IV
Nel nuovo clima di relazioni internazionali per la rinascita dell’economia del Paese, per togliere la cappa di isolazionismo in cui si era messo, per nascondere le proprie miserie e sognare di incutere nuova paura all’America con la quale era necessario esibire i muscoli ma mai fare a pugni, anche la Chiesa russa si muoveva, non solo per mostrare che esisteva e che non era affatto stata cancellata, ma anche per sprigionare la propria vitalità risorta.
Un parallelismo di comportamenti che faceva già sospettare un connubio tra Chiesa e Stato nella nuova stagione del comunismo debole.
Un’ideologia annacquata per mostrarsi aperta a convivere con gli altri Paesi e non più ad assoggettarli, e per far vedere che uno Stato centrale forte non era incompatibile con il libero mercato proprio del capitalismo.
La Chiesa russa aveva aperto a Roma, centro della religione cristiana, l’Istituto per gli studi della tradizione della Chiesa cristiana russo-ortodossa.
Il clima internazionale era tutto rivolto alle aperture, alle collaborazioni, agli scambi: dalle merci alla cultura e alle tradizioni. Un piano in netto contrasto con il clima di sospetto che aveva caratterizzato i Paesi chiusi nei due blocchi, con il periodo delle grandi agenzie di spionaggio e controspionaggio e delle operazioni violente nascoste e sotterranee.
Storie che adesso servivano alla letteratura, alla nuova cinematografia, alla televisione ricca in canali e in programmi che provenivano da oltre i confini, che non avevano più nulla della cortina di ferro.
Nell’àmbito delle Chiese si era ripresentato il tema dell’unione dei cristiani: un filone che di tanto in tanto scompariva dalla storia ma poi riappariva.
Questa volta però il piano era tracciato con la forza del sogno e la precisione delle grandi strategie: unione dei cristiani prima, delle religioni monoteistiche poi, per finire con il cammino verso il rispetto reciproco di tutti i credo della terra.
In questo quadro e in questo clima nasce l’Istituto per gli studi della tradizione della Chiesa cristiana russo-ortodossa.
A Roma è inviato anche Pëtr Rosanov che aveva avuto un ruolo di rilievo in quei primi anni della liberazione della Chiesa russa.
Non era stato vano nemmeno quel gesto di apertura della porta della chiesa del monastero di cui ovviamente si parlò, ma ancora più sostanziali erano gli studi a cui si era dedicato sui movimenti più significativi del monachesimo orientale, soprattutto nei secoli del cristianesimo, quando non si parlava di divisione.
Si era dedicato alle opere di Niceforo il Solitario di cui era ormai l’interprete più autorevole.
Un esempio di quello spirito straordinario che non poggia sul razionalismo, che è più tipico dell’Occidente, ma sulla mistica, sull’esperienza con la divinità: una dimensione di cui aveva bisogno oggi il cristianesimo, in una società che non è più entusiasta della ragione, dal momento che aveva portato agli orrori non solo della guerra, ma agli odî di religione.
Anche il nome, Niceforo il Solitario, doveva avere esercitato un grande fascino su di lui e ciò risale a quando Pëtr Rosanov era solo, in quel monastero in cui tutto sembrava finire e i vecchi monaci portavano in giro, e lentamente, il proprio corpo, in attesa di lasciarlo su questa terra e salire in paradiso, leggeri e senza acciacchi.
Niceforo il Solitario era un monaco bizantino vissuto tra il XIII e XIV secolo e la biblioteca ne era ricca di riferimenti, anche se non aveva lasciato molti scritti.
Il suo Trattato della sobrietà e della custodia del cuore era un vero capolavoro e giustamente era stato incluso nel 1782 nella Filocalia di Macario di Corinto e Nicodemo Aghiorita, una raccolta di testi e di autori che nel giro di mille anni (dal IV al XIV secolo) avevano dato un profilo netto al monachesimo e alla mistica orientali.
Niceforo il Solitario era l’autore preferito di Pëtr Rosanov, quello in cui si identificava, il suo modello.
Nella spiritualità orientale non si pensava di seguire Cristo, sarebbe stato peccare di superbia, compiere lo stesso errore che Satana aveva commesso nei confronti di Dio, pensando di poterlo eguagliare.
Era, invece, regola poter avere per riferimento la vita realizzata da un uomo, e Pëtr non aveva dubbio nella scelta: Niceforo il Solitario.
