
- 400 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il sindacato dei poliziotti yiddish
Informazioni su questo libro
Sitka, in Alaska, è un Distretto federale dove il governo degli Stati Uniti ha accolto i sopravvissuti dell'Olocausto e del crollo, nel 1948, del neonato stato d'Israele sotto l'attacco dei paesi arabi. A Sitka si parla yiddish e inglese e i rabbini governano veri e propri imperi criminali. A fare i conti con le macerie della Storia e della propria vita è l'agente Meyer Landsman, impegnato a risolvere l'omicidio di un campione di scacchi eroinomane: chi cospira nell'ombra? Gli ebrei saranno di nuovo cacciati, anche da Sitka? E l'attesa del nuovo Messia sta davvero per terminare? Un romanzo geniale, un noir atipico ricco di invenzioni narrative, che racconta le mille facce dell'identità, della speranza, dell'amore.
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Informazioni
Capitolo trentanove
Avevano un loro pilota, uno bravo, un veterano di Cuba di nome Frum, che gestiva la navetta aerea da e verso Sitka. Frum aveva combattuto agli ordini di Litvak a Matanzas, e nella sanguinosa débâcle di Santiago. Era al tempo stesso fedele e senza un briciolo di fede, una combinazione di tratti caratteriali fortemente apprezzata da Litvak, che con l’inaffidabilità a volte volontaria dei credenti era costretto a combattere in continuazione. Il pilota Frum credeva soltanto a ciò che vedeva sul pannello dei comandi. Era sobrio, meticoloso, competente, silenzioso, cattivo. Quando depositava un nuovo carico di reclute a Peril Strait, i ragazzi scendevano dal suo aereo con un’idea piuttosto chiara del tipo di soldati che volevano diventare.
Mandate Frum, scrisse Litvak quando dal signor Cashdollar, che si occupava di valutare i singoli casi, ricevettero la notizia di una nascita miracolosa in Oregon. Frum partì di martedì. Mercoledì – come pensare, direbbero i credenti, a una semplice coincidenza? – Mendel Shpilman si presentò nella sala delle meraviglie di Buchbinder, al settimo piano dell’Hotel Blackpool, dicendo di essere rimasto a corto di benedizioni, e di voler spendere l’ultima su se stesso. In quel momento il pilota Frum si trovava a milleseicento chilometri di distanza, in un ranch nei pressi di Corvallis, dove Fligler e Cashdollar, arrivati in volo da Washington, stavano faticando a scendere a patti con l’allevatore che aveva messo al mondo il magico animale rosso.
C’erano naturalmente altri piloti che avrebbero potuto recuperare Shpilman e portarlo a Peril Strait, ma erano dei miscredenti, o dei credenti giovani. Di un miscredente non ci si poteva fidare mai, e Litvak temeva che agli occhi di un credente troppo giovane Shpilman potesse risultare una delusione, dando così modo alle malelingue di scatenarsi. Shpilman era molto fragile, a sentire il dottor Buchbinder. Era agitato e scostante, oppure sonnolento e apatico, e pesava cinquantacinque chili appena. Decisamente distante dall’immagine di uno Tzaddik.
Così senza preavviso, c’era solo un altro pilota che Litvak poteva prendere in considerazione: miscredente, ma prudente e affidabile, e con un antico legame con Litvak su cui quest’ultimo poteva azzardarsi a riporre qualche speranza. Dapprima cercò di scacciarne il nome dai pensieri, ma quello continuava a ritornare. E Litvak temeva che, se avessero indugiato troppo, avrebbero perso Shpilman di nuovo; già due volte era venuto meno alla promessa di andarsi a curare da Roboy a Peril Strait. E così Litvak fece rintracciare questo pilota miscredente ma affidabile, e gli offrì il lavoro. Accettò, per mille dollari in più di quanto Litvak avesse previsto di spendere.
