DUE
LA CORONA
Il signore dell’Occidente
(306-312)
Cesare
Costantino era solito dire: «divenire Imperatore, è questione di fortuna, ma coloro cui la forza del Fato ha condotto alla necessità di regnare, debbono fare in modo di mostrarsi degni dell’Impero».
JACOB BURCKHARDT,
L’età di Costantino il Grande
Treviri, estate 306 d.C.
Costanzo il Pallido era malato da tempo. Lo sapevano in pochi, i fidati hanno tenuto la bocca chiusa. Ma ormai l’Imperatore è morto, a che serve conservare i segreti?
È stato pugnalato in Britannia ed è spirato nel giro di una notte, ma sarebbe crepato comunque, così dicono i medici. La malattia lo scavava dentro come una talpa cieca, straziata dalla fame. Da mesi sputava sangue di nascosto, mangiava poco e niente: quanto bastava per reggersi in piedi.
Gli dèi sono stati buoni con l’Impero: l’aspetto dell’Augusto era ottimo, nonostante tutto. Nessuno poteva immaginare guardandolo in faccia.
Nemmeno suo figlio.
Agli occhi di Costantino, Flavio Valerio Costanzo è morto due volte: la prima, sul tavolo operatorio a Eboracum. Con i cerusici che scuotevano la testa e si battevano il petto: Abbiamo fatto il possibile… le ferite erano troppo profonde.
La seconda a Treviri, già imbalsamato e pronto per le esequie: lo stuolo di leccapiedi racconta la verità sul male oscuro dell’Imperatore. Hanno la voce delle Parche, dicono un destino già segnato.
Costantino, prima di mettersi in viaggio insieme alla famiglia imperiale verso la capitale, ha trascorso una notte di veglia.
Lui e il cadavere, soli come sposi promessi. Separati dalla disgrazia.
Il generale alemanno ha parlato chiaro: le truppe vogliono che sia Costantino a guidare l’Impero.
In barba a Severo, successore designato. E in barba al sangue di Costanzo, che ha originato altri tre figli: Flavio Dalmazio, Giulio Costanzo, Annibaliano. Poco più che ragazzini, certo. Ma degni del nome che portano.
Legittimi.
Costantino è la scelta improbabile. Il bastardo senza meriti, cresciuto alla corte di un Imperatore fallito.
Ma Croco l’alemanno è stato chiaro: I soldati sono pronti a cingerti le spalle con la porpora. Se rifiuterai, scoppierà la rivolta. E qualcun altro prenderà il tuo posto.
L’esercito se ne infischia delle convenzioni, della sala del Trono e del maledetto circo della Tetrarchia.
Gli uomini obbediscono alla legge del ferro. Seguiranno solo chi è degno di guidarli in battaglia. E Costantino s’è fatto le ossa marciando, lottando e spaccando crani per conto dell’Aquila. Da Oriente a Occidente, il suo nome conta qualcosa. Il virgulto d’Illiria pensa spesso a Diocleziano. Pensa alla fatica che ha fatto: una vita intera spesa a cucire insieme un mondo tanto vasto. Pensa alle sue magiche regole, la certezza di essere nel giusto.
Il segreto per tenere tutto insieme, ragazzo, è dividere ogni cosa.
E ora tocca a lui infrangere lo specchio. Stracciare il velo, calpestare il sogno.
A lui e nessun altro.
Il fato ha già deciso.
Costantino respira profondo, lancia uno sguardo alla sala in cui s’è rinchiuso prima del discorso; e alla metropoli straniera, là fuori.
Treviri non assomiglia a nessun’altra città: non ha l’oro di Nicomedia tra i capelli, né le mani gelate di Eboracum. È roccia e secoli, ha le fattezze d’un titano. La residenza imperiale è tale e quale a suo padre: ruvida e scura come il cuoio di queste parti. Più sobria di un neonato in una taverna.
La stanza ha lo stesso grugno: muri di calce bianca, il mosaico con l’Aquila, una finestra sola. Aperta sul niente del cortile interno.
È fatta per pensare. Per chiudere fuori tutto il resto.
