Zoli. Storia di una zingara
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Zoli. Storia di una zingara

  1. 348 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Zoli. Storia di una zingara

Informazioni su questo libro

Zoli ha sei anni quando i suoi genitori — accerchiati dalle guardie fasciste di Hlinka, l'Hitler slovacco — spariscono tra le crepe del lago ghiacciato per non tornare mai più. ?Anni dopo, quella bambina con la gonna rossa e i capelli corti è diventata una cantante, una poetessa, l'interprete appassionata dell'anima orgogliosa e antica della sua gente, i rom. Il suo canto sale dalla polvere per raccontare il dolore e le persecuzioni, la forza e i colori di un popolo che non ha mai smesso di suonare l'arpa e cucirsi monete d'oro tra i capelli. Ma per i suoi, Zoli è una traditrice: ha venduto l'anima e la voce a un regime che in nome dell'Uguaglianza e del Progresso vorrebbe addomesticarli, e inventarsi regole nuove per un popolo con mille anni di tradizioni. ? Ispirato a una storia vera, l'ultimo romanzo di Colum McCann è ?il ritratto potente di una donna che, bandita dalla sua stessa gente, ha attraversato le tragedie di un secolo conservando la purezza dello sguardo e l'indomita vocazione alla libertà.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817015936
eBook ISBN
9788858690581

