Silenzi
eBook - ePub

Silenzi

  1. 140 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Inseguendo il sogno del boom economico, dispensatore di ricchezze e felicità, la famiglia Sartori si trasferisce dalla campagna alla città industrializzata. Ma Ottavio, il padre, si ritrova quasi subito in cassa integrazione, divorato dalle rapide evoluzioni di un'economia governata dalla logica del profitto. Da questo momento in poi, tutto precipita inarrestabilmente verso un destino tragico che si accanisce in particolare contro Marianna, la figlia più giovane e più fragile. Tormentata dalla paura di non piacere a nessuno perché povera, la ragazza si rifugia in un cimitero e proprio in quel luogo, dove vita e morte si confondono, ha un fugace incontro d'amore con un suo coetaneo che poi svanisce nel nulla regalandole una gravidanza vissuta come colpa e possessione diabolica. Vittorino Andreoli, autorevole studioso della psiche umana, racconta magistralmente l'innocenza ferita e umiliata di un'adolescente che non trova conforto al suo bisogno d'amore. E in questo suo nuovo romanzo, in cui si fondono tutte le questioni che lo appassionano - il cinismo della società attuale, il denaro come unico mezzo per emergere, il disprezzo per gli "ultimi", il ricordo dei morti la cui ombra continua a proiettarsi sui vivi - illumina quel buio interiore che sottilmente invade i meandri dell'anima, e toglie la speranza soprattutto ai più deboli, portandosi via il futuro e il sogno di una vita migliore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2017
Print ISBN
9788817018432
eBook ISBN
9788858691618
Vittorino Andreoli

Silenzi

Logo grafico Rizzoli
Quando i silenzi urlano
Aveva quindici anni appena compiuti. Non si era fatta una gran festa di compleanno. La famiglia di Marianna era povera, apparteneva a quella povertà mascherata che si veste persino di camicie bianche e di abiti lavati e ben stirati. Una povertà che si copre di dignità, ma che non la cambia sostanzialmente. E le preoccupazioni per sopravvivere tengono lontano dalle feste e dalle feste di compleanno.
Suo padre lavorava, anche se con continue interruzioni per «cassa integrazione» e per scioperi con cui gli operai cercavano di ribellarsi alla situazione che li aveva relegati tra gli esuberi, dentro un inutile che occorreva eliminare o perlomeno ridurre nella sua entità.
L’allargamento delle economie fino alla dimensione mondiale aveva posto le nazioni avanzate in una profonda crisi poiché i lavoratori erano titolari di diritti che mancavano nei Paesi in via di sviluppo, e così la produzione veniva trasferita in quelle aeree in cui un uomo costava poco.
Il padre di Marianna manteneva il posto, ma faceva sempre di meno e percepiva sempre di meno, mentre cresceva la sua sensazione di non avere un senso, di trovarsi nelle condizioni di un infermo che viene soccorso, ma non guarito.
Altro che compleanno, bisognava sopravvivere.
La madre non poteva nemmeno più andare a pulire pavimenti «a ore», poiché con una spesa minore i Signori potevano permettersi l’opera «continua» di una extracomunitaria.
E c’erano altri due figli a cui pensare.
Nessuno in quella famiglia mostrava la povertà apertamente, stendendo le mani, seduto sul sagrato di una chiesa e sperando nell’aiuto del Signore e nella bontà dei suoi fedeli, ma piuttosto la nascondeva
Il padre di Marianna il mattino si alzava e, all’ora in cui in passato raggiungeva le acciaierie, usciva di casa e finiva per rintanarsi in luoghi in cui non poteva essere visto dai vicini del quartiere dove viveva, perché, vivaddio, lui era un operaio, non un nulla facente che campa di carità. Si ricordava di quando gli operai erano una forza importante, avevano voce. Del tempo in cui sedevano allo stesso tavolo del padrone e chiedevano di controllare le strategie industriali e quindi il capitale.
Adesso il mondo della produzione si stava spostando in «paradisi» in cui gli operai erano disposti a qualsiasi sacrificio e si accontentavano di un qualsiasi salario, senza avanzare richieste di sicurezza per la loro salute, senza pretendere il rispetto dei diritti della donna.
Il mondo sottosviluppato stava uccidendo quello tecnologicamente avanzato.
Marianna andava ancora a scuola, anche se con poca voglia. Si sentiva vuota, non riusciva ad attribuire all’esistenza un significato; percepiva che tra povertà, nuda o mascherata, e ricchezza la distanza era infinita e non sapeva su quale base si stabilisse questa distinzione e perché mai la sua famiglia non avesse nulla mentre altre potevano spendere senza freni.