La mattina è silenzio puro. Tace il palazzo. La capitale intera. Zitta la Gallia, con il fiato sospeso. Le truppe non sanno, nessuno lo sa. Ma attendono, consce che al fato neppure gli dèi comandano.
Costantino la smette di rimuginare, si rigira in bocca per l’ultima volta le parole di sua madre.
Le stesse affidategli dal padre prima di rendere l’anima a Plutone: Il tempo è maturo, figliolo. Devi scegliere tra ciò che è giusto… e ciò che è facile.
La spada al fianco. La lorica al suo posto.
Niente più pensieri, adesso.
Indietro non si torna.
Il virgulto d’Illiria agguanta la porpora dallo scranno e va là fuori a fare quello per cui è venuto al mondo.
Un’altra piazza, un’altra folla.
La stessa ansia, la muta attesa.
L’Impero è così vasto che è difficile persino immaginarlo, ma i sentimenti si assomigliano sempre: da Oriente a Occidente, negli occhi dei servi e dei soldati c’è la medesima luce.
Pendono dalle sue labbra.
Costantino saluta Croco con un cenno del capo, l’alemanno si fa da parte.
Il virgulto d’Illiria è di fronte ai suoi uomini.
L’urlo in sordina, il chiasso degli armigeri.
Solleva la destra e mette tutti a tacere: ascoltate, adesso.
Nemmeno si schiarisce la voce. Aspetta che il silenzio sia reale, crudo come carne al macello.
Solo allora, inizia: «Fiducia: è di questo che dobbiamo discutere, non è vero?».
Non vola una mosca.
«Ci sono tre tipi di fiducia, per quanto ne so. La prima è quella del poppante nei confronti della madre. Senza parole, incapace di sopravvivere da solo: si affida a chi l’ha messo al mondo perché così la natura comanda. Fiducia sana e sincera.»
Occhi fissi, bocche serrate. L’auditorio è tutto per lui.
«La seconda è quella che il condannato innocente ripone nelle mani del difensore. Non c’è altro che la scure nel suo destino, forse la corda. La vita dipende dalle parole di un estraneo, un mercenario pagato a peso d’oro per dar battaglia alla menzogna nel Foro. Fiducia disperata. Obbligatoria.»
Per la troppa tensione, qualcuno ha perso l’equilibrio, provocando un cozzar sordo di aste.
L’orizzonte è impressionante: sette centurie gomito a gomito. Elmi, scudi, finimenti. E poi il popolo: stracciato, pance lunghe. Affamato di futuro. A perdita d’occhio.
«Il terzo tipo di fiducia è inevitabile, definitivo, ultimo: la fiducia del morto nei confronti di chi gli sopravvive.»
La folla sferzata da un fremito, nuvole basse e vento che scuote la porpora: Costantino la regge tra le mani, la mostra al pubblico come un cadavere santo.
«L’Augusto è morto. Mio padre Costanzo si è battuto con valore fino all’ultimo respiro, è caduto per difendere Roma. Ha dato la vita per l’Impero al quale aveva giurato di dedicarla. Diocleziano si fidava di Flavio Valerio Costanzo: fu lui stesso ad appoggiare la veste regale sulle sue spalle. Lo volle Cesare, e poi Augusto, secondo le leggi che egli stesso sancì. E mio padre ha deciso di fidarsi di me: quando si è reso conto che non ce l’avrebbe fatta, mi ha detto di tenermi pronto. Mi ha detto che presto, molto presto, avrei dovuto scegliere. Costanzo mi ha fatto giurare di essere all’altezza. Però la legge parla chiaro: morto l’Augusto, la porpora è del Cesare, suo successore. Severo, signore d’Italia, reclamerà queste terre non appena verrà a conoscenza del destino di Costanzo.
«E di certo Galerio, Augusto d’Oriente, benedirà la successione. Ma non lo farà in nome della legge. In nome proprio si affretterà ad applicare le norme di Diocleziano: solo così sarà il signore assoluto dell’Impero. Severo non è nient’altro che un fantoccio nelle mani dell’Augusto. Esattamente come Massimino, Cesare d’Oriente. I servi dell’Augusto sono pronti a obbedire fino alla morte. A versare sangue innocente in nome suo.