«Una donna» disse il dottore, spostando la sua torre di re, mossa che a parere di Litvak non lo avvantaggiava affatto. Il dottor Roboy, agli occhi scrupolosi di Litvak, aveva un vizio piuttosto comune fra i credenti: era tutto strategia e niente tattica. Incline a muovere in modo fine a se stesso, troppo concentrato sull’obbiettivo finale per fermarsi a riflettere su tutto ciò che stava nel mezzo. «Qui. In questo posto.»
Erano seduti nell’ufficio al secondo piano dell’edificio principale, con vista sullo stretto, sullo scalcagnato villaggio indiano, con le sue reti da pesca e quella passerella assurda, e poco più in là il braccio teso sull’acqua del pontile per idrovolanti nuovo di zecca. Era l’ufficio di Roboy. In un angolo c’era una scrivania destinata a Moish Fligler, quando c’era e si riusciva a tenerlo dietro una scrivania. Alter Litvak preferiva fare a meno del lusso di una scrivania, di un ufficio, di una casa. Dormiva in stanze per gli ospiti, garage, divani altrui. La sua scrivania era un tavolo in cucina, i suoi uffici il campo d’addestramento, il Club scacchistico Einstein, la stanzetta in fondo all’Istituto Moriah.
Qui ci sono uomini meno virili di lei, scrisse Litvak sul suo taccuino, avrei dovuto assumerla già da tempo.
Mangiò l’ultimo alfiere di Roboy, aprendo una breccia improvvisa in mezzo ai bianchi. Capì di potergli dare scacco matto, in due modi diversi, nel giro di quattro mosse. La prospettiva della vittoria lo tediava. Si chiese se il gioco degli scacchi gli fosse mai interessato davvero. Prese la penna e scrisse un insulto, sebbene da quasi cinque anni si fosse rivelato impossibile ottenere da Roboy una reazione adeguata.
Se come quella donna ne avessimo un centinaio, a quest’ora la starei stracciando su una terrazza davanti al Monte degli Ulivi.
«Umf» fece il dottor Roboy, sfiorando un pedone, guardando il volto di Litvak mentre Litvak guardava il cielo.
Il dottor Roboy sedeva con la schiena rivolta alla finestra, una parentesi scura a racchiudere la scacchiera, con il viso lungo e la mascella sporgente allentati nello sforzo di prefigurarsi la desolazione del suo futuro scacchistico imminente. Dietro di lui, il cielo dell’ovest era tutto marmellata e fumo. Le montagne sgualcite, pieghe di un verde che sembrava nero, e di un viola che sembrava nero, e luminose fenditure azzurrine di neve bianchissima. A sud-ovest stava sorgendo una luna piena precoce, grigia e dai bordi nitidi, come una foto in bianco e nero e ad alta risoluzione di se stessa appiccicata al cielo.
«Ogni volta che guarda fuori dalla finestra» disse Roboy «io penso che siano arrivati. La smetta, per favore. Mi sta innervosendo.» Rovesciò il suo re, spinse indietro la sedia e dispiegò il suo corpo da mantide una giuntura dopo l’altra. «Non riesco a giocare, mi spiace. Ha vinto. Sono troppo teso.»
Si alzò e prese a camminare avanti e indietro per l’ufficio.
Non capisco di che si preoccupa, a lei tocca la parte facile.
«Ah, sì?»
Lui deve salvare Israele, lei deve soltanto salvare lui.
Roboy si fermò sui suoi passi e si voltò verso Litvak, che posò la penna e prese a riporre i pezzi nel loro cofanetto d’acero.
«Ci sono trecento ragazzi pronti a morire per lui» disse Roboy stizzito. «Per quest’uomo trentamila Verbover rischieranno le loro vite e i loro patrimoni. Rinunciando alle loro case, mettendo a repentaglio le famiglie. Se altri li seguiranno, allora staremo parlando di milioni di persone. Mi fa piacere che lei riesca a scherzarci sopra. Che non la renda nervoso guardare il cielo fuori da quella finestra sapendo che infine sta arrivando.»
Litvak smise di riporre i pezzi e guardò di nuovo fuori. Cormorani, gabbiani, una decina di varianti fantasiose, per cui l’yiddish non aveva un nome, sul tema dell’anatra. Facilissimo scambiare uno di quegli uccelli, con le ali spiegate contro il tramonto, per un Piper Super Cub a bassa quota in avvicinamento da sud-est. Guardare quel cielo rendeva nervoso anche Litvak. Ma il loro non era, per definizione, un lavoro che attraeva uomini con il talento per l’attesa.
Spero davvero che sia lo Tz-H-D, lo spero tanto.
«Non è vero» disse Roboy. «Mente. Lei lo fa solo per il brivido. Per gioco.»
Dopo l’incidente che gli aveva portato via la moglie e la voce, era stato il dottor Rudolf Buchbinder, il dentista pazzo di Ibn-Ezra Street, a ricostruire la mandibola di Litvak, ripristinandone la struttura con acrilico e titanio. E quando in seguito Litvak si era ritrovato a dipendere dagli antidolorifici, era stato il dentista a mandarlo, perché si disintossicasse, dal suo vecchio amico dottor Max Roboy. Anni dopo, quando Cashdollar aveva chiesto l’aiuto del suo uomo a Sitka per compiere la missione ispirata da Dio al presidente dell’America, Litvak aveva subito pensato a Buchbinder e Roboy.
C’era voluto molto più tempo, oltre a ogni singolo grammo di faccia tosta di cui Litvak disponeva, per riuscire a tirare dentro Heskel Shpilman. Infinite trattative e pilpul tramite Baronshteyn. Fortissime resistenze al ministero della Giustizia da parte di carrieristi che in Shpilman e Litvak vedevano – giustamente – un boss mafioso e un tirapiedi. Infine, dopo mesi di falsi allarmi e cancellazioni, un incontro con il grand’uomo in persona alle Terme di Ringelblum Avenue.
Un martedì mattina, con i fiocchi che cadevano torcendosi in lente spirali, dieci centimetri di neve fresca per terra. Troppo fresca, troppo presto per gli spazzaneve. All’angolo tra Ringelblum Avenue e Glatshteyn Street un venditore di caldarroste, con l’ombrello rosso impolverato di neve, il sibilo e il baluginare del piccolo forno, i solchi paralleli del carretto a incorniciare la poltiglia delle sue impronte nella neve. Un silenzio che sentivi il rumore dei meccanismi a orologeria nella centralina che controllava i semafori, e la vibrazione del cercapersone contro il fianco dell’uomo armato sulla porta. Due uomini armati, in verità, di quei grandi orsi rossicci che vigilano sul corpo del Verbover Rebbe.
Mentre i bikl Rudashevsky accompagnavano Litvak oltre la porta, su per i gradini rivestiti di vinile della scala di cemento, giù per il corridoio simile a un cunicolo di miniera che portava all’ingresso delle Terme, i loro volti come due pugni sembravano racchiudere una piccola luce. Di malignità, di compassione, il luccichio negli occhi di un giullare, di un aguzzino, di un sacerdote che si accinge a rivelare il dio cannibale. Quanto al decrepito cassiere russo nel suo gabbiotto d’acciaio, e al tarchiato inserviente nel suo bunker di asciugamani bianchi ripiegati, loro gli occhi potevano tranquillamente non averli, per quel che Litvak aveva avuto modo di vedere. Tenevano la testa china, accecati dalla paura e dalla discrezione. Erano altrove, a bere un caffè alla Polar-Shtern, ancora a letto accanto alla moglie. Le Terme non erano nemmeno aperte al pubblico, a quell’ora. Non c’era nessuno, lì, proprio nessuno, e l’inserviente che da dietro il bancone aveva fatto scivolare verso Litvak un paio di asciugamani logori era un fantasma che serviva il sudario a un morto.
Litvak si era spogliato e aveva appeso i vestiti a due ganci di metallo. Sentiva l’odore dei bagni come un flusso di marea, cloro e ascelle e un vapore salino acre che, ripensandoci, poteva anche essere la ditta che produceva sottaceti al primo piano.