Di origine calabrese, si era recato sul monte Athos e qui aveva trascorso la sua vita cercando la pace, l’esichia. Sapeva che di fronte alla turbolenza degli avvenimenti della storia, la pace occorre cercarla nel mondo interiore, dentro di noi, non in quello che ci assedia, fuori di noi. Le sue scelte e il monastero esprimevano la via per uscire dall’inferno della storia, della terra e dirigersi verso il cielo che si ritrova dentro il cuore, come simbolo dell’interiorità.
«Venite e vi spiegherò la scienza della vita eterna, della vita celeste che conduce colui che la pratica al porto della impassibilità...»
Un padre della pace interiore, dunque, che si occupa di ciò che è dentro di noi, ed è qui che già si trova il cielo: il cielo nel cuore.
Di fronte alla tragedia della storia è possibile la felicità interiore, l’eschaton.
Raccomandava Niceforo, detto anche l’esicasta: «Se dunque vuoi riportare vittoria contro le passioni, rientra in te stesso mediante la preghiera e la sinergia di Dio e, immergendoti nelle profondità del cuore, rintraccia questi tre potenti giganti: l’oblio, la noncuranza e l’ignoranza».
Niceforo era diventato l’amico della fantasia di Pëtr Rosanov, il suo stesso mondo che si contrapponeva a quello che si stava esaurendo per la proibizione dei rivoluzionari di dedicarsi al cielo, a cui il monachesimo era diretto. E così si trovava assieme anche a Macario, a Nilo d’Ancira, a Diadoco di Fotica, a Doroteo di Gaza, Elia Ekdikos, Piero Damasceno, Luca Adialeiptos, Melezio Gelosita, Isacco il Siro.
«Abbi fretta di entrare nel tesoro del tuo intimo e vedrai il tesoro celeste, giacché l’uno e l’altro sono una cosa sola... La scala di quel regno è nascosta nel tuo intimo.»
Il cielo dentro il cuore.
«Il cielo, cioè la presenza di Dio e della felicità, non si trovano al di là delle nuvole, ma nel cuore, qui e adesso»: questa era la sentenza che Pëtr si era segnato sul suo libro di vita che era un riassunto, una copia del Trattato della sobrietà e della custodia del cuore di Niceforo il Solitario.
Pensando a lui come a un maestro, Pëtr Rosanov si sedeva per terra, reclinava il capo appoggiando la barba al petto, rallentava il respiro sul quale concentrava il pensiero, calmava l’immaginazione e il vagare delle sensazioni, pronunciava sul ritmo del respiro e dunque lentamente e sempre più lentamente: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me». Ed entrava tutto nel cuore trovando un frammento di paradiso.
E fuggendo dalla vita, simile a una tempesta che si scatena su un lago e che incute solo paura.
La gioia dell’esicasta è vedere con la luce del sole e sulla superficie dell’acqua il profilo delle montagne e il colore del cielo.
Il sole è Dio stesso che senza tempesta si può rispecchiare e lo si ritrova nel proprio cuore. C’è, ma se la tempesta si scatena o non viene sedata, è come non ci fosse.
«L’uomo nella sua esistenza è privato della gioia, perché la vita è piena di tribolazioni, di dolori, di fatiche, e non c’è mai sollievo» scrive Pietro Damasceno.
La vita dell’uomo è la notte in cui ci si smarrisce, non si vede nulla, come se esistesse solo paura. La vita ascetica è lo sforzo di fare luce e portarci dalla tempesta della notte alla vita tranquilla, all’esichia.
La cella serve a cancellare il mondo della notte per ritrovare dentro di sé, nel proprio cuore, la luce, il mondo dei significati che riportano a Dio e non lo ancorano all’uomo fatto di tenebre e innamorato delle tenebre.
Nella cella c’è Dio, fuori della cella le tenebre: ecco l’insegnamento di Niceforo il Solitario, ecco la regola che Pëtr Rosanov aveva fatta propria.
In Niceforo c’è tutta la saggezza che si radica nel mondo orientale, nella sua cultura, nella visione del mondo e soprattutto nella considerazione della morte. Non come un giudizio freddo da tribunale, in cui si contano i peccati, si valutano le attenuanti generiche e specifiche e ne esce la condanna, l’assoluzione oppure il purgatorio come fase di transizione che ricorda gli arresti domiciliari.