«Galerio ha cercato di uccidermi a Nicomedia. E ha inviato i suoi sicari quando sono fuggito dalla capitale dell’Inganno: Severo ha ricevuto l’ordine di non farmi uscire vivo dai confini italiani.»
Pausa. La calca è un brivido.
Costantino allarga le braccia: «Per loro sfortuna, gli dèi avevano altro in serbo per me…». Sorride. E con lui la città intera.
«Mio padre aveva ragione. Lui, che ha passato la vita a difendere e arricchire la Gallia, sapeva che, una volta uscito di scena, orribili sciacalli si sarebbero avventati sulla carcassa della sua terra. Col solo scopo di distruggere tutto ciò che aveva costruito. Sapeva delle leggi di Diocleziano. Dell’obbedienza dovuta all’Impero.
«Prima di morire poteva tacere. O magari dirmi di starne fuori. Invece ha voluto mettermi in guardia. Mi ha detto come stanno le cose. Mi ha chiesto di scegliere: tra ciò che è giusto e ciò che è facile.
«Ora potrei farmi da parte e permettere che Galerio e il suo servo trasformino le Terre del Nord nella saccoccia d’Oriente, nella poppa cui attaccarsi e succhiare avidi, finché vi saranno grano, bestie e tasse da spremere. Sarebbe facile.»
La folla vibra, all’unisono.
«Oppure potrei comportarmi da uomo, e portare a termine quello che mio padre ha cominciato.» Dispiega la porpora che ha stretto per tutto il tempo. Con un gesto da teatro se la sistema sulle spalle: «Perché così è giusto».
L’aria si fa elettrica. La fronte di Costantino si corruga. Pantomima e futuro. Copione e destino da compiere.
«Ma non posso farlo da solo.»
Silenzio.
«A voi la scelta, popolo di Treviri: riconoscetemi come Augusto, e aiutatemi a coronare il sogno di Costanzo; o salite su questo palco, strappatemi la porpora e restituitela al legittimo proprietario. Severo e il suo padrone Galerio non vedono l’ora di affondare le fauci nella carne di Gallia.»
L’Imperatore ha parlato.
«Il vostro cuore sceglierà per il meglio, fratelli miei. In quel cuore ho fiducia cieca. Mi fido di voi tutti, sudditi dell’Impero. Proprio come mio padre ha deciso di fidarsi di me.»
Il boato che squassa, l’onda d’urto dell’entusiasmo.
L’acclamazione.
La folla è fuori controllo, urla impazzita il nuovo nome del virgulto d’Illiria.
AU-GU-STO!
AU-GU-STO!
AU-GU-STO!
Costantino sorride, le braccia sui fianchi. Impercettibile spettacolo d’incisivi, ma Croco l’alemanno se ne accorge. Dà le spalle alla folla e sussurra all’orecchio dell’Imperatore: «Un tantino scenografico, ma alla fine è andata. Te l’avevo detto che sarebbe stato facile…» strizza l’occhio sguaiato.
Costantino sfodera il resto della chiostra.
Non serve più nascondersi, la folla lo adora.
«Troppa scena? Appena il giusto…»
Il futuro è cominciato.
Odora di leggi infrante, è tinto di porpora usurpata.
Treviri, autunno 306 d.C.
Settembre: due mesi in sella, Costantino comincia a farci l’abitudine. Il giovane Imperatore sa come muoversi, ha studiato alla corte del migliore di sempre.
Per prima cosa, il giorno successivo all’acclamazione, ha spedito un messo a Nicomedia. L’attesa è per i codardi: che Galerio sappia con chi ha a che fare.
La risposta tarda: sessanta giorni e ancora niente; colpa delle distanze, migliaia di leghe sotto al sole, di briganti e insidie a ogni angolo.
Sessanta giorni indaffarati.
Mentre l’Augusto d’Oriente rimuginava sul fatto compiuto, Costantino s’è dato da fare: ha disposto il primo conio. Monete nuove di zecca, d’oro e d’argento. L’effigie scelta con cura: il sembiante simile a Costanzo, il corpo massiccio, a bulino nel metallo prezioso.
Ha discusso parecchio con Croco: l’alemanno è una vecchia volpe. Ha servito troppi anni sotto il Pallido per non sapere come funziona: s’intende di politica, ...