Solo la madre le diede un bacio la mattina del compleanno e non disse nulla poiché non aveva nulla di concreto da darle, non c’era un centesimo nelle casse di famiglia. Consumava il tempo a inventare come vivere di quel poco che la cassa integrazione permetteva. E le prospettive erano di un licenziamento, se l’azienda avesse chiuso del tutto o fosse fallita e avesse cambiato nome con cui poi continuare nei Paesi in via di sviluppo.
Insomma, bastava guardare dentro la famiglia Sartori per accorgersi che il lavoro stava per morire in quella città e che ormai l’uomo doveva vivere senza la prospettiva di trovare un’occupazione.
La povertà nascosta, il ricordo di una dignità che stava scomparendo lasciavano immobili intere famiglie che non potevano più nulla.
La signora Sartori aveva pensato a un prestito, ma non sapeva che garanzie offrire e non avrebbe potuto ottenerlo se non rivolgendosi agli strozzini, vendendosi al ricatto.
Anche lui, quell’operaio noto per la sua forza e capace di alzare spranghe di ferro che abitualmente richiedevano due uomini, aveva pensato, nei momenti di disperazione, di risolvere il problema alla maniera dei fuorilegge, intimorendo le persone e rubando. Ma non era capace di farlo e si vedeva ladro solo nella fantasia.
Passava il tempo a immaginare la ricchezza di chi poteva fare quello che voleva, sulla scia non delle necessità, ma del capriccio.
Ma che senso ha pensare quando non si può agire? L’operaio è uno che fa, non uno che pensa.
Non c’era spazio nemmeno per la lotta.
Non esisteva più il padrone, quello che un tempo si poteva affrontare e persino spaventare. Ora aveva il volto di una società per azioni, sminuzzata in tanti anonimi che potevano imporre senza essere nemmeno individuati, come il diavolo che produce danni dappertutto, ma non ha un volto e certo non un indirizzo dove poterlo raggiungere.
Anche quando si scioperava, lo si faceva contro un Nessuno che non corre alcun rischio, nemmeno quello di essere additato come ingiusto e disumano. Non si sapeva chi fosse.
Marianna di queste problematiche e di questi imbrogli del mondo non sapeva nulla.
Quel mattino, mentre si recava a scuola, cercava di riassumere i suoi anni e non sapeva trovare una formula che li rappresentasse tutti.
Eppure non aveva molte cose depositate nel suo passato, come se fosse vissuta invano, come nemmeno ci fosse stata.
Senza trovare una parola che esprimesse quei quindici anni già consumati, sentiva una strana malinconia, quella di chi raggiunge il banco di una classe di scuola con l’impressione di essere morta da sempre e di celebrare quel giorno il compleanno della morte, della propria morte.
Quindici anni di morte.
Sul banco si era seduto un cadavere, anche se di una ragazza graziosa, con due occhi scuri che sembravano penetrare dentro le cose e le persone su cui si posavano.
Immaginava l’arrivo dei sedici e poi dei diciassette e, via via, dei diciotto, diciannove, venti..., come il persistere del nonsenso, di una solitudine che sentiva già pesante e che avvertiva sempre più ingombrante in quella proiezione che si chiama futuro e che si disegnava su una lavagna nera, ma senza che nulla vi rimanesse segnato sopra.
Da un nulla verso un nulla, attraverso l’insoddisfazione.
Non riusciva certo a seguire quanto avveniva in quell’aula: un gioco paradossale che si svolgeva su parametri che non avevano niente da condividere con la sua vita.
L’ora di Storia conduceva in un mondo che non richiamava il quotidiano, la propria storia, quella della sua famiglia.
I teoremi di matematica non sfioravano nemmeno i calcoli che la madre ripeteva, sperando in conclusioni più benevoli di quelle proprie della tragedia.
C’erano mondi diversi seduti su quei banchi, logiche differenti, storie che nessuno raccontava fingendo di trovare interessante quella dei Gracchi o di Napoleone, o della Grecia antica.
E Marianna dentro il deserto della sua mente incontrava il volto del padre e poi quello della madre e di Giulio, il fratello minore, e poi di Katia, la sorella che era già fuori di casa. E li vedeva tristi, dipinti di sorrisi di circostanza che sapevano di agonia.
Tutto muore in un deserto.
Come un cumulo di sabbia, la vita poteva solo essere sbattuta qua e là dal vento e rimanere sabbia per sempre.
Quindici anni di vuoto, con prospettive vuote.