Non l’avrebbero certo indebolito, se quello era l’intento, costringendolo a togliersi i vestiti. Le sue cicatrici erano numerose, in certi casi orribili, e facevano il loro effetto. Aveva sentito un fischio sommesso provenire da uno dei due Rudashevsky che piantonavano lo spogliatoio. Il corpo di Litvak era una pergamena vergata dal dolore e dalla violenza, di cui loro potevano al massimo sperare di produrre un’esegesi molto povera. Litvak aveva sfilato il taccuino dalla tasca della giacca appesa al gancio.
Lo spettacolo vi piace?
I Rudashevsky non erano riusciti a concordare una risposta adeguata; uno aveva annuito, l’altro scosso il capo. Poi si erano scambiati le reazioni, senza che nessuno dei due giungesse a una conclusione soddisfacente. Infine si erano arresi, e l’avevano spedito oltre le porte di vetro appannate del bagno turco, al cospetto del corpo su cui vigilavano loro.
Quel corpo, in tutto il suo orrore e il suo splendore, nudo come un gigantesco bulbo oculare iniettato di sangue e privo d’orbita. Litvak l’aveva visto una volta soltanto, anni prima, sormontato da un fedora, fasciato stretto come un rotolo di tabacco Pinar del Río in un rigido pastrano nero che gli sfiorava le punte degli stivali eleganti, anch’essi neri. Ora si ergeva ponderoso dal vapore, una distesa di pietra calcarea coperta da un nero lichene di peli. Litvak si era sentito come un aeroplano immerso nella nebbia, sospinto dalle correnti ascensionali verso la sorpresa di una montagna. Il ventre gravido di tre gemelli d’elefante, i seni pieni e cadenti, ciascuno ornato dalla lenticchia rosa di un capezzolo. Le cosce come enormi tranci di halvah screziato impastati a mano. In mezzo, perso tra le ombre, un tozzo ombelico di carne grigiomarrone.
Litvak aveva adagiato l’intelaiatura scarsamente isolata del suo corpo sul reticolo di piastrelle bollenti davanti al rabbino. La prima volta che aveva incrociato Shpilman per strada, gli occhi del Verbover giacevano nell’ombra di meridiana proiettata dalla tesa del suo cappello. Ora indugiavano su Litvak e sul suo corpo martoriato. Erano occhi gentili, aveva pensato Litvak, o forse ammaestrati dal proprietario agli usi della gentilezza. Avevano letto le cicatrici di Litvak, la bocca violacea arricciata sulla spalla destra, gli sfregi di velluto rosso sul bacino, il buco nella coscia sinistra, abbastanza profondo da contenere tre centilitri di gin. Avevano offerto compassione, rispetto, perfino gratitudine. La guerra a Cuba era tristemente famosa per la sua inutilità, per la brutalità e lo spreco. I veterani, al ritorno, erano stati evitati. Nessuno aveva offerto loro perdono, comprensione, una possibilità di riconciliazione. Heskel Shpilman stava offrendo a Litvak e alle sue ferite di guerra tutte e tre le cose.
«La natura del suo handicap» aveva detto il Rebbe «mi è stata illustrata, così come la sostanza della sua offerta.» La voce femminea, schermata dal vapore e dalle piastrelle di porcellana, non sembrava emergere dal timpano della cassa toracica. «Vedo che ha con sé taccuino e penna, nonostante la mia espressa richiesta di non portare nulla.»
Litvak aveva sollevato gli oggetti incriminati, imperlati di vapore, sentendo l’incurvarsi, il deformarsi delle pagine del taccuino.
«Non le serviranno.» Con le mani appollaiate come uccelli sulla roccia del ventre, il rabbino aveva chiuso gli occhi, privando Litvak della loro compassione, vera o simulata, e lasciandolo a cuocere nel vapore per un minuto o due. Litvak aveva sempre odiato gli shvitz. Ma quello stabilimento nel vecchio Harkavy, secolare e squallido, era l’unico posto in cui il Verbover Rebbe poteva condurre gli affari privati lontano dalla sua corte, dal suo gabay, dal suo mondo. «Non intendo rivolgerle altre domande, né richiederle ulteriori informazioni.»
