Chi vuole uccidere Fred il Tacchino?
A mia madre,
che ha amato i suoi gatti
come fossero dei figli.
Anche questa mattina, come mi succede da un po’ di tempo, mi sono svegliato con il mal di schiena. Forse è l’umidità della villa sul lago, gli spifferi che provengono da quei vecchi infissi che avrebbero bisogno di una bella sistemazione. O magari sono i caloriferi che non fanno bene il loro lavoro. Non saprei. Certo è che, nonostante mi sia stirato a lungo, piegandomi in avanti e indietro, la fitta fastidiosa non se n’è voluta andare.
Dopo quegli inutili esercizi mi sono guardato intorno. Dormivano ancora tutti: la casa era silenziosa e nell’aria non c’era quel caratteristico profumo di caffè che arriva dalla cucina. Con un leggero balzo, sono salito sul bracciolo della poltrona accanto alla finestra e ho guardato fuori. Coriandoli bianchi e leggeri stavano cadendo dal cielo. Mi era già capitato di vederli, in passato, e mi ero anche divertito a cercare di prenderli con la lingua. Non sanno di niente, ma sono soffici e freschi; l’avevo fatto per un po’, poi a furia di dare morsicate al cielo mi era venuto male al collo e avevo rinunciato, tanto non sarei riuscito a mangiarli tutti. E poi sono strani, bisogna diffidare di quei coriandoli: arrivano asciutti, ti si posano addosso, rimanendo lì attaccati, e quando meno te l’aspetti ti trovi bagnato fradicio.
Questo è il primo Natale che passo in villa. Che cosa sia esattamente non l’ho ancora capito, ma quella parola, “Natale”, continua a essere sulla bocca di tutti, quindi qualcosa di particolare deve per forza essere. Al di là di questa considerazione non ce l’ho fatta ad andare, ma ne sono ugualmente orgoglioso; del resto che cosa vi aspettate da un gatto?
E poi c’è l’albero. Questo è davvero strano. La prima volta che avevo visto quella cosa tutta illuminata piena di palle e di luci cresciuta in salotto vicino al mio lettino, ero rimasto immobile, gli occhi spalancati, affascinato dai colori e dai bagliori. Però, dopo lo stupore iniziale, mi ero intristito: avevo osservato la pallina abbandonata nel mio letto, l’unico giocattolo che i padroni mi avevano concesso, e l’avevo confrontata con quelle appese all’albero. Dove le nascondevano il resto dell’anno? E perché non le regalavano a me invece di lasciarle lì, sospese a mezz’aria? Comunque io avevo provato ugualmente a giocarci: mi ero avvicinato all’albero e con la zampa sollevata avevo dati dei colpetti, una palla alla volta. Non l’avessi mai fatto! La vecchia signora – non è la padrona – che va in giro tutto il giorno a pulire con gli stracci in mano aveva lanciato un urlaccio e mi aveva minacciato con la scopa. Mi ero ritirato, avvilito, sotto un armadio, a guardare il gioco che mi era stato negato. Non avevo più osato dare colpetti con la zampa alle palle; ogni tanto, quando ero sicuro che nessuno mi vedesse, passavo vicino all’albero e le sfioravo con la coda, ma era un dispetto più che un divertimento e mi sono presto stufato.
Natale, l’avevo imparato durante la mia prima vita, dura parecchi giorni. Non è come Compleanno, che inizia e finisce in giornata, o Uichend, che varia tra i due e i quattro giorni; Natale incomincia quando compare l’albero con le luci e le palle e termina quando l’albero va via. Non è chiaro se l’albero vada a dormire insieme alle palle oppure facciano vita separata; mi sono sempre ripromesso di indagare ma poi, per pigrizia, non l’ho mai fatto.
Questa cosa della vita è un problema che mi angustia non poco. Ho spesso sentito dire che i gatti hanno nove vite. Secondo i miei calcoli – ma non sono molto bravo in matematica e posso anche essermi sbagliato – l’attuale dovrebbe essere la numero quattro o forse cinque, il che significa che non me ne rimangono ancora molte, e questo è un bel guaio, anche perché non mi pare di essere al mondo da tantissimo tempo.
Forse, in attesa che la casa si metta in attività e la colazione venga servita, vi potrei raccontare un po’ di me e del mio passato. Per un gatto di città, come mi definisco, la mia esistenza è stata finora davvero interessante. Chissà che prima o poi non mi propongano di farne un film.
La prima vita, quando avevo aperto gli occhi dopo quello che doveva essere stato un lunghissimo sonno di cui non ricordo nulla, era stata divertente e molto movimentata. I padroni erano un uomo alto con la barba nera e una giovane donna sempre sorridente. Dal padrone con la barba io mi tenevo abbastanza a distanza perché quando mi prendeva in braccio e mi baciava, cosa che all’inizio succedeva spesso, la barba mi pungeva e mi faceva venire il prurito: dovevo poi leccarmi un bel po’ prima che mi passasse. La padrona sorridente era invece molto buona, mi dava sempre da mangiare in gran quantità: in nessuna delle altre vite avrei avuto tanto cibo a disposizione. L’avessi saputo, ne avrei approfittato, e invece... Ma era stata una lezione che in seguito mi sarebbe servita: mai dare qualcosa per scontato, la vita cambia e si porta via quello che ti aveva offerto e che tu, stupidamente, non hai saputo o voluto cogliere.