La povertà genera solo povertà. Anno dopo anno, fino alla consumazione di un tempo che se non è di dolore, sa di inconsapevolezza. E l’incoscienza è tra le espressioni più tristi della sofferenza poiché cerca di nasconderla a se stessi. E allora si sta al mondo cadaveri.
Almeno la morte vera non è dolore. È semplicemente nulla.
Quindici anni, quindici lunghi anni che si riassumevano in un niente, in un vuoto fatto di sabbia e di vento che cancellava una duna per rifarla identica un po’ più avanti.
Il padre a casa non parlava, la madre stava zitta e qualche volta la si sentiva piangere, il fratello taceva. In quella casa che sapeva di cimitero a parlare era uno stupido televisore che recitava una folle farsa capace solo di coprire la disfatta di quella vita.
Un telefonino Marianna lo possedeva, ma era vecchio: l’aveva comperato mesi prima da un compagno di scuola che ne aveva acquistato uno nuovo.
Sapeva che lo avrebbe usato poco poiché le ricariche si consumano presto, ma anche perché non aveva molti numeri da comporre: qualche volta avrebbe voluto chiamare, ma non c’era nessuno con cui farlo.
Quel telefonino sembrava l’ombra inconsistente della società del benessere, della tecnologia avanzata.
Si portava dietro, dentro la cartella, un telefonino morto, con una scheda magnetica che ormai non respirava più.
La solitudine si era accentuata in quel giorno, in una ricorrenza che richiamava alla festa, a una celebrazione di gioia e persino di ringraziamento per la vita e per gli anni che già erano trascorsi.
Il compleanno doveva simboleggiare la rinascita periodica come auspicio perché le cose andassero ancora meglio.
La vita è una esperienza che parte dal nulla poiché si arriva dal nulla. Dal nulla alla vita.
A Marianna non sembrava che questa parola contenesse, come uno scrigno meraviglioso, qualche cosa di straordinario. Era fatta di nulla, e non si contrapponeva al nulla.
Il nonsenso di quello scorrere del tempo, di quella conta degli anni.
Il compleanno generava in lei una tristezza ancora maggiore, come se avesse la percezione di ciò che si dovrebbe festeggiare, assieme però alla constatazione che non c’era proprio nulla di cui gioire. E non si può certo esaltare la vita quando non la si distingue dalla morte.
Lo stimolo a godere rende ancora più tristi se non c’è nessuno con cui stare e se l’età raggiunta non appare un motivo di gioia, poiché il tempo sa di vuoto e solo di vuoto.
Nessuno a scuola sapeva di quella ricorrenza: un avvenimento inutile per gli altri e insopportabile per se stessa.
Si trovava nella condizione di essere senza essere, di vivere semplicemente da morta, anche se con un corpo che si muoveva, un corpo di soli quindici anni.
Non si piaceva, ed era convinta di conseguenza di non interessare a nessuno, di essere una oscenità da nascondere dentro abiti che le cancellassero il corpo.
Pensava a quelli neri della mamma, con quel lungo rosario di bottoni sul davanti: una veste senza alcuna forma, come la tunica di una monaca già sepolta alla vita del mondo.
La ricorrenza del compleanno era motivo di una tristezza infinita, non solo perché la festa era impossibile, ma poiché soltanto il pensarla apportava malinconia.
Non c’era motivo di rallegrarsi, né per essere nata, né per essere cresciuta fino a quello stadio.
Anche quel giorno scorreva inutile, monotono come il battito meccanico dei secondi.
Nella gioia il tempo passa veloce, nella tristezza rallenta e può giungere alla dimensione dell’eterno e della persistenza infinita.
Una danza d’ossa al suono del Dies irae.
Guardava durante l’intervallo i suoi compagni e compagne di scuola, forse sperava in un sorriso, in un augurio che costano poco, ma vedendoli indifferenti, non solo alla sua età ma alla sua stessa esistenza, si sentiva ancor più a disagio.
Del resto non sapevano e lei non lo aveva detto a nessuno, terrorizzata che quell’occasione potesse richiedere di riunirsi a casa sua per fare festa, come accadeva sovente per altri compleanni che non l’avevano comunque mai vista partecipe e forse volutamente esclusa.
Compiva quindici anni tra coetanei che non la vedevano.
Una morta che cammina.
E la morte non si festeggia se non nel regno delle tenebre, nel regno del nulla.
Aveva sorriso a una compagna che le era simpatica, ma si limitò a scambiare un’espressione di pura convenienza.
Chiuse gli occhi e vide il volto di quel gigante che lavorava in ferriera, del padre che ora era in cassa integrazione.
L’aveva definita, una volta, «una cassa da morto, una cassa per morire».
E certo estendeva quel...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio