colava dalla bocca schiusa, vai a saperlo se estasi o dolore, forse la stessa cosa, dentro il suo pigiamone rosa extralarge, ma senza la parte di sopra, rannicchiata come un feto gigante dentro la pancia di una madre immaginaria, a digrignare i denti che non aveva, il crocifisso di legno che se ne stava soffocato tra il peccato e le due mammelle giganti schiacciate su quel pelo lurido, e avanzi di salmone, chiazze acide di prosecco, crocchette di carne e cacchette di cane. E Marlon Brando che le alitava addosso. Il suo fetente barboncino bianco, grande come una borsetta da signora. Che le si strusciava contro con la zampa perché voleva andare a pisciare libero con il suo unico testicolo sulla tomba di Claretta Petacci, nel suo parco giochi preferito, per via delle tante ossa sepolte, il cimitero della città.
Era caduta dal letto. Buttata giù dal solito brutto sogno. Botte anomale di calore. Sta di fatto che precipitava. Almeno tre o quattro volte al mese. Come le creature che non hanno ancora preso le misure dello stare al mondo e soffrono di vertigini a qualunque quota che non sia quella della madre che li allatta. Da quel letto circolare a tre piazze dove se ne stava giorno e notte, avvoltolata come una salama nella coperta leopardata, dalla testa ai piedi, come a voler rientrare nel ventre materno, accucciata e confusa tra pile di cuscini arancio psichedelico, guanti da chirurgo, collari antipulci, bottiglie semivuote di aranciata “zero”, il portacicche argentato, lavande vaginali, una lampada da campeggio e un misuratore della pressione. La televisione accesa sulle previsioni del tempo. Vento freddo dalla Siberia.
A svegliarla del tutto ci si misero i tre ceffi con una pezza fredda e qualche brutale carezza, nel dubbio, che non sapevi mai fino all’ultimo quanto fosse viva o morta quella immonda donnaccia, per via dell’occhio sinistro che, come succede ai pesci più impressionabili, le restava spalancato sull’ultimo flash di orrore.
Immacolata, così si faceva chiamare da che aveva lasciato le scene e cambiato vita oltre che faccia e città, cadeva dal letto quando l’incubo le toglieva il respiro. Da un po’ di tempo capitava troppo spesso e Cesira, la portinaia, non ne poteva più di chiamare l’unità di soccorso psichiatrico («Sì, ancora lei, sempre lei, la pazza, mi raccomando gli infermieri, due belli grossi, che uno da solo non ce la fa…»). E di sentirla bestemmiare. La notte avanti aveva urlato cose sconnesse fino all’alba. Ogni volta, prima di addormentarsi stremata, si faceva il segno della croce e implorava Dio: «Portami via con te, ti prego, fa che domani non mi sveglio». Si era svegliata, invece, anche questa volta. Sul brutto muso di Cesira e delle due pantegane gemelle incastrate in una salopette extralarge.
Era tornata nella sua città adottiva, Miranda, dove abitano solo pazzoidi, teatranti e filosofi. L’ideale per far perdere le tracce di sé. Lì tutti la conoscevano come Immacolata, che era poi il suo vero nome. Imposto a suo tempo da nonna Concetta. Una delle donne più bigotte mai apparse sul pianeta. L’avevano dimenticata abbastanza in fretta. Non tutti. Gli esattori, loro si ricordavano di lei. Non pagava l’affitto e il condominio da mesi. La minacciavano di sfratto. Intanto, le avevano staccato la luce e, di lì a poco, le avrebbero sigillato anche il gas. «Vi darò fuoco, a voi e al palazzo intero!» aveva urlato l’ultima volta.
Cesira la guardò con disprezzo. Trascinò la sua gamba balenga alla finestra per fare un po’ di luce in quel caos. Spruzzò in aria cinque o sei getti di deodorante spray. I due bombardoni adesso concentrati a spartirsi un avanzo mangiucchiato di torta alle fragole, decisi com’erano dalla nascita a conciliarsi con il loro destino di suicidi diabetici.
Con tutto lo schifo del caso, le sfilarono i pantaloni del pigiama per trascinarla sotto la doccia, mentre lei farneticava incomprensibile, con una voce che non sembrava la sua, di trincee, di baionette e filo spinato, di eroi che combattevano nel fango, di lettere finite tra mare e cielo, di braccia, di gambe e di teste mozzate, di mammelle sforbiciate e di un teschio con il velo da sposa che, Dio santo, bisognava pulire dalla fuliggine prima che diventasse cenere e il vento se lo portasse via, in Madagascar.
Immacolata aveva uno spazzolino da denti infilato a metà nella vulva. Cesira trasalì, più scandalizzata e sciancata che mai. Non la prese per un’ossessione igienica. Quello che vide era troppo anche per una megera del suo stampo, una, per capirci, che nel dopoguerra aiutava le ragazze ad abortire nella cantina della portineria in cambio di un coniglio o di un pezzo di parmigiano.
Improvvisando un farfugliato «Padre nostro che sei nei cieli», la portinaia velò con le mani gli occhi dei due gemelli, che non si erano accorti di niente, intenti com’erano a sbafare lo sbafabile, mentre lei, Immacolata o Miranda che dir si voglia, tornata definitivamente al mondo, prese per il bavero la portinaia e, con tutta la voce e l’alito marcio che le uscivano da quella gengiva bacata, le chiese: «Dimmi la verità, è vero che l’inferno è vuoto, puzza e non c’è amore?», e, non avendo ottenuto risposta ma solo disprezzo, prese a cantarle in faccia, neomelodica, a pieno mantice: «Sto solo cercando disperatamente amore!…».

2

Come si diventa un ladro di anime?

Mi chiamo Presunto e sono un ladro di anime. Mi pagano per questo. Quanto basta per la mia spartana esistenza e quella molto meno spartana di Love Tempesta, il mio fotografo di fiducia, oltre che una mia inspiegabile debolezza. Un bahiano vacuo e borioso finito non si sa come sulle coste della Gallura e da lì poi migrato sulle spiagge della Romagna, sull’Adriatico, per l’inerzia che lui chiamava amore, ma era di sicuro la traccia di qualche culo parlante. Dove, prima o poi, arrangiandosi da negro da spiaggia a piazzare occhiali farlocchi e qualunque altra patacca, scopre l’unica dote che non immaginava di avere, uno sguardo infallibile. Un cecchino animale, voglio dire, un genio nel fotografare l’invisibile.
Lavoro in esclusiva da dodici anni e otto mesi per “Banana Spider”, un periodico popolare in bianco e nero distribuito in abbonamento, che pubblica solo anime in esclusiva per un pubblico morboso che, non vivendo una vita propria, si accontenta di vivere quelle altrui, purché il non lieto fine sia garantito.
Duemila euro netti ad anima, che diventano quattromila nel caso piuttosto raro di SPS, Soggetti Particolarmente Scabrosi. Celebrità schizzate, meglio se donne anziane finite in disgrazia, ex dive in disarmo, bellezze ridotte a casi umani, orrori chirurgici, malinconie insanabili, ma anche malati terminali, ex avventurieri, gigolò e rubacuori in rovina, meglio se infartati più volte, ripresi per i capelli, spaventati a morte, assediati nei loro bunker dal tempo che passa e dimenticati dalla gente, tutti quelli finiti in quella zona d’ombra del «saranno vivi o morti?», inclusi criminali pentiti, meglio ancora se con trascorsi assassini o nazisti. Se interessanti, non disdegniamo figli aspiranti celebri di genitori celebri, con qualche comprovabile aspirazione al suicidio o quantomeno alla malinconia cronica, meglio ancora se con fantasie omicide, Dio voglia realizzate, per via del modello paterno o materno che li schiaccia e li fa sentire fino a che stanno al mondo degli aborti, patetiche disgrazie che arrancano nell’impresa impossibile di somigliare a chi li ha generati.