Comunque, la cosa più significativa di quella prima vita era che non ero solo: con me in casa c’erano altri due gatti. Micia Bella, la mamma, era elegante e fascinosa. Aveva un mantello tigrato – «marmorizzato», sentivo precisare dai padroni ogni volta che qualcuno veniva a trovarli, anche se non ero mai riuscito a capire quale fosse la differenza – ed era arrivata in quella casa con un’entrata così scenografica che solo una grande attrice come lei avrebbe potuto interpretare. Naturalmente io non ero ancora nato, ma la cosa era stata raccontata così tante volte che ormai la conoscevo a memoria. Un giorno, aprendo la porta per andare fuori, la padrona sorridente si era trovata di fronte un gatto. Questi l’aveva guardata, aveva emesso un paio di compiaciuti miagolii ed era entrato. La padrona, che allora non era ancora padrona ma pur sempre sorridente, era rimasta a guardarlo e poi, colta da tenerezza, aveva preso un piattino, versato del latte e glielo aveva messo davanti. Il gatto, che poi si era rivelato essere una femmina, cioè la mamma, aveva leccato avidamente tutto e, dopo aver spazzolato con la lingua anche la seconda portata di quell’inaspettato pranzo, si era messo a sonnecchiare in un angolo della cucina, facendo le fusa.
Come era arrivata davanti alla porta di casa che si trovava al quinto piano? Era questa la domanda alla quale nessuno aveva saputo dare risposta e che la stessa mamma non aveva voluto affrontare. La tesi più accreditata era quella del finestrone aperto sul sesto e ultimo piano dell’edificio che si affacciava su un grande terrazzo circondato da tetti. Era stata forse quella la via d’ingresso. Non proprio la porta principale, ma insomma, non bisogna guardare troppo per il sottile. Sta di fatto che quel giorno – dopo grandi insistenze da parte della padrona sorridente (spalleggiata dal padroncino urlante di cui vi dirò in seguito) nei confronti dell’uomo con la barba, che era invece molto perplesso – la gatta era stata adottata ed era entrata a far parte della famiglia. L’avevano chiamata Micia Bella e ben presto, considerando che in quel luogo si trovava davvero bene, si era sposata e aveva arricchito la famiglia di due figli maschi.
Uno dei due sono io, e in quella prima vita il mio nome era Gattino. Non avevo mai capito come mai solo Gattino e non Gattino Bella, quando era chiaro che quello era il nostro cognome, ma ben presto me n’ero fatto una ragione; del resto anche mio fratello Fernando non aveva cognome, quindi non si trattava di uno sgarbo personale, forse era solo un riconoscimento reso a mia madre per le sue qualità. Micia Bella, in effetti, sapeva fare tutto. Il pezzo migliore del suo repertorio era un salto acrobatico che mi lasciava ogni volta sbalordito ma che procurava alla sua esecutrice grandi sgridate dalla padrona sorridente – che in quei casi non sorrideva affatto – e severe punizioni, come essere chiusa in una stanza. Ma quel castigo durava lo spazio di pochi minuti perché Micia Bella non ci aveva impiegato molto a capire come forzare la porta: si lanciava sulla maniglia e in due o tre tentativi riusciva ad aprirla e ad andarsene.
Tornando al salto acrobatico, si trattava di questo. Spesso la finestra della cucina, soprattutto nella bella stagione, era aperta. La mamma, facendo finta di niente, saliva sul davanzale, si leccava un po’, si attardava a osservare qualcosa che solo lei vedeva, poi d’improvviso si metteva in posizione, muoveva con rapidi passettini le zampe posteriori, come un cane che scodinzolasse, e saltava fuori dalla finestra per approdare, in perfetto equilibrio, sulla ringhiera del balcone di fianco. Ogni volta che la mamma faceva questa impresa tutti ci precipitavamo nella stanza che dava sul balcone per vedere se per caso fosse caduta, e ogni volta, con un gran sospiro di sollievo, scoprivamo che era lì, salda e immobile, e ci fissava con una luce particolare negli occhi, una sorta di sguardo di sfida. “Avete visto?” sembrava dire, “ce l’ho fatta di nuovo.”
Un giorno ero salito anch’io sul davanzale della finestra della cucina, così, giusto per vedere l’effetto che faceva. Mi ero fermato, imitando la mamma alla perfezione, poi avevo guardato giù. Non l’avessi mai fatto! Solo una veloce occhiata nel vuoto e avevo iniziato a traballare, sentendo quasi l’impulso di lasciarmi cadere. Sotto, all’altezza del primo piano, c’era una tettoia di lamiera; mi vedevo già spiaccicato, con ferite in tutto il corpo e la padrona che mi raccoglieva tra le br...