Cecoslovacchia – Ungheria – Austria

1959 – 1960

1

È da un bel pezzo ormai che lungo la strada non si vede un’anima. Vigneti e sterminati filari di pini. Zoli cammina lungo il ciglio d’erba che cresce nel mezzo del sentiero fangoso, ha i sandali zuppi, i piedi scorticati. Dopo una lieve curva si stupisce vedendo un basso muro di pietra e, di là da un boschetto di alberi giovani, un piccolo casotto di legno. Niente cavalli. Niente solchi di automobili. Niente fumo dal tetto. Attraversa il boschetto e arriva davanti all’entrata del casotto, forza la porta, sbircia dentro. Dalle crepe delle assi spunta dell’erba invernale, secca. Pezzi di cassette per il vino, secchi vuoti, foglie avvizzite. La porta si è sfilata dai cardini di legno, ma il tetto ad arco è robusto, e potrebbe tenere al riparo dall’infuriare del maltempo.
Zoli si ferma un attimo sulla soglia, incorniciata a metà fra luce e ombra.
Nell’angolo c’è un lavello incrinato, con il rubinetto che gocciola. Appena lo apre sente uno sferragliare e cigolare di tubi. Ci mette la mano sotto per riempirsela d’acqua, poi beve dal palmo, è così assetata che sente l’acqua attraversarle il corpo.
Si china per togliersi i sandali. Gli strati di carne si lacerano, si sbrindellano. La pelle è più dolorante lungo i bordi, dove la parte morta confina con quella viva. Con uno slancio alza un piede e lo infila nel lavello ma, con quel misero filo d’acqua, può solo massaggiare lo sporco, imprimendolo ancora di più nelle ferite. Cerca di ricompattare i brandelli di pelle, poi si siede contro il muro, appoggia la testa sul pavimento freddo, rinfrescandosi il lato dove le fa male la mascella.
Dorme a intermittenza, di tanto in tanto svegliandosi per la pioggia fitta e il vento che sbatacchiano gli alberi fuori, facendoli drizzare come cavalli ansiosi di galoppare via. Il picchiettio sul tetto le fa tornare in mente un tamburo che una volta le avevano regalato da piccola: le sembra di essersi infilata nel vuoto sotto la membrana.
Sente una serie di zampettii provenire dall’angolo più buio della capanna. Dall’altra parte di quello spazio angusto un unico ratto marrone la guarda con curiosità. Zoli fischia per scacciarlo, ma quello ritorna con un compagno. Si siede sulle zampe dietro, per leccarsi quelle anteriori. Il secondo guizza in avanti, si ferma, striscia la lunga coda contro il muso del primo, traccia un cerchio lento con il corpo. Zoli sbatte il sandalo per terra. I due animali fremono, si girano, tornano ad avvicinarsi, ma lei picchia il sandalo sull’intelaiatura di metallo della finestra e i ratti filano nell’angolo buio sgambettando. Zoli annaspa nella capanna per raccogliere foglie, bastoni e pezzi di cassette. Li mette insieme a formare una specie di piccolo tepee, scuote il coperchio dell’accendino, chiude le mani a coppa finché il mucchio non si accende, guarda salire la fiamma. Quando i ratti tornano a fare capolino lei fa scivolare delle cime di ramoscelli accesi lungo il pavimento, una dopo l’altra, sfuggenti schegge di luce. Le estremità dei rami ardono lentamente, bruciacchiando le assi di legno.
Zoli aspetta, con la testa reclinata contro il muro: com’è strano questo desiderio di sopravvivere, pensa, com’è semplice, privo di integrità e purezza, solo una funzione dell’abitudine.
La mattina si sveglia in preda al panico. I ratti sono spariti, ma oltre i suoi piedi ci sono dei pallini di escrementi freschi.
Una vena di luce grigia sale lungo la finestra. Zoli guarda una goccia di pioggia scivolare dalla cima del vetro fin giù. Un forte attacco di nausea le stringe lo stomaco. Si preme il pollice contro la mascella inferiore. Ha l’impressione di avere la bocca spaccata, la mascella enorme. Le parte da lì una fitta di dolore, poi giù fino al collo, alle scapole, alle braccia, alle dita. Cerca di toccare il dente con la punta della lingua, lo fa dondolare avanti e indietro, aspettando che si spezzino le radici. Il dente si sposta nella gengiva, ma non torna a posto. Zoli ha un altro conato di vomito, secco però, il suo stomaco è vuoto. È da tre giorni che cammino, pensa, e non ho toccato cibo.
Al momento del verdetto, tre notti prima, il congresso l’aveva giudicata debole, priva di forza fisica o mentale, e l’aveva condannata alla Contaminazione a Vita nella Categoria dell’Infamia per Tradimento degli Affari Rom di fronte agli Esterni.
Zoli si domanda se ora non sappia cosa significa essere cieca: non vede niente di allettante davanti a sé, e dietro ben poco che le importi ricordare.
Era avvenuto così velocemente che Zoli lo aveva accettato senza fare domande. La condussero nel centro della tenda, dove la fecero stare in piedi. Controllarono che non avesse metallo nei capelli perché il metallo poteva assorbire la sentenza. I vecchi delle krisnitoria si sedettero a semicerchio su cassette e sedie, con cinque lampade a paraffina disposte attorno. Poi si alzarono e invocarono gli avi, mentre la luce delle lampade tremolava sui loro volti man mano che prendevano la parola, con lo stesso tono accusatorio. Piedi che si accavallavano e si scioglievano. Il ricciolo azzurro del fumo di tabacco.