Ecco come funziona. Accettato il compenso, il Soggetto normalmente o particolarmente scabroso firma con l’editore un contratto che lo impegna a non parlare e a non farsi fotografare pubblicamente con altri cacciatori di anime per almeno dieci anni. A questo punto tocca a noi, Presunto e Love Tempesta. Lo raggiungiamo nella sua tana, casa, ufficio, alcova, in capo al mondo, il posto che lo fa stare meglio con se stesso. Dove, come dice Love, gli verrebbe naturale liberare una maleodorante scoreggia senza per questo sentirsi una canaglia. Tanto per dire, la bellissima Jane Alexander l’abbiamo sviscerata ben bene in un parco romano, dove lei andava quasi tutti i giorni a farsi ipnotizzare dalla sua giostra preferita di cavalli a dondolo stile viennese. Tinto Brass, facile, sul set del suo ultimo film a luci rosse, mentre la protagonista di turno dalle grandi natiche color latte aspettava da ore su un grande letto bianco di farsi sculacciare da un borgataro tatuato, dopo aver fatto la prova generale con le manacce esperte di quel genio di Tinto, che tastava e testava qualunque carne prima di filmarla.
Io arrivo con il mio gioiello digitale, due a scanso di incidenti, Love con la sua attrezzatura fotografica. A quel punto, il cliente non ha scampo. Io, Presunto, ci so fare nel genere “ladro di anime”. Se non sono il migliore, poco ci manca. Una specie di talento naturale, sviluppato forse negli anni dell’infanzia, quando, da balbuziente grave, preferivo tacere e osservare il mondo, soprattutto le donne che spettegolavano in cucina mentre spianavano la pasta, le beghine biascicanti a messa e i preti sull’altare che si raccomandavano l’anima a Dio dopo averne mangiato il corpo e bevuto il sangue.
M’insinuo come un cobra nella casa del Soggetto di turno con la mia faccia da bravo seminarista, sorrido quel minimo, come fanno i timidi e i delinquenti per fare breccia nei muri e, dopo cinque minuti, massimo dieci, sono una mano calda che gli massaggia le tempie. Accendo il registratore ed è fatta. Mi firmano in bianco le loro vite. Li faccio parlare, mentre Love Tempesta mitraglia a più non posso con la sua Nikon da ogni angolo. Una pantera. Nessuna foto posata. Loro parlano e io non fingo di ascoltarli. Per me sono prede con un’anima in libera uscita. Non devi perderle di vista un secondo. Devono saperlo che il tuo sguardo le inchioda. Mentre la fregola di raccontarsi non lascia scampo, le svuota d’ogni difesa e me le consegna nude, inermi, a gambe larghe come vacche gravide e spudorate.
«Di questo non voglio proprio parlare, su tizio o caio non ci provi neppure a farmi domande, tanto non rispondo.» Mettono le mani avanti, i più fessacchiotti. Qualche volta a brutto muso. È un loro vezzo. Il segreto è lasciarli fare. Dicono di non volerne parlare, ma muoiono dalla smania di farlo. Chi non vede l’ora in questo mondo arido di sbendarsi e mostrare al primo che capita la carne viva delle proprie ustioni? Io li assecondo. «Hai fatto bene a dirmelo, fratello, non farò altro che rispettare la tua sensibilità.» Li rassicuro, ma dopo dieci minuti sono lì, sparati dal cannone della loro vanità, che mi parlano di tutto, delle loro vite presunte, del tizio e del caio, soprattutto di chi non volevano nemmeno sentire il nome. E sapete una cosa? Quando iniziano, il problema è fermarli.
Li ascolto e li osservo. Mentre scavano con le loro zampette, topolini morbosi, nel marasma delle loro vite immaginarie, che godono dal buco nero finalmente ascoltato della loro presunta anima, a seconda dell’umore killer o cameratesco, eccomi eccitato o commosso. In quel caso, quando l’emozione è al massimo, mi capita di starnutire. Due o tre volte. Come Mangiafuoco, un altro celebre ipersensibile. Si tratta di una reazione chimica che smuove i capillari del naso, mi spiegò a suo tempo un allergologo. Loro non lo sanno, ma il mio starnuto è il suono della loro disfatta.
Sono fatto così. Mi esalto quando mi si parano davanti queste creature innocenti, convinte di avere una vita da raccontare. Una volta che li ho in pugno, non li mollo, li avvolgo prima nella carta moschicida del silenzio complice e poi affondo, qua e là, non avendo l’occhio ceruleo, con sapienti colpi della mia voce velluto da stronzo radiofonico, stile Nando Gazzolo, prestato a un confessionale malandrino forse, ma direi con qualche aspetto non secondario di ammaliante umanità.
Li faccio diventare tutti, donne e uomini dentro i loro abiti di scena, un enorme orifizio in cui infilo il mio guanto da predatore. Mi prendo le loro delicate anime, in fondo a quel buco cavernoso. Quello che credono di essere e quello che non sanno di essere.
