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Credevo che dormisse. È stato un sollievo svegliarsi nel silenzio dopo tutto quel tossire degli ultimi giorni.
L’ho guardata dalla porta prima di accendere il fuoco. Ho spazzato il pavimento e ho preso della cenere dal focolare. Ho lavato i piatti senza che lei me l’avesse chiesto, e intanto pensavo: Sarà contenta? Mi accarezzerà i capelli e mi sorriderà con quell’espressione che amo tanto? Quella che dice che non mi cambierebbe per tutto l’oro del mondo.
Ho sfregato quelle pentole finché le nocche mi hanno fatto male. Volevo che brillassero perché lei ci si potesse specchiare.
Quando Baba torna a casa, lei non si è ancora svegliata. Prendo gli avanzi della cena di ieri sera e li riscaldo. Lui mangia in fretta e ripulisce così bene la scodella che non ci sarebbe neppure bisogno di lavarla.
Borbotta qualcosa e se ne va di nuovo.
Metto in ordine, recito le preghiere per Zuhr, e lei non si è ancora svegliata. Con l’ultimo goccio di latte di bufala rimasto, preparo una tazza di tè come piace a lei e apro la porta.
«Mor?»
Capisco subito che qualcosa non va.
C’è troppo silenzio. La pelle del suo viso è troppo molle.
Non riesco a soffocare un gemito. Mi cedono le gambe. Mi lascio cadere su un angolo del charpaee. Le corde di iuta scricchiolano sotto il mio peso e fanno muovere il suo corpo.
Piano, piano. Non disturbarla. La tazza scotta. Fisso inebetita il liquido marroncino. C’è un po’ di schiuma sul bordo della tazza e le bollicine scoppiettano.
Sto sognando?
Faccio scivolare le dita dei piedi sul pavimento della nostra capanna. La terra battuta è liscia sotto le mie piante ruvide. Mi volto piano a guardare la mamma.
È morta.
Devo provare a rianimarla? Poso la tazza e le prendo la mano. Rigida e fredda! La lascio cadere come se scottasse. «Inna lillahi wa inna ilaihi rajioon.» Siamo venuti da Dio e a lui faremo ritorno.
Come lo dirò a Baba?
Alzandomi urto la tazza col piede. Il tè si versa per terra.
Mi costringo ad andare dalla nostra vicina, Khalaa Gaur, per avvertirla. (Non è la mia vera zia, ma la chiamo Khalaa per rispetto.) Lei corre con il bambino in braccio. Guarda Mor distesa nel suo letto, si copre la bocca con un angolo del porani e piange. Vorrei che smettesse. La mamma diceva sempre che piangere è haram.
Khalaa Gaur dice: «È vero. È morta.» Come se avessi potuto mentire.
Poi vede l’altro suo figlio che sbircia dentro dalla porta e gli dice di andare a chiamare mio padre.
«Non so dov’è andato Agha.»
«Stupido! Trovalo. Lavora in fondo al villaggio, alla nuova strada!»
«Ma non so dov’è! È troppo lontano.»
Khalaa Gaur fa un passo avanti, minacciosa, e lui scappa via di corsa, ma dubito che andrà a chiamare Baba.
Lei si guarda attorno nella stanza buia. «Hai degli stracci? Dobbiamo legarla.»
Prendo lo straccio che uso per asciugare i piatti. È pulito. Lei mi passa il bambino e strappa tre lunghe strisce. Fa passare la prima sotto il mento di Mor e l’annoda sulla sommità del capo. Servirà a tenerle chiusa la bocca. Con la seconda lega i piedi e con la terza le braccia lungo i fianchi.
Si pulisce le mani sul vestito. «Ecco. Così resterà composta.»
Pensavo che Khalaa sarebbe rimasta con me ma ha da fare.
«Non preoccuparti, Jameela» dice. «Chiameremo le donne per prepararla per il funerale.»
Quando Baba arriva capisco che non lo sa ancora. Per un istante non riesco a dire niente. Ho la gola chiusa. Lo guardo e basta.
Lui s’innervosisce. Non ho neanche risposto al suo saluto. Lo ripete.
Io rispondo: «Wa alaikum assalam.» Vuol dire “pace anche a te” anche se non credo che riuscirò mai più a sentirmi in pace.
Poi lui dice: «Dov’è tua madre?»
Io scrollo il capo e abbasso gli occhi. Altre lacrime sgorgano, cadono sulle mie inutili mani.
Lui si precipita nella stanza. Un rumore soffocato, il più strano che abbia mai sentito. Corro al suo fianco e lo sostengo perché non cada.
Khalaa Gaur è stata di parola: ha chiamato le donne, che arrivano portando secchi d’acqua. Mi dicono di uscire ma io voglio aiutare. Khalaa Gaur s’incupisce.
«È una cosa seria. Sei troppo giovane. Non possiamo prenderci cura anche di te mentre prepariamo lei.»
«Mi comporterò bene.»
Non ho mai visto lavare un corpo. Sono molto brava a non intralciare e nello stesso tempo a tenermi pronta per dare una mano.
Per prima cosa la copriamo con un lenzuolo. Poi, da sotto il lenzuolo, le sfiliamo i vestiti. Li arrotolo in un fagotto e li appoggio in un angolo. Li laverò. Magari un giorno mi andranno bene.
La mamma sembra più giovane coperta solo dal lenzuolo. Recitando preghiere la ripuliamo con tocchi gentili, facciamo wudu per lei, dopodiché le laviamo i capelli, la parte destra del corpo, poi la sinistra.
Ha già cominciato a irrigidirsi. Le sue mani sembrano intagliate nel legno, un legno tenero, le dita sono distese. Continuo ad aspettarmi che apra gli occhi da un momento all’altro.
Mi sembra bellissima e serena. Diceva sempre: “Jameela, se non puoi essere bella devi almeno essere buona. Ti apprezzeranno per questo.”
Non abbiamo canfora. Peccato. Lascerebbe un buon profumo.
Dopo averla lavata, è pronta per essere avvolta. Anche se è coperta dal lenzuolo, intravvedo alcune parti del suo corpo. Mi sento a disagio. Lei è sempre stata così timida e discreta. Non ricordo di averle mai visto neppure le gambe. Faccio del mio meglio per non guardare.
Prima che il lenzuolo bianco le avvolga il volto, le do un bacio sulla fronte. Le donne aspettano un istante e poi la coprono.
Adesso siamo noi ad aver bisogno di un bagno.
Baba è fuori con gli uomini, è seduto per terra e ha l’aria stanca, e anch’io mi sento stanca. Mentre noi facevamo il ghusl, loro scavavano la fossa. Che Allah la renda accogliente per lei, Ameen.
Le donne piangono. Sembrano le sirene di quei camion stranieri. Dovrebbe darmi fastidio ma non è così. È strano quanto in fretta ci si abitua a un rumore.
Khalaa Gaur dice: «Vorrei poter restare con te stanotte, ma ho il mio piccolino a cui badare. Tu starai bene.»
Io annuisco.
L’ultima volta che morì qualcuno della famiglia, la nostra casa si riempì di gente, e ciascuno arrivava con tutto il cibo che riusciva a portare.
Ma da allora sono morte così tante persone.
Non sarà così stavolta. Ci sono stati troppi funerali. La gente è stanca. E con le mine nei campi e gli anni di siccità, c’è poco cibo.
Le zie tornano alle loro case. Quello è il segnale per gli uomini, che entrano a prendere la mamma con tutto il charpaee.
Fa’ che siano gentili. Che non la facciano dondolare troppo lungo la strada in discesa.
Li seguo con lo sguardo finché svoltano un angolo e non riesco più a vederli.
Il terreno è sassoso. Le pietre mi pungono la pianta dei piedi nudi.
Il sole comincia a tramontare. Nel cielo afghano sventolano bandiere rosse, arancio e gialle. A Mor sarebbe piaciuto. Lei amava i colori.
Prendo dell’altra acqua. Devo anche fare il bucato. Lavare il lenzuolo con cui l’abbiamo avvolta, i vestiti che indossava, le lenzuola del letto. Il solo pensiero mi fa sentire esausta.
Mi lavo più o meno nello stesso modo in cui abbiamo lavato la mamma, e indosso in fretta i miei vestiti di ricambio. Devo sbrigarmi. Il momento del Maghrib passa così in fretta. Recito delle nafil in più per lei e rimango un po’ di tempo in sujud, con la fronte appoggiata alla superficie ruvida della mia stuoia da preghiera, chiedendo ad Allah di avere pietà della sua anima.
A quest’ora devono aver finito la sua Janaza. La seppelliranno prima che diventi troppo buio. Devo preparare il tè per Baba e vedere che cosa c’è da mangiare. È tutto in disordine e io sono così stanca.
Sto mettendo le foglie in infusione quando lui si precipita in casa.
Il rumore mi spaventa e mi cadono nel fuoco alcune foglie di tè. Si disperdono in uno sbuffo di fumo profumato.
Se ne sarà accorto? Mi sgriderà per aver sprecato il tè? Tremo così tanto che le foglie oscillano nella latta che tengo in mano.
Mettila giù. Prima di farne cadere altre. La metto giù.
Lui si avvicina e si ferma proprio di fronte a me, non so perché.
Trattengo il respiro.
Poi lascia cadere la mano sulla mia spalla, io sussulto ma lui non stringe. Non preme. Mi dà solo una pacca gentile. Non è arrabbiato. Anzi, mi sta dicendo di farmi da parte, che devo essere stanca e il tè lo prepara lui.
Io mi metto dall’altra parte del fuoco e lui prende il mio posto, aggiunge altre foglie, anche se nella teiera ce ne sono già abbastanza. Non sa quanto farlo forte.
Non c’è latte e solo pochissimo zucchero, e mezza forma di naan. È duro e raffermo, ma se lo intinge nel tè riuscirà a mangiarlo.
Quando mi guarda, i suoi occhi catturano il bagliore del fuoco.
«È tutto il cibo che abbiamo in casa?» Indica il naan.
È arrabbiato? Lo sa? Avrei dovuto lasciarlo a lui perché ha bisogno di essere in forze e invece ne ho staccato un pezzetto e l’ho mangiato. Devo confessarlo?
Mi stringo nel porani e annuisco. Potrebbe prenderlo per un sì o anche per un non lo so.
Dopo una lunga pausa, alzo gli occhi per vedere che cosa sta facendo.
Sta servendo il tè, e ne versa fuori buona parte. Non è capace.
Mi porge la tazza e il pezzo intero di naan duro, e quando io esito mi dice: «Avanti. È per te, Jameela.»
Così li prendo. E, che sorpresa: il mio tè è dolce! Ha messo lo zucchero nella teiera per tutti e due.
Lui beve, pensieroso, e fissa il fuoco. Chissà che cosa pensa. Penserà all’ultima volta che siamo stati in lutto?
Quando si riscuote e fa un respiro profondo io non posso impedirmi di trasalire.
Porta la mano alla tasca del suo kurtha e mi guarda.
«Dovresti andare a dormire. È tardi.»
È una notte fredda. Non vorrei toccare l’acqua per fare wudu ma devo. Quindi tanto vale farlo subito. Chissà se Baba pregherà con me. Ha recitato la Janaza. ...