Litvak aveva annuito, apprestandosi ad alzarsi. La mente gli diceva che Shpilman non si sarebbe mai scomodato a organizzare quel colloquio nudo e unilaterale, se avesse inteso rifiutare la sua proposta. Ma nelle viscere sentiva che la missione era fallita, che Shpilman l’aveva convocato in Ringelblum Avenue per comunicargli il rifiuto in tutta l’elefantina autorità della sua presenza.
«Voglio che sappia, signor Litvak, che ho riflettuto profondamente sulla proposta. Ho tentato di ricostruirne la logica da ogni angolazione.
«Cominciamo dai nostri amici del Sud. Se fosse vero che vogliono soltanto una determinata cosa, un effetto o una risorsa tangibile… Il petrolio, per esempio. O se fossero mossi da un interesse più squisitamente strategico, nei riguardi della Russia o della Persia. In entrambi i casi, è evidente che non avrebbero bisogno di noi. Per quanto la Terra Santa possa risultare difficile da conquistare, la nostra presenza fisica, la nostra disponibilità a combattere, le nostre braccia, difficilmente farebbero una qualche differenza per il loro progetto bellico. Ho studiato approfonditamente le loro dichiarazioni di sostegno alla causa ebraica in Palestina, nonché la loro teologia, e, per quanto mi è stato possibile, basandomi sui resoconti del rabbino Baronshteyn, ho cercato di farmi un’opinione, sui Gentili e sui loro scopi. E non posso che concludere che, quando dicono di voler vedere Gerusalemme restituita alla sovranità ebraica, sono sinceri. I loro ragionamenti, le cosiddette profezie e gli apocrifi sulla cui supposta autorità tale desiderio si basa, possono anche sembrarmi risibili. Abominevoli, addirittura. Compatisco i Gentili per la loro infantile fiducia nell’imminente ritorno di chi in verità non è mai partito, men che meno arrivato. Ma sono pressoché certo che anche i Gentili, a loro volta, ci compatiscano per il nostro Messia tardivo. Come terreno comune su cui costruire un’alleanza non è da disprezzare.
«Quanto al suo ruolo in questa faccenda, è piuttosto semplice, o sbaglio? Lei è un soldato a noleggio. Ama la sfida e la responsabilità del comando. Io la capisco. Mi creda. Lei ama combattere, ama uccidere, a patto che a morire non siano i suoi uomini. Mi azzarderei inoltre a dire che, dopo tanti anni al servizio di Shemets, e ora per conto suo, ha acquisito una lunga esperienza nel fare, almeno all’apparenza, gli interessi degli americani.
«Per i Verbover il rischio è grande. L’intera comunità potrebbe soccombere, in questa avventura. Spazzata via in pochi giorni, qualora i vostri soldati fossero poco preparati o semplicemente, come appare non del tutto improbabile, in netta inferiorità numerica...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- IL SINDACATO DEI POLIZIOTTI YIDDISH
- Capitolo uno
- Capitolo due
- Capitolo tre
- Capitolo quattro
- Capitolo cinque
- Capitolo sei
- Capitolo sette
- Capitolo otto
- Capitolo nove
- Capitolo dieci
- Capitolo undici
- Capitolo dodici
- Capitolo tredici
- Capitolo quattordici
- Capitolo quindici
- Capitolo sedici
- Capitolo diciassette
- Capitolo diciotto
- Capitolo diciannove
- Capitolo venti
- Capitolo ventuno
- Capitolo ventidue
- Capitolo ventitré
- Capitolo ventiquattro
- Capitolo venticinque
- Capitolo ventisei
- Capitolo ventisette
- Capitolo ventotto
- Capitolo ventinove
- Capitolo trenta
- Capitolo trentuno
- Capitolo trentadue
- Capitolo trentatré
- Capitolo trentaquattro
- Capitolo trentacinque
- Capitolo trentasei
- Capitolo trentasette
- Capitolo trentotto
- Capitolo trentanove
- Capitolo quaranta
- Capitolo quarantuno
- Capitolo quarantadue
- Capitolo quarantatré
- Capitolo quarantaquattro
- Capitolo quarantacinque
- Capitolo quarantasei
- Ringraziamenti