In tutti questi anni ho trattato e consegnato al giornale che mi paga 272 soggetti, tra donne e uomini, di cui 35 SPS. Finito il lavoro, mi disfo delle anime e conservo le voci per la mia collezione. Un giorno le userò per costruire uno spettacolo e sarà, per gli androidi del Tremila ancora disturbati qua e là da qualche rigurgito di umanità, la storia meravigliosa di cosa voglia dire essere stati carnalmente al mondo in assenza di qualunque Dio. La più grande tragedia da Eschilo ai giorni nostri. Ma anche la più grande farsa. Le monterò una a una, quelle voci, le mischierò e le farò suonare, le costringerò a raccontare cose che senza di me non avrebbero mai raccontato nemmeno a se stessi. Sarà il rumore di quel magnifico lager che è la vita e ci metterò dentro, nello sfondo, anche i versi di qualche uccello canterino, passeri e usignoli, e magari qua e là un’arpa gentile per raccontare di come ci si confonde all’inferno.
Ne ho fatti di colpi, modestia a parte. Carmelo Bene, uno che già a vent’anni era un SPS, registrato e fotografato mentre piangeva la morte del suo gatto e quella notte poi che rischiò di morire nel sonno dentro i velluti oppiacei della sua Citroën Pallas beige e non lo seppe mai, quando io, al volante, mi addormentai di colpo e mi svegliai a due millimetri dall’abisso. E Sandra Milo. Anche lei si assopiva come una creatura accanto a me che guidavo, fiduciosa, solo perché ero il sosia di Bettino Craxi, dopo avermi raccontato del marito che la picchiava a sangue e di Fellini, che non stava nella pelle e l’aspettava ogni volta eccitato, in cima alle scale di casa, il suo giocattolo preferito. Erich Priebke, il nazista ex cameriere campato cento anni, che aveva perso l’olfatto e non poteva sentire la propria puzza, per questo s’inondava ogni mattina di lavanda, e si torturava a sangue con una spazzola di ferro per liberarsi delle cellule morte e dei rimorsi che non credeva di avere. Tanti altri. Il Mago Silvan, l’illusionista veneziano, uno che, solo grazie a me, al mio racconto, da SNS, Soggetto Normalmente Scabroso, era diventato un SPS, senza mai per questo mostrarmi un br...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Personaggi
  4. 1. Cosa resta di una bellissima donna senza la sua dentiera?
  5. 2. Come si diventa un ladro di anime?
  6. 3. Una battaglia persa
  7. 4. Non tutte le anime sono facili da rubare
  8. 5. Che fine ha fatto Miranda?
  9. 6. Nunzio, una faccia da cinema
  10. 7. Che succede a un ladro che ruba anime quando gli rubano l’anima?
  11. 8. Miranda ora si fa chiamare Immacolata e non vuole saperne di uomini
  12. 9. Nunzio e Presunto si raccontano cose che già si sono raccontati
  13. 10. Presunto e Love Tempesta a casa della strega
  14. 11. La divina pupazza e la ventriloqua
  15. 12. Isabella sfila per Miranda
  16. 13. Seppellire i morti
  17. 14. Le grandiose peripezie del dolore
  18. 15. Miranda minaccia Presunto
  19. 16. Quando la tentazione è una cattiva cosa
  20. 17. Miranda ama Presunto, ma lui teme di spaccarle il femore
  21. 18. Miranda confessa l’inconfessabile
  22. 19. La monaca consola i malati, trucca i morti e fa ballare i vivi
  23. 20. Non devi mai tradire Miranda
  24. 21. In barca con Nunzio
  25. 22. Marlon Brando e Love Tempesta se la vedono brutta
  26. 23. Anime pezzenti
  27. 24. Uomini turpi
  28. 25. Miranda cade ancora dal letto e chiede scusa al mondo intero
  29. 26. Nunzio non ce la fa più a respirare
  30. 27. Questa volta Miranda sembra sparita davvero
  31. 28. Insieme, là dove finisce la luce
  32. 29. Niente più anime da rubare
  33. 30. Finisce qui
  34. 31. Presunto ha una storia da scrivere
  35. In fine
  36. Indice