Vashengo si alzò e domandò a Zoli se conosceva i capi d’imputazione. Aveva tradito la sua gente, disse, aveva parlato dei loro affari, distrutto la loro quiete. Vashengo sputò per terra. Sembrava un uomo in dolce declino, acqua lasciata stagnare in un secchio. Zoli si pizzicò il davanti del vestito, sentì il peso dei sassi cuciti nell’orlo. Parlò di stanziamento e di mutamento e del complicato dolore di un tempo, che lei aveva spesso cantato, di quelli che andava a scavare lo stagno e a estrarre l’acqua, di marchi a fuoco che tendevano la pelle, di disegni e di rametti spezzati, del tonfo del legno contro la terra, di strade e di segnali, di notti sulle colline a creare dalle cose infrante ciò che era divenuto necessario, di come i gadže usassero parole, delegazioni, istituzioni, regole, e lei le avesse fraintese, di come avessero accelerato il buio, parlò di fratellanza, dignità, caseggiati, peregrinazioni, di come queste cose sarebbero state percepite dalle anime dei defunti, parlò di saggezza, di nomi sussurrati, di cose da non ripetere, di suo nonno, di come stava aspettando, in silenzio, dall’aldilà, dei principi in cui aveva creduto e di cos’erano diventati, di acqua che scorreva a ritroso, di cumuli di argilla, nevicate, pietre aguzze, di come riuscivano ancora a chiamarla nera anche dopo che era stata immersa nel bianco.
Fu il discorso più lungo che avesse mai fatto in vita sua.
Una scia di bisbigli cominciò a propagarsi per la tenda. Mentre i vecchi si consultavano, Vashengo si accese una sigaretta con le mani brune e studiò a fondo l’estremità accesa. Un altro colpo di tosse e poi silenzio. Era lui quello designato a parlare. Portava ancora i catarifrangenti rossi da bicicletta a mo’ di gemelli. Accese un fiammifero sfregandoselo contro un’unghia, e in quel modo il fuoco sembrò essergli scaturito dalla mano. Mentre era lì seduto, si tolse il fango dallo stivale con un bastone, si strinse il naso fra pollice e indice e soffiò, poi si pulì la mano nei pantaloni, che avevano una fila di borchie ovali argentate sulla cucitura. Si alzò, con i nervi del collo tesi, e si avvicinò a Zoli. Quello che disse non era importante, perché lei conosceva già la sua punizione. Vashengo le diede un manrovescio in faccia. Lo fece suo malgrado con una certa delicatezza, ma uno degli anelli che aveva alle dita le colpì la mandibola. Lei voltò il viso assecondando lo schiaffo, e tenne la testa appoggiata sulla spalla.
Adesso nessuno avrebbe più mangiato con lei. Nessuno avrebbe camminato al suo fianco. Qualsiasi cosa dei rom avesse toccato, l’avrebbero distrutta, indipendentemente dal valore: cavallo, tavolo, piatto. Nessuno l’avrebbe sepolta al momento della sua morte. Non avrebbe avuto un funerale. Non avrebbe potuto tornare, nemmeno sotto forma di spirito. Non avrebbe potuto perseguitarli. Non avrebbero parlato di lei, non potevano nemmeno nominarla: aveva tradito la vita ed era peggio che morta: né zingara, né gadži, niente di niente.
Le dissero di chiudere gli occhi mentre Vashengo la accompagnava fuori dal campo. Da dietro le giunse il fiato del suo defunto nonno, quasi a darle la misura del tempo trascorso. Gli altri vecchi non la toccarono, ma la guidarono con il rumore degli stivali. Tutti i bambini erano stati portati dentro i carrozzoni. Zoli sbirciò in quello di Conka, che, avendo le ruote spaccate, stava un po’ inclinata da una parte. Vide tremolare un angolo della tenda e una mezza ombra passare in un lampo. Se solo potessi prendere tutta la mia follia e riportela nelle mani, piramnijo, rimarresti china per il resto dei tuoi giorni. Nessuna donna si era affacciata a guardare: tutte avevano ricevuto il divieto di farlo, in caso contrario si sarebbero beccate anche loro uno schiaffo in faccia.
Era quasi mattina e una strisciolina di nuvola era apparsa a oriente sulla linea dell’orizzonte. In lontananza si distinguevano alcuni magazzini, altri caseggiati sparsi e una mancanza di colline, che invece si stendevano più oltre. Non c’era un posto che sembrasse più o meno protetto di un altro. Fu allora che Zoli cominciò a camminare.
Al mattino si alza, aggrappandosi allo stipite della porta, si affaccia a guardare il vigneto impantanato, i pendii terrazzati e la foschia in lontananza, che come una cortina di grigio sta sospesa sulle colline dei Piccoli Carpazi. Zoli pensa di essersi disabituata a quel silenzio così puro: non si sente niente al di fuori del vento, della pioggia e del suo respiro. Aspetta un’ora sperando che la pioggia si attenui, ma niente, così raccoglie i suoi averi, si sistema il foulard sulla testa, ed esce sotto il rovescio d’acqua.
Si ferma e si toglie la cispa dagli occhi, succhia le piccole escrezioni gialle dalla punta del dito.
Ormai vicina alla strada, si inerpica su una scaletta di pietra a cavallo di un muretto e procede verso la foresta di pini. Goccioloni di pioggia colano dai rami, e cadono sulla terra. Zoli si china per riempirsi le tasche della gonna di aghi friabili, pigne, ramoscelli secchi, e li infagotta tutti nella zajda, portandoseli nella capanna.