Se il Dio del giudizio cristiano d’Occidente è sostituibile da una macchinetta contabile, quello della Chiesa orientale russa si fonda su un grande bisogno di misericordia e di perdono, che sa persino di dolcezza. La colpa si pone come provocazione all’amore che, dunque, permette di dare alla fragilità e persino al peccato un tono di relazione speciale con il Signore che non si interrompe mai. L’uomo rimane figlio di Dio e quindi a lui legato, indipendentemente dall’aver commesso uno sbaglio. Un legame che deve aiutare alla comprensione dell’errore e non sbattere fuori casa il peccatore. Un Dio capace di educare, più comprensibile, non appunto un freddo giudice, schiavo di leggi da lui stesso emanate.
Differenze nette che però venivano ora viste nell’integrazione e non come sostanza di lotta e di separazione.
Proprio questo era il clima che caratterizzava le due teologie nella nuova prospettiva dei fratelli delle Chiese cristiane. Non più teologie contrapposte e dunque l’una piena di errori agli occhi dell’altra, ma tasselli per dare al volto di Cristo e in particolare alla sua missione sulla terra, una definizione più completa e più affascinante per i credenti e per quanti non credevano ancora.
Il papa di Roma, che certo sarebbe stato meglio chiamare il patriarca di Roma, si era incontrato con quello di Costantinopoli e di Atene, di Mosca e si erano abbracciati contemporaneamente e in quell’icona si vedeva un nuovo Cristo e finalmente il sorriso del Dio cristiano.
Pëtr Rosanov era per l’unione e per raggiungerla attraverso l’amore. Quando partì da Mosca con l’incarico di insegnare teologia nell’Istituto della Chiesa cristiana russo-ortodossa di Roma, era caricato di grande entusiasmo, sentiva una grande voglia di vivere e di svolgere il ruolo dell’apostolo in nome di un popolo profondamente cristiano.
Un popolo ferito, poiché in ogni casa c’era l’immagine di una vittima di quella rivoluzione sporca.
Morti nell’abbandono di una Chiesa nascosta.
Un popolo che senza Dio e senza uno Stato aveva perso le stigmate dell’umano e di ogni umanesimo.
I semi comunque sembravano essere tutti germogliati e quindi si poteva sperare persino che fiorissero.
Quando salì sull’aereo, ed era la prima volta, si guardò indietro e sentì una stretta al cuore, segno del forte legame con quella terra di Russia che, anche se piena di piaghe, a lui pareva la terra migliore. Là si piantava la sofferenza della sua famiglia e il suo stesso dolore. E il luogo dove si lascia il proprio dolore, non lo si può dimenticare mai.
La teologia che voleva insegnare si basava su un volto nuovo di Dio e del suo Figlio incarnato. Dovevano rispondere ai bisogni dell’uomo di oggi e quindi occorreva dare una versione della Rivelazione, radicata nella tradizione, che sembrasse scritta oggi, che mostrasse il Cristo di oggi.
Una religione è viva se risponde ai bisogni dell’uomo presente, e non si può farlo senza cambiare nulla del passato, sia pure di un passato straordinario scritto dai grandi Padri fondatori.
Questo scopo giustificava che un docente giovane occupasse quella cattedra che poi era il punto di riferimento per gli incontri tra le Chiese cristiane per iniziare quella unificazione che, almeno logicamente, doveva partire da Cristo e non dalla discussione sui protettorati e sui poteri della Chiesa unificata.
Le commissioni unitarie si riunivano alla luce del sole, ma al contempo intrattenevano colloqui segreti e diplomatici per testare la disponibilità del papa di Roma a cedere il proprio primato e a considerare una gestione comune con i patriarcati, a cui si sarebbero potute affidare deleghe specifiche. Una questione irta di difficoltà e di preconcetti.
Il proclama generale era comunque di non chiudere il dialogo, anche dominasse la certezza che non si sarebbe mai trovata una soluzione e che anzi, insistendo troppo, si sarebbe arrivati alla rissa, se non a una guerra di religione.
Il reverendo Pëtr si occupava solo di religione, era uno studioso di Dio, per mostrare che Dio agiva nel mondo nella prospettiva dell’eterno.
Il corso che aveva preparato era sul volto di Cristo, sul significato delle icone e di quella fissità che all’apparenza poteva sembrare inespressiva.
Una scelta accettata dal comitato di governo dell’Istituto, poiché si poneva in alternativa o meglio a completamento di un Cristo della Chiesa romana superattivo, rappresentato in quei “fumetti” che volevano proprio proporre anche visivamente le sequenze di ciò che faceva, di come teneva le mani, di come benediva.
E c’era la voglia, non esplicitata, di ripr...