Appena varcato l’ingresso, getta il fagotto in mezzo al pavimento. Scuote l’accendino per vedere se c’è ancora gas – basterà per un paio di settimane al massimo – e si prepara a fare un fuocherello utilizzando casse da vino rotte. Appena il fuoco si accende, lascia cadere le pigne nelle fiamme e aspetta che si aprano. Si tocca la mascella gonfia, quasi certa che i semi le romperanno il dente dolorante e lo staccheranno del tutto, ma, nel momento in cui ne addenta uno, sente oscillare un dente davanti.
Non posso perderlo. È tra i più utili, non posso farne a meno.
Si accovaccia per mangiare. Come sarebbe rimanere qui per sempre, si domanda, a far la spola fra foresta e casotto, attraversando il campo vuoto, sotto la pioggia incolore, mangiando pinoli e guardano la fiamma crepitante? Coricandosi per terra e schiacciandosi sulle assi, per risvegliarsi di nuovo nel silenzio, senza dire niente, senza ricordare niente, senza più vedere anima viva, lasciando che il suo nome si dissolvesse silenziosamente nelle pareti del casotto?
Zoli si sente rivoltare lo stomaco. Raccoglie le pieghe del vestito, spalanca la porta e corre verso il muro di pietra. Si tira giù le mutande, sente l’erba fredda sfiorarle la pelle. Cerca di tenersi in piedi appoggiandosi al muro, con un braccio attorno alla pietra. Dà di stomaco. Il fetore dei suoi visceri. Volta la testa verso la spalla, per distogliersi da quello schifo.
Fermo all’estremità del muro c’è un cagnone marrone che ha gli occhi sgranati come due lanterne. Leva il muso e ulula, con le pieghe della pelle tremolanti sopra gli occhi cisposi.
Zoli si solleva i vestiti, scivola sulla pietra più alta del muro, scorticandosi il ginocchio. I piedi sguazzano nella mota. Mentre si dirige verso la strada il cane sta già annusando la sua lordura e i pinoli crudi.
Lei si stringe addosso il cappotto e corre fino in fondo alla strada, con i sandali che sbattono, allontanandosi sempre più dal casotto. Incrocia un altro muro di pietra e si mette a sedere appoggiandovi contro la schiena, il petto ansante. Delle rondinelle sforbiciano silenziosamente in mezzo agli alberi. Non c’è traccia né di case né di carri. Si ferma un momento e si pulisce di nuovo con l’erba bagnata, si sfrega via lo sporco dalle mani, lascia ciondolare le gambe dal muro.
Una strada più larga, questa, asfaltata, lunga, dritta.
La pioggia cessa e Zoli si avvia sull’asfalto lucente in uno sprazzo di luce invernale. I sandali ancora infangati le sfregano i piedi pieni di graffi. Sono una donna di ventinove anni, pensa, che cammina già come una vecchia. Si tocca il petto con le dita della mano destra e prova a raddrizzarsi. Sente il cappotto bagnato pesarle addosso e le viene un’idea quasi rassicurante tanto è semplice: basterebbe che me lo avvolgessi al braccio. Frastornata, raggiunge il centro della strada. Tutt’intorno a lei ci sono lunghi filari di viti, vari capannoni di fattorie cooperative e, in lontananza, solo le montagne che svettano contro il cielo.
Arrivata a una curva si volta e vede un fagotto buttato sulla carreggiata dietro di lei. C’è un oggetto, una persona, un corpo, sulla strada. Zoli si ritrova nei rovi. Come ho fatto a passare davanti a un corpo lungo la via? Possibile che non l’abbia visto? Si inoltra sempre più nella siepe, ha un intreccio di rami davanti. Come ho fatto a ignorare il cadavere di qualcuno lì disteso? Aspetta di sentire un rumore, uno qualsiasi – un veicolo, uno sparo di fucile, un gemito – ma niente. Si aggrappa con le dita al folto dei rametti per guardare di nuovo: il corpo se ne sta là appiattito, scuro e bocconi sulla carreggiata.
«Idiota» si dice Zoli ad alta voce.
Sbuca dai cespugli e arranca per tornare a raccogliere il cappotto che le è caduto. Giace scomposto sulla strada, con un braccio teso in fuori che pare indicare un’altra direzione.
Passando davanti ai cancelli di una fattoria cooperativa sente un rombo di motori. Si fa da parte nell’erba alta che costeggia il fosso. I motori diventano sempre più forti finché ne è quasi travolta, ed è sorpresa di vedere passare a bordo dei camion gruppi di giovani agenti cecoslovacchi, con i fucili di traverso sul petto, i volti oscurati dall’ombra, le guance scavate come se gliele avessero fatte scoppiare con dei minuscoli esplosivi. Nessuno di loro fiata. Tengono lo sguardo fisso nel freddo davanti. Tutti questi giovani, pensa Zoli, induriti da guerre troppo lunghe e memorie troppo brevi. Gli stessi che ci hanno condotti in fondo alla strada, che hanno cosparso le ruote di benzina, che hanno portato i cavall...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Zoli
  4. Slovacchia 2003
  5. Cecoslovacchia Anni Trenta – 1948-49
  6. Inghilterra – Cecoslovacchia Anni Trenta – 1959
  7. Cecoslovacchia – Ungheria – Austria 1959 – 1960
  8. Slovacchia 2003
  9. Compeggio, Italia del Nord 2001
  10. Parigi 2003
  11. Ringraziamenti / Nota dell’autore
  12. Glossario
  